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L'universo che sta sotto le parole
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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 72
Dicembre 2005

Editoriale: Noi siamo degli altri

Questo verso di Monica Pavani può avere due significati: noi siamo altri, noi apparteniamo agli altri. La verità sottesa è comunque che sono gli altri a dirci chi siamo, a definirci e al tempo stesso gli altri acquistano un'identità grazie a noi. La catastrofica bellezza dell'annuncio cristiano è che l'inafferrabilmente, misterioso e indefinibilie Altro si è fatto altro, in Cristo, per renderci consapevoli, attraverso il Salvatore stesso, che c'è il divino in noi (e che lo stesso divinio ha "bisogno" di noi per definirsi, cioè per darsi una forma a noi accessibile). In questo numero natalizio troviamo la penna brillante e sarcastica di Bolivar, una acuta recensione del nuovo libro di Martino Baldi, un ricordo vibrante di Vincenzo D'Alessio, una mail di Massimo Morasso su due nostri libri, 10 Assaggi FaraPoetici, 6 sferzate poetiche di Matteo Marini, un idillio di Maria Rita Stefanini e una poesia preghiera di Ardea Montebelli. Buon Natale!

La sagoma d’uomo e il gruppo vedove zitelle + racc SMS

di Farbizio Bolivar

La Gina quando parlava del suo collega diceva che era una sagoma che una sagoma così non doveva sprecare tempo in un ufficio. Secondo lei doveva fare cabaret, doveva fare.
Che quando c’è lui, guarda, c’è sempre da morir dal ridere, diceva la Gina.
Lui raccontava barzellette, faceva le battute e prendeva in giro tutto e tutti. Era proprio divertente, a sentir la Gina.
E poi è anche libero, aggiungeva sempre quando parlava di lui alle sue amiche.
Loro, le sue amiche, erano rimaste molto incuriosite da questa sagoma d’uomo che era anche libero.
Stasera viene a ballare il liscio con noi, aveva detto un giorno la Gina.
Oh finalmente, aveva detto il gruppo vedove zitelle. Finalmente lo incontriamo, quest’uomo simpatico simpaticissimo che è anche libero.
L’appuntamento era davanti alla discoteca. Le amiche erano lì nel parcheggio che si complimentavano a vicenda per il vestito nuovo. Erano tutte profumate, pettinate, ingioiellate, scollate e truccate che sembravano all’asta. Avevano addosso tanto di quel trucco da colorare un condominio intero. Trecento uno, trecento due, trecento tre, pum, aggiudicate a quell’imbianchino laggiù, avrebbe detto l’omino dell’asta.
Eccolo che arriva, il nostro uomo, aveva detto la Gina.
Le vedove zitelle l’avevano visto e poi si erano guardate tra loro con la bocca tutta tirata ed il mento all’indentro. Che quella di tirar dentro il mento è una cosa che san fare solo le vedove e le zitelle.
Ma Dio se è brutto ma Dio se è brutto, avevano detto tutte in coro a bassa voce.
Che in effetti non era mica bello, l’uomo simpatico. Era un tipetto basso, calvo, zoppo, con la pancia floscia, le orecchie a maniglia e un naso che sembrava un abat-jour. E pensare che la Gina aveva detto che questa sagoma d’uomo aveva un non so che di Alain Delon. Che se lo veniva a sapere Alain Delon la denunciava per diffamazione, la denunciava.
Loro erano in sette compresa la Gina, lui era da solo. Erano seduti sui divanetti vicino alla pista. La musica doveva ancora iniziare. Lui era lì in un angolino che non diceva niente.
Ogni tanto le vedove zitelle parlottavano tra loro a voce bassa. C’era un clima strano. Ad un certo punto una si era alzata per andare in bagno e tutte le altre l’avevano seguita come papere. Alain Delon era rimasto lì da solo.
Vacca bestia se sono brutte, si era detto. Sono tutte brutte da far schifo. Che io non sarò mica bello, ma queste qua sono proprio delle super cozze.
Che lui quando la Gina gli aveva detto che le sue amiche erano libere, si era fatto mille illusioni. E quella sera lì si era messo il vestito della festa con la cravatta firmata.
Le mie amiche sono così belle ma così belle che io delle donne così belle non le ho mai viste neanche alla televisione, gli aveva detto la Gina qualche giorno prima. E poi ce n’è una che è identica a Rita Hayworth, gli aveva detto.
Ma va là, le aveva detto lui.
Uguale uguale, aveva ribadito la Gina.
Che appena le aveva viste, lui aveva pensato che la Hayworth non fosse venuta. Invece c’era, era quella vestita di rosso con il culone formato baule e le smagliature delle tette che le partivano dal collo. Assomigliava più ad un calamaro gigante che alla Hayworth.
Allora? Non è simpatico? aveva chiesto la Gina alla riunione nella toilette.
Ma se non dice una parola! avevano protestato le vedove zitelle.
Vedrai che appena si scalda c’è da morir dal ridere, aveva detto la Gina.
Quella sera erano rimasti seduti sui divanetti vicino alla pista per tre ore. Sembravano a casa del morto dopo il rosario. Ogni tanto qualcuno diceva qualcosa di scontato e qualcun altro si sforzava di sorridere. Il tempo non passava più. Si sarebbe annoiato anche il morto. Che due maroni questo rosario, avrebbe detto il morto.
Ma dovevi sentire la Gina il giorno dopo con sua sorella.
Guarda, le aveva detto. Abbiamo passato una serata così bella ma così bella che alla prossima non devi assolutamente mancare. Ci siamo divertiti così tanto che piangevo dal ridere. Proprio una bella compagnia. Proprio una serata divertente divertentissima. Proprio una sagoma d’uomo, il mio collega. Pensa che è libero ed è sputato a Clark Gable.
Ma va là, le aveva detto la sorella incuriosita.
Uguale uguale, aveva ribadito la Gina.

Natale in famiglia
Scendeva la neve. Proprio la sera di Natale. I bimbi, allegri, giocavano col cane. Presto sarebbero arrivati i regali. Marito e moglie erano al settimo cielo. La porta si spalancò di colpo. Sbam! Era entrato il nonno in canottiera, appena fuggito dall´ospizio. Aveva gli occhi spiritati e una stecca da biliardo in mano. Dove sono gli indiani? chiese con voce roca. Sono andati di là, dissero in coro marito e moglie. Il vecchio chiuse e se ne andò. Bene, era di nuovo Natale.

Non era per quello
Tre Palle Joe era seduto nel bar di Sam. Il suo culone strabordava dallo sgabello. Non parlava da ore. Cazzo hai oggi? gli chiese Sam. Diana se n´è andata. Per la palla in più? fece Sam. No, non per quello. Perchè sei grasso e gobbo? No. Allora per la calvizie! No. Perchè zoppichi? Neanche. Perchè sei strabico e sdentato? No, non per quello. Ci sono, per il tuo alito fetido! È morta, Sam, si è sparata, ed io ero lì. Merda Joe, dovevi fermarla! Non è facile senza braccia, Sam.


Fabrizio Bolivar (1968) vive a Mantova e lavora come impiegato in una ditta che si occupa di servizi sul territorio. Ha scritto parecchi racconti e sta ultimando il suo primo romanzo. Assieme ad un amico scrive sceneggiature cinematografiche: hanno realizzato un lungometraggio amatoriale mentre la loro sceneggiatura di un corto è stata realizzata da Studio Universal.

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Su Luce ritirata di Monica Pavani

di Alessandro Ramberti

Questa raccolta ha vinto il Premio Senigallia "Spiaggia di velluto" 2005, ed è stata curata da Domenico Pergolesi nell'elegante pubblicazione delle Edizioni La Fenice, con prefazione di Massimo Scrignòli (giurato del premio assieme ad Alberto Bertoni, Bianca Garavelli, Vincenzo Guarracino, Pasquale Maffeo, Francesco Scarabicchi).
Si tratta di un bel libro: Monica Pavani (nata a Ferrara nel 1968) ha una maturità espressiva notevole, una essenzialità garbata e intensa, con "picchi" di poesia assoluta che difficilmente possono passare inosservati: "Noi siamo degli altri / che siamo noi / e restano / di pietra", così inizia la silloge e non sarà inutile osservare che questi versi sono come pronunicati da Camille, allieva e per un tratto amante del grande scultore Rodin. Un'arte, la scultura, considerata poco femminile, eppure Camille vi si immerge: "Io sto bene / quando la frenesia dello scalpello / dice / che il mio cuore si è dissolto" (p. 22); "Pensavo (…) / che non avrei più perso / le venature della mia ombra" (p. 26). Scolpire è forse l'unico modo di sopravvivere all'abbandono dell'amato: "lui continua ad abbracciare nel mio corpo / la porta aperta sull'inferno / del gioire / prima della tentazione di cadere" (p. 38); "Il linguaggio non mi ama / solo il marmo in me / aveva fissa dimora" (p. 48); "A distanza di anni / non so più / se scolpire fosse credere // o sottrarre vita da me / per darla alle figure" (p. 53); "Toglievo tutto tutto / intorno e le mie sculture / ridotte all'osso la dicevano / lunga sulla solidità / dello spirito" (p. 55); "restano in me / come un canto dell'occhio / e io guardondole / ascolto" (p. 59).
Come si vede versi non si adagiano sui metri che in maniera a volte criptica ricorrono più spesso in poesia, il ritmo è dato dalle pause, dagli a capo, dalle cesure, quasi segnali di un lavoro di scavo che ha eliminato (come fa lo sculture) il superfluo per liberare la forma essenziale, il contenuto nascosto, la musica delle allitterazioni e il ritmo basilare del respiro e del cuore. Un modo di versificare che raramente ha cadute di intensità, che emoziona come emozionano tutte le cose che "raccontano" una verità e sanno che sono al massimo dei simboli (in questo lo stile dell'autrice mi ricorda quello forse ancora più asciutto ed incisivo di Ardea Montebelli).
È una scrittura, quella di Pavani, che arriva al nocciolo, un racconto che è allegoria del senso che ciascuno di noi va cercando in sé e fuori di sé, oltre quel velo illusorio con cui rivestiamo (o siamo spinti a rivestire) la realtà: "chiudo la vita / fuori dalle persiane / ma la notte / s'infiltra dalle fessure / e il mattino, al risveglio, / inciampa nella corteccia / di me senza linfa" (p. 39); "sono io lo sguardo nel nulla / o l'occhio dello spazio / che mi parla" (p. 46); "scolpire è pensare / la luce resistente al marmo" (p. 23).
Monica Pavani ha pubblicato Fugatincanti (Mobydick, 1966 - premio "Bologna Poesia" 1998) e Con la pelle accanto (Mobydick, 2000). È traduttrice e collabora con diverse case editrici (attualmente sta traducendo il romanzo Bitter Eden dello scrittore sudafricano Tatamkhulu Afrika).

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Tra i desideri e il senno, tra i sogni e la memoria
Su Capitoli della commedia di Martino Baldi

di Chiara De Luca

La poesia di Martino Baldi è prima di tutto "chiara", estremamente diretta, immediata, eppure non "trasparente", perché percorsa da venature che la striano, porte a scomparsa, o botole mimetiche sul palcoscenico, che lasciano ampio margine alla riflessione (o interazione) dello spettatore-lettore. Il suo intento pare essere prima di tutto quello di comunicare, di schiudere per gradi, e infine aprire (o squarciare) un sipario, lasciando che sia ciò che nasconde a mostrarsi da sé. E il poeta non mette in scena il proprio universo interiore, né la propria esperienza individuale presa nella sua unicità ed esemplarità. Piuttosto lascia entrare in scena il mondo da cui si lascia quotidianamente avvolgere e assorbire, a tratti annichilire. In Capitoli della commedia l’esperienza del singolo si incontra (e scontra) con quella collettiva, lo stato d’animo emerge dalla restituzione del dato oggettivo, dalla caratterizzazione accurata, per gradi e sfumature, dei suoi cari, dei vicini, degli abitanti della "Casa gialla", della gente che incontra sulla strada.
Allo "spettacolo" si intesse una musica di sottofondo, fatta di richiami a Pasolini a De Angelis, Sereni, Penna, ma anche a De André, Carmen Consoli, Brassens e Cohen, a Nick Cave e Tom Waits. E in parte l’andamento di questa poesia oscilla in effetti tra la dolcezza disperata, endemica, della voce di Carmen Consoli, e la malinconia reattiva di Brassens, tra l’ironia dolente e provocatoria di De André e lo scavo paziente e teso di Cohen, tra gli estrosi chiaroscuri del camaleontico Nick Cave e le esplorazioni "sotterranee" di Tom Waits. E su tutto "Suona Piazzolla / un tango inesorabile per l’anima / inespugnabile per i loro piedi" (Piazzolla).
L’Io lirico sta in disparte, non nel proscenio, a mo’ di suggeritore, né in prima fila, a mo’ di regista che si gode il risultato delle prove, bensì dietro le quinte, da osservatore privilegiato, attento, spettatore lui stesso dell’improvvisazione cui partecipa. Vividi e spesso dolorosi sono i ritratti di persone estranee, eppure sentite vicine in virtù della condivisione del medesimo senso di spaesamento di fronte al gelido scorrere della realtà circostante, ad un silenzio che supera i rumori della città e resta dentro, fino al momento in cui, in solitudine, si colma di parole. Ma queste persone non sono osservate con superiore e bonario sguardo paternalistico (come in tanta poesia contemporanea), né con affettata benevolenza, che le avvolge in un’aurea di idealizzata fissità, quanto piuttosto com-prese dalle braccia di una travagliata pietas. Ne la Casa gialla, nata dall’esperienza di Baldi come volontario e obiettore di coscienza in un centro per handicappati mentali, quando si parla di "Fausto – mani di forbice", "(…) l’action painter della malattia, / calligrafo di ideogrammi mutanti / scritti per il suo dio"; o di Peppino, il "granatiere", che "Relaziona a modo suo, con tutte le femmine del posto:", e "salva sempre l’onore con la coerenza dell’immaginazione", l’intento non è quello di muovere a compassione, né quello di abbellire la realtà, adattandola ad un’accurata scenografia dipinta a tinte tenui, quanto piuttosto quello di descrivere, di far emergere, quello di comprendere e lasciarsi com-prendere, da chi pare "diverso", eppure non meno in grado di arricchirci. È nella intensità dello sguardo, nel suo attento posarsi sulla unicità di ciascuna delle persone incontrate che si mostra il desiderio di condivisione.
La voce che si cerca, che si chiama a riempire il silenzio, lo spazio vuoto di questa sorta di collettiva rappresentazione, in cui nessuno è protagonista, e tutti improvvisano, non è il bel dire, la parola studiata e ricercata. Baldi non fa appello al copione recitato a memoria in libri e salotti letterari, bensì alla parola di tutti i giorni, quella che appartiene a noi e alle persone che incontriamo, o in cui ci imbattiamo quotidianamente. Fin nella ballata di apertura, Il giorno che uccisi mio padre – che con Scripta volant e Canzonetta costituisce una vera e propria dichiarazione di poetica – si presentano molte delle tematiche che saranno poi sviluppate nelle sezioni successive, e si rivela in parte l’intento principale di questo libro, in cui la parola non prende vie traverse per arrivare a segno, non si trucca e maschera da buffone della commedia, bensì vi si immerge, sporcandosi e liberandosi, prendendo le distanze da chi disquisisce sul nulla, il cui dire non ha alcuna attinenza con la vita nel momento in cui a lei si chiedano risposte: "Dopo la colazione (mi sembra respirasse ancora) / ho letto le stesse cose del giorno precedente / sugli stessi libri, ma per poche ore. / C’era un bel tizio che diceva nulla / un altro rispondeva ohibò / e come dialogavano… per dio! / Con tutti i crismi della letteratura / più accurata e più pura / soli tra loro" (Il giorno che uccisi mio padre).
Occorre allora liberarsi di tutti i padri, di tutti gli stili e condizionamenti formali, di tutto quanto è imposto dall’esterno ed esula dall’imperativo dell’arte, che arriva a coincidere con quello dell’esistenza del poeta, della sua legge interiore, estetica e morale.
La parola deve essere spogliata del superfluo, e l’intento di Baldi è quello di «strappare» da lei «quanto c’è d’umano», ovvero tutto quanto c’è di esplicitabile, comunicabile, trasmissibile, e di «farne pane», e "Di quanto ne rimane, / di quanto tace, / sangue". Tutto quanto resta nascosto e ineffabile, e alimenta la mente e lo spirito, deve cioè farsi corpo, proprio a mezzo della parola spogliata (Scripta volant).
Uno dei temi predominanti di questa raccolta, è quello della memoria, vista nella sua indistruttibile tenacia. La memoria è il fine e la condanna del pensiero, è ciò che ci dice chi siamo, chi siamo stati e vorremmo lasciarci alle spalle, ma non riusciamo a seminare. È la traccia sulla neve che vorremmo cancellare, ma non possiamo, perché è quella che dovremo seguire sulla strada del futuro, in virtù del fatto che nel presente si trovano le premesse di ciò che saremo. La memoria non è dunque l’insieme di ricordi e sensazioni rievocate, non è fatta di parole e nozioni, bensì di ciò che il passato ha prodotto in noi, che lo riscopriamo nel nostro essere, nei sussulti dei sensi. Memoria non significa soltanto "il funebre teatro / dei ricordi, memoria nobile / di ciò che non accadde" (Come Sereni), non significa un’esperienza morta (dunque sterile) all’interno di una bella tomba chiusa e inerte, non un dolore raffreddato, e in tal modo privato di dignità, bensì esperienza di corpo e sangue, rivissuta mediante le sensazioni che il rievocarla riproduce in noi: "E non nella memoria vive qualcosa; / è nei sussulti dei sensi che rinasce / ciò che da sempre non sappiamo e siamo, / l’insegnamento involontario dei sospiri / le cicatrici riaperte a ogni notte. / Il resto è un cimitero di ricordi: / tombe bellissime". È dal dolore che ci segna che traiamo insegnamento, rimodulandone la voce nell’andamento dei respiri.
Anche il passato, dunque, così come la parola, il pane, di Scripta volant, deve farsi sangue, alimentarci. Allora si chiede alla neve di spegnere il fuoco della memoria, di portare il freddo sulle cicatrici, di trovare una giustificazione alla sofferenza, a ciò che non è stato: «potesse riempire anche quel vuoto / quel buco nel palmo del passato / non solo di parole, dargli un senso / una temperatura esterna simile allo zero». Si chiede alla neve di fare tabula rasa, per potervi incidere il senso come un’orma, più che per tracciarne i confini nel calcarvi il vuoto involucro della parola. Ed ecco che il passato "torna a escogitare / occhi celesti e sorrisi con radici / nella terra asciutta di quello che ci tocca" (Explicit). Eppure è proprio la memoria a radicarci a ciò che siamo stati, a tenere saldo ciò che siamo, nel fornircene una possibile chiave di lettura.
Di conseguenza, al parricida de Il giorno che uccisi mio padre non resta che "espletare i doveri di cittadino", "scorrendo i titoli del televideo RAI, / e quelli d’uomo d’oggi / scrutinando le pagine 230 e 101", e prendere coscienza della propria condizione di sradicamento, che accomuna molti giovani della mia generazione: "L’ho ucciso perché non mi ha lasciato / nient’altro da ammazzare: morti i suoi padri / i suoi nonni e anche gli zii. I suoi fratelli: / morti. Tutti prima che generasse me». L’uccisione della figura vaga e inconsistente del padre è l’unica soluzione possibile per tentare di conferire un senso alternativo all’esistenza, «per innestare in una vita grigia / almeno un mito. Quello del parricida". Ma il delitto, il gesto individuale, affermativo a prescindere, si perde nella stessa indifferenza che lo aveva generato, e in cui era stato maturato.
L’indifferenza alla solitudine del singolo torna come uno dei temi cardine in Lattine, che si apre con un eloquente sguardo in una casa tipica dei giorni nostri, dove ci si può anche masturbare "sui porno in russo / o in giapponese", dove non manca nulla salvo il calore di un gesto: "Ho trentadue lattine di birra gelata / - 'un classico' penso – nel mio / frigorifero nuovo di nuova concezione / ecorefrigerato via telefono / da un provider del Tibet" (I).
L’unica possibilità di scampo è allora quella di invocare Dio affinché "una catastrofe mondiale / si abbatta sul mondo esterrefatto / dei mangioni e ci riservi / la carestia più lunga della Storia / per un digiuno senza redenzione" (II). E la catastrofe accomunerà forse anche i più coerenti "avversatori di questa vergogna / l’anarchico che mette le bombe nei Mc Donald’s, / quello che almeno è in piazza / a ogni manifestazione o l’altro / che non mangia carne né pesce / e nemmeno le uova" (III).
Credo che qui non si parli di un Dio trascendente e onnipotente, quanto piuttosto di un dio che partecipa da attore allo spettacolo, improvvisando, di quello stesso "Dio sottinteso / che non ha mai chiarito / se esista cosa dietro ciò che si vede", di quello stesso «dio dell’orzo, del luppolo e del malto tostato», dalla cui «nolontà» è scaturita la società in cui viviamo (V). All’uomo pare non restare altro che abbandonarsi alla propria "nolontà", accettando il male, lasciandosene pervadere, per imparare a conoscerlo, per lasciarsi com-prendere anche da lui: «Mi arrendo al piacere amaro / della Orval, alla fragranza nuda del male / alla tentazione adulta, al cerebrale intento / di non opporsi al peccato, di farsi penetrare / dalla pena di ovunque, distillata;" (Orval).
"Abbandonarsi alla Orval, che è una birra profonda, acre, spigolosa, amara", dice Baldi, "significa abituarsi pian piano non solo a pensare ma anche a sentire liberamente. Lasciarsi percorrere dalla sua disarmonia significa allenarsi a percepire la bellezza anche disarmonica e imperfetta del tutto. E della sua libertà. E di quale violenza ci sia nell'affermazione di un principio formale piuttosto che di un altro, in un’armonia apparecchiata ad arte per rassicurare, in uno stile predisposto per il 'funzionamento', in ogni riduzione di qualsiasi cosa a qualcos’altro. Perfino di un supposto male a un supposto bene".
Nessuna concessione a un buonismo di maniera in queste poesie, spesso provocatorie e venate di una ironia dolente, nessuna promessa di redenzione gratuita, nessun consolatorio e comodo happy end posticcio: "Ma il tempo è il tempo: mai stato gentiluomo / coi gentiluomini; con gli altri, forse. / Mai visto qualcosa che finisce bene: / un happy end. Mai visto un uomo / generoso e solo, amato fino in fondo. Mai. / Niente di nuovo, dunque:" (Explicit).
Eppure la "nolontà" individuale non è mai fatta fino in fondo. Dentro, nel nucleo, dietro le quinte, c’è qualcosa che resiste e che lotta per non arrendersi al male, per non lasciarsene fagocitare, qualcosa che lavora per dargli un nome da restituire alla memoria: "Mi difendo come posso, inutilmente / da questa interminata apocalisse estiva" (Apocalisse estiva). Ammettere l’esistenza del male, la sua gratuità e ineluttabilità non significa infatti accettarne passivamente i colpi, bensì sentirli in tutta la loro durezza, e tentare di pararli, anche se le cose "i fili del telefono nel grigio / gli autobus, gli alberi, le case / gli scooter la fontana e i passeggini / stanno lì e continuano a capire / così poco di noi, gli uomini meno / (forse qualcosa i cani)" (Explicit); anche se "La strada, vista da su, è indifferente e immobile / come un Sahara di cemento" (Esodo, II), che inghiotte immagini della memoria.
Per un attimo ci si arrende allora al non capire, si assume sul volto "lo sguardo disorientato e opaco / dei due cinesi che hanno affittato il fondo sotto casa / per iniziare un assurdo commercio di vetri e collanine / a migliaia di miglia da Pechino" (Esodo, II), si lotta contro la memoria, ma si ha in realtà bisogno di salvarla ("Eppure guardo, torno, quasi chiamato, osservo ancora…"). Si osservano le cose, inerti, immobili, all’apparenza non partecipi. Eppure, se le si guarda davvero, se si interroga e ascolta la loro segreta voce, si può arrivare a comprendere se stessi. In tal modo si preserva la memoria, difendendola dall’oblio, che riporterebbe «una temperatura esterna simile allo zero», la stessa delle belle tombe inerti che custodiscono un insieme di ricordi divenuti sterili.
Non nel risultato risiede il senso della lotta, e neppure nella fedeltà a un copione prestabilito, bensì nell’improvvisazione, negli errori e nelle cadute che essa implica, che sono il prezzo da pagare per custodire l’integrità del vero:

(…) quanto considerare le interviste garbate e sudditanti
di pseudo-giornalisti ai nostri governanti, le antologie
che mettono la vita in formalina. E quanto invece
il matrimonio di un povero col cielo, quanto
sperare che resti saldo un amore o un’amicizia,
che un mostro non inghiotta i nostri abbracci
che ci sia un sorriso a cui afferrarsi, un patto stretto
tra i desideri e il senno, tra i sogni e la memoria;
quanto sperare o disperare che non vengano meno
l’indignazione, la paura, l’angoscia per il vuoto,
la forza di provarci ad ogni costo e la coscienza
della nostra pochezza. E la malinconia,
con tutto quanto è il prezzo da pagare
per difendere la vita da ciò che la mortifica e cancella.
(…)
Martino Baldi, 1970, è nato e vive in provincia di Pistoia.
Ha conseguito il premio “A. Palazzeschi” con una tesi di laurea sugli esordi di Goffredo Parise. Suoi racconti, poesie e interventi di critica letteraria e cinematografica sono stati pubblicati e segnalati in plaquette, antologie e riviste italiane e straniere. In particolare, si ricorda la prosa Morte improvvisa di un portiere di notte (2001) e la plaquette di poesie Trentadue lattine (2002), uscite entrambe per la Ass Cult Press di Pistoia. È stato fondatore dell’e-magazine Nabanassar e vicedirettore del trimestrale Ciminiera. Ha curato le ricerche e gli apparati critici del volume Piero Bigongiari. Voci in un labirinto (Pagliai Polistampa, Firenze 2000) e della relativa mostra bio-bibliografica. Capitoli della commedia (Atelier, 2005) è il suo primo volume personale di versi. Come operatore culturale ha ideato e curato eventi per l’Università di Firenze, l’Estate Fiorentina e il Club Pirobutirro di Pistoia. Attivo in diversi campi dell’informazione, della cultura e dello spettacolo, attualmente lavora per la compagnia di danza contemporanea "Aldes/Roberto Castello" e tiene docenze e collaborazioni nell’ambito della progettazione culturale.

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alle vittime del 23.11.1980

di Vincenzo D'Alessio

la morte è terribile amore mio
lo scrivo su quaderni antichi
fossile scolpito pietra dura
grigia tutte le mattine
gli usurai hanno lavorato questa
notte e nel giorno la città
lucente confonde il viaggiatore
i giorni del dolore e le macerie
sembre passato il terrore delle scosse
tutte è sepolto e canta
la radio stonata sopra il silenzio
la tavola è imbandita e i cadaveri
sono polvere come quei giorni
tu puoi sorprenderli mentre corrono
gli sciacalli sopra i fossi dove
da poco è sorto solitario
un papavero rosso che vede.

Vincenzo D'Alessio è nato a Solofra (AV) nel 1950. Ha pubblicato La valigia del meridionale (1975), Un caso del sud (1976), Oltre il verde (1989), Lo scoglio (1990), Quando sarai lontana (1991), L'altra faccia della luna (1994), Costa di Amalfi (1995), La mia terra (1996), Ippocampo (1998), D'amore e d'altri mali (1999). Vive a Montoro Inferiore (AV).

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In cerca + La coda della galassia

di Massimo Morasso

Caro Ramberti,
ho letto con attenzione il piccolo libro interrogante che hai avuto la gentilezza di darmi sabato sera. Ci sono cose, dentro, assai convincenti - e l'insieme restituisce il senso di un'esperienza poetica autentica, tutt'altro che "minore". Forse, fra le cose che dice Baldi c'è qualcosa di vero (ma tu già lo sai, tant'è che hai "osato" pubblicare un commento non tutto o punto salamelecchi come il suo!), proprio nel senso che il tono aforistico, la "disidratata" dizione tendente al concettismo di alcune poesie rischia, per così dire, cioè per dirla alla buona, di frenare un passo che - si immagina - potrebbe essere più spedito, più apertamente e talentuosamente colloquiale... Ma questo, naturalmente, entro un discorso che è comunque a suo modo già compiuto, fermo, senza cadute....
Roberta poi mi ha allungato il librone dell'antologia, che ho letto da capo a fondo in treno, nelle oltre 5 ore per Genova. Un libro bellissimo, secondo me, pur nei suoi alti e bassi da "cantiere aperto", oppure, perché no, bellissimo proprio anche in virtù di quegli alti e bassi, dell'onestà dell'azzardo (anche o in primis editoriale) che mette in piazza il lavoro di ventuno operai del linguaggio (qualcuno fa il capocantiere: Gianfranco, certo, e l'Adeodato, ma anche alcuni poco più che trentenni hanno tanta birra, come direbbe Galaverni, penso alla Zuccaro, all'ottima Chiara - e a quel talentuoso Federico!) senza nessun imbarazzo, quasi a voler dire: qui si fa poesia, si fatica, si costruisce ciascun per sé (anche) per tutti. È un po' forte dire: qui si fa la civiltà?, boh, può darsi, ma è quanto una volta chiuso il tomo mi è venuto da dire...
Complimenti dunque, e un abbraccio.

Massimo Morasso (Genova, 1964) ha tradotto e curato testi di W.B. Yeats (1994), Y. Goll (1996 e 1998), N.S. Momaday (1998) ed E. Meister (2000). Per L’Obliquo di Brescia ha pubblicato la trilogia La leggenda della primavera (Nel ritmo del ritorno, 1997; Distacco, 2000; Le storie dell’aria, 2000), prima delle quattro parti che compongono Carte d’identità, ciclo poetico a cui sta lavorando da un decennio. Nel 1999 ha curato la riedizione del “Supplemento letterario del Mare”, la rivista italiana di Ezra Pound. È redattore di “clanDestino”, “La Clessidra” e “Il Cormorano”. È presente in varie antologie, fra le quali Poesie di Dio, Einaudi, 1999; Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970-2000, Garzanti, 2001 e Così pregano i poeti, San Paolo, 2001. La sua ultima raccolta, Le poesie di Vivien Leigh. Canzoniere apocrifo, è un'intensa riflessione sull’amore e il dolore.

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Assaggi FaraPoetici

a cura di Alessandro Ramberti

Vi offriamo degli assaggi dei dieci autori raccolti in FaraPoesia, un libro a proposito del quale Giorgio Barberi Squarotti scrive: "La Parola non si perde davvero, e malgrado della povertà della vita d'oggi e dell'orrore della storia: è sempre viva, esemplare, illuminatrice e ammoniotoria."

L’inevitabile (da "Il colore dei sogni" di Galdys Basagoitia)

la sua risata
poi il cataclisma
la tempesta nelle viscere del mare
tutte le forze del mistero
nell’incantesimo degli occhi senza tempo
poi la voce simun allucinato
che inchiodava roventi stelle
negli alvei interni
carnali aurore
dolcissime torce fra le ombre
poi la voce
la testa deificata
il profondo imperativo dello sguardo
che elettrizzava la pelle
poi la forza del silenzio
che faceva crollare muraglie
quello inevitabile
che si faceva corpo


Ninna Nanna (da "Recapiti sbagliati per indirizzi falsi" di Daniele Borghi)

Vorrei cantare lente ninne nanne
alle tue piccole orecchie deliziose
mentre riposi nascosta dai capelli
mentre sogni un vecchio innamorato
che grida il tuo nome nella notte.

Vorrei poter cantare una ballata
con lo zucchero che bagna le parole
poggiando le mie labbra sul tuo collo
planando sulla pelle del tuo seno
con dita che somigliano a velluto.

Vorrei abbracciarti forte mentre dormi
sentire il tuo respiro unirsi al mio
come vento di anime gentili
che spinge forte dentro queste vele
di un amore nutrimento della vita.

Vorrei baciare la tua bocca muta
regina della frutta dell’estate
mangiarti come un pane ancora caldo
esplorarti lentamente tutto il corpo
con gli occhi, con le dita, con le labbra.


Per amore (da "QQ quasi quotidiana" di Carmelo Calabrò)

Per amore non va persa
La libertà di camminare soli
Di respirare una sigaretta
Guardando il campanile
Per amore non si rinuncia
Al silenzio dei pensieri
Alla lontananza dell’anima
Nei momenti lividi
Non c’è disagio o colpa
O pena di giustificazione
C’è solo, o dovrebbe,
La vicinanza discreta
Condivisa, profonda


Epilogo (da "Erateide… ne vorrei fare un giardino" di Paola Castagna)

Con queste
mani
antiche
consunte
a scrivere
nella speranza
solo allora
ti cospargerò di resina
e lenirò i mali
come alberi che tacciono
imparerò
a penetrare la corteccia tua
il mio tocco appiccicoso
sulla pelle
tu alcova perfetta
del mio essere che brama
mentre ascolto attenta
i fruscii
del silenzio.


XV (da "A che punto è la notte" di Narda Fattori)

E un mattino smetterò di cigolare
girerò su cardini esatti
3 solo le mie vene diranno l’imperfezione
poi sul limite della sera
in limine a qualche stella offuscata
6 alzerò uno scrocchio di ossa
per reggere la caduta del cielo
sotto il peso del suo mistero
9 non raccoglietemi più – sono in stand-by –
piccola carcassa che spia
dalla soglia l’approdo
12 davvero troppo uguale – un finale
senza ali né voli
una chirurgia senza dolore
15 lungo un viale di cipressi.


Ripostiglio (da "Il gatto nell'armadio" di Maria Lenti)

scope e scopettone
paletta e aspirone
scala-banchetto
scala a libretto
borsa scaldaletto
attrezzi fai da te
(armadio: ante tre)
asse per stirare
iron (stainless steel)
hair dryer

detersivi d’ogni tipo
(liquidi, solidi, polvere)
lavatrice
cucitrice
cucirini e bottoncini
aghi (tanti) grossi e fini

bilancia pesagrasso
bici levagrasso
carta e plastica da riuso
borse d’ogni uso
telefono in disuso

ciabatte perditempo
ventosa segnatempo
tenda da sole estiva
sdraio d’inverno-neve
spago fili e refe
rotoli della decenza
semi per l’avvenenza
……………………
……………………
(qualche rima sparsa
qualche mira arsa)


Sul corpo, senza esagerare (da "Buriane" di Roberto Mercadini)

Il corpo è la sordina
dello spirito.

È censura, buona creanza, strato d’ovatta
al passo d’un monotono tu-tum
tu-tum
tu-tum
il sangue circola diligente, minuzioso
parodiando
l’intimo vorticare
la più selvaggia vertigine.

E non s’innalza da terra che di poche spanne
il corpo
per esaltata che sia l’esultanza
per celeste che sia l’estasi

e nel più nudo abbraccio
quando
ondeggiando
si dice fra sé:
“Divamperà dal cuore il fuoco siderale
gronderò oro
mi farò tempesta
di certo.
Di certo mi sguscerà un angelo da ogni poro.”
Ecco
invece
zampilla sobrio il seme.


Terzo poema (da"Un'anima intera - dal Cantico dei Cantici" di Ardea Montebelli)

Il poeta
C’è nella poesia
un sottile legame con la vita
la parola entra nell’esistere
percependo le cose
con amore e violenza.
Un poeta misura le distanze
intimamente.

La sposa
Vieni più vicino
sulla strada che dal mare
porta verso valle
e sfocia nel silenzio delle isole.
Ricordi? Sognavamo nel giardino
un posto dentro il mare
dove l’acqua fosse acqua
e il buio fosse buio.
Non fuggire
ti ho cercato a lungo
non fuggire, vieni qui vicino
e guardami brillare.


L’ultimo pensiero del minatore russo (da "Il nostro esilio quotidiano" di Andrea Parato)

Ho cercato, ho cercato
la parte dispersa
nei meandri sconosciuti,
ingenuo la domandai
a parole già dette
6 a sguardi riflessi.

Ho cercato, ho cercato
in pozzi profondi di terre ignote,
nei buchi della mia pelle,
chi chiamasse,
nelle notti smaniose,
il segreto dell’assenza.

Ho cercato, ho cercato
impaziente nella paziente attesa
quale torto, quale chiave dei desideri
celasse un sussurro
un raggio di sole.

In tutto questo buio
che vidi, che portai su di me,
proprio l’inatteso
ho trovato:

riamo la vita.


Il cervo Strano (di Massimo Pensante)

Il cervo di un mio amico si chiama Strano.
Corna strane e misteriose e grandi
ti colpiscono di lui
tanto che ti interroghi
sul futuro del Pianeta.

Catturato in un Safari, Strano
è stato allevato dal mio amico
e – non c’è che dire –
si è subito comportato bene.
Ogni tanto sente nostalgia dei suoi luoghi
(perché quei luoghi sono suoi)
ed è allora che il mio amico
lo porta a vedere un film ambientato.

Strano è scontroso; gli esperti non capiscono:
sono convinti che lo fa apposta
che fa finta di stare male
per convincere chi lo alleva
a credere di essere convinto che muoia.
E che morirà presto, questo è scontato.
A parte il fatto che non mangia niente
ma a mano a mano che il tempo avanza
la corna ne soffrono.

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Sei poesie

di Matteo Marini

La scomunica

Le proprietà della lingua
sono leggi autoritarie e razziste
sui due piani di un
rapporto sessuale, in un ufficio di
provincia, si trova la Bedeutung
del cambio di muta di fratelli,
o il concetto di “fratelli”, che vorrei
fare mia.
Mentre leggo Burroughs passeggio
verso una chiesa, e sto già pregando,
ma con le mani aperte, una chiesa
di quelle moderne, che mi ricordano
quanto è idiota l’essere umano
sul ciottolato rubato ai cavalli e
che ha perso il fiato da sermone.
Prego il drogato che mi spianerà
la strada, o almeno spero, e mi
spianerà gli ultimi amici che mi
sono rimasti e mia moglie, quella
santa cassaforte di relax,
si salverà grazie al
suo bel tailleur rosa che in
Francia accuserebbero di supponenza.
Mia moglie segue la moda, e
io prego gli eretici della
letteratura americana che
finiscano per essere le mie
ringhiere da giardino.
Gli egoismi vengono appesi su
attaccapanni fatti di colombe,
ma senza ramoscelli d’ulivo,
quelli non servono più, e il
simbolo della mia religione
si sfigura con un arma
protestante, ma si distrugge
con un arma di distruzione
di massa cattolica.

I piedi in testa

Divieto di poggiare lo sguardo
oltre il muretto,
un piccione lo fa
e lo spazzino s’impiccia
dei fatti miei
e di quelli del piccione,
lo fa scappare e spazza via
le castagne matte che
ricoprono i tombini
e l’acqua non scorre più
così scorre da sopra.

Kant dice: Dio è il cielo
sopra di noi e la legge morale
dentro di noi… Lo sa quello
spazzino? Chi è Kant? O chi
è Dio? Io non so chi è Kant,
l’ho studiato, una voce di
Lonato lo spiegava, ma io
giocavo a dadi con Silvia.
E Silvia sa chi è Dio.

Un ragazzo handicappato ha
scacciato via lo spazzino, ora,
Dio lo sa chi è quel ragazzo
handicappato?
Una qualsiasi macchina BUCHER CITYCAT
pulitrice non mi lascia
scampo… Dovrò alzarmi!
Devo resistere, mi dico, e
scrivo, ma non penso, che
lo farò.

In pratica

Voglio scrivere una poesia
voglio scriverla a mia madre
annuso il pavimento
che lei ha pulito (è sporco)
nella credenza di trovarci l’ispirazione,
la credenza invece è pulita.

Mia madre legge mentre dorme
e poi m’insegna a star dritto
con la schiena e coi doveri
e i talenti che ha la genetica,
teoria perché non la vedo,
facchino travestito arriva
e suona
la campana rotta
e io non ci sono.

Voglio scrivere una poesia
a mia mamma
voglio scriverla mentre mi partorisce
(le infermiere distratte)
ma mia madre, oggi,
ha deciso di non partorire
stringendo le gambe depilate
che dovrò superare.
Una poesia a mia madre
non per ringraziarla (bacio),
ora la donna obesa è calma,
ma per mostrare il male
che era in lei e ora
è in me.

?

Viaggiavo nell’ambiguo odore
di te,
o capo d’ufficio,
poiché pendevo
dal glaciale sorriso
che m’importavi dentro
spettinando obliquo
il sonno.

Musicalità
al lavoro
vera
come il maturo pedante.
Abbatto l’unica luna
che m’imbratta
il muro sociale.

Il mio capo ufficio
fa le fusa e
m’influenza
il cervello
inondandolo
della fonte stipendiata.
Lavo i piedi
della vittima sacrificale,
me?
Fra guanciali di marmo
e il respiro
bagnato
di colui
che uccideva
la mia tranquillità.


M

Una mano lenta
unica possibilità di morte
boia dolce e delicato
assaggia il prodotto
dell’incesto famigliare.


Sono un paesano

Con l’assassino
del mio intestino
vado a caccia di anatre
perse nella campagna,
offeso dagli
sputi famigliari
mentre mangio
carne marcia
su pagine di carta riciclata.

Arrampico la torre di burro
che sensualmente
si è costruita nel centro del paese:
alle donne che crescono
tra il tossire
di uomini sordi
l’ottovolante cieco non fa più paura.
Solo come un presidente
me ne sto rinchiuso
nell’abito che mia madre
non usa più da anni,
tra omissioni e
ansia da prestazioni sentimentale.
Ma oltre questo non c’è niente.

Matteo Marini è nato a Brescia la notte del 26 Marzo 1984.
Vive sul lago d’Iseo e studia Lettere a Bergamo. Da piccolo si accontentava di diventare come Zio Paperone, ora vorrebbe passare alla storia trovando una cura letteraria capace di guarire qualsiasi malattia mentale. Nel frattempo tenta di fare lo sceneggiatore, il regista, lo scrittore mantenuto, l’insegnante di liceo, il giornalista enogastronomico ma finisce sempre per fare il poeta.

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Se giri le foglie

di Mariarita Stefanini

Se giri le foglie
non perdono il vento
se scrivi parole tu resti
lo stesso.

Spoglia il mare di schiuma
abbandona le regole fitte
della danze le spine
le stecche.

Se perdono il ramo le foglie
non perdono il vento
la pioggia toglie loro
il crespo del tempo.

Mariarita Stefanini è laureata in Lettere Classiche e diplomata in Pianoforte presso il Conservatorio “Rossini” di Pesaro. È in preparazione la sua prima raccolta di poesie. Collabora con la rivista «ClanDestino».

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Ti offro

di Ardea Montebelli

Ti offro, Signore,
le fatiche di questa giornata,
le gioie, il vuoto esistenziale
che, talvolta, mi assale
con tutta la sua forza.

Ti offro le ferite e smarrimenti,
la mia necessità di essere
che possa salvarmi
da un mortale quotidiano.

Nel mutare delle cose
e dei significati,
ho bisogno di fermarmi all’essenziale:
insegnami a guardare nel profondo
il cuore degli uomini,
ad amare le loro necessità
per divenire, se pur indegnamente,
umile strumento
della Tua misericordia.
Amen

Ardea Montebelli è nata a Rimini il 5 marzo 1956 e in questa città vive e lavora come insegnante. Si occupa di poesia e di fotografia ed è giornalista pubblicista. Ha pubblicato cinque raccolte di poesie ed un catalogo fotografico dal titolo Cari, vecchi frammenti. È stata recentemente inserita in FaraPoesia.

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