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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 79-bis
Luglio 2006

I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

I giurati Angelo Leva, Gilberto Gavioli, Luigi Nacci, Martino Baldi, Rosa Elisa Giangoia, Tiziana Cera Rosco e Fara Editore sono lieti di proclamare vincitori della V edizione del Concorso Prosapoetica i seguenti autori:

1. Franco Calandrini di Ravenna con Non so fare niente (vince 20 libri Fara)

Racconto magistrale. Racchiude in sé una vita e in due righe riesce a fare sognare e rabbrividire. Credibile in ogni sua parte, ricorda essenze Carveriane nella sua ricerca estrema del profondo di fondamento del vivere quotidiano, ricorda Ermanno Krumm e Tiziano Rossi nella prosa alla fine poetica. Abilità sopraffina dello scrivere, richiamo del cuore e della passione. (Angelo Leva)
La prosa della camionista mi è sembrata quella che realizza in maniera più compiuta un'idea di vera e propria narrazione, con scelte linguistiche mirate all'obbiettivo. Il soggetto e il trattamento mi sembrano poi tra quelli più "aggiornati"; in questo caso aggiornati a certa narrativa post-cannibale e che del cinismo cannibale ha comunque tenuto un'eco nel gusto di uno straniamento raggiunto per iperbole, ironia o paradosso. Il racconto disegna tratttorie tutt'altro che scontate (p.e., la storia dei tempi in cui non c'era il servosterzo), regala un'aforisma da filosofia del camionismo ("Il senso della manovra penso che è una cosa ereditaria come non so le lentiggini o un brutto carattere") e nel complesso tiene e diverte, nonostante alcune ridondanze.
(Martino Baldi)
Una prosa fulminea ma non precoce che, se assumesse pieghe più surreali (se ad esempio prendesse una piega diversa dopo la trasfromazione in "pianta da cortile"), potrebbe andare nella direzione dei romanzi brevi di Manganelli; asciuttezza e sobrietà al punto giusto. (Luigi Nacci)

2. Lucy Simonato di Fara Vicentino con The Hours: la pietra, i libri, il corpo, i fiori (vince 10 libri Fara)

Il lavoro risulta particolarmente apprezzabile per la capacità dimostrata dall'autore di elaborare un testo in dialogo e contrappunto con testi ed autori del passato pur con autonoma ed originale resa espressiva. (Rosa Elisa Giangoia)

3. Carlo Falconi di Imola con Città (Passeggiata al limite della notte) (vince 5 libri Fara)

Una prosa fulminea ma non precoce che, se assumesse pieghe più surreali (se ad esempio prendesse una piega diversa dopo la trasformazione in "pianta da cortile"), potrebbe andare nella direzione dei romanzi brevi di Manganelli; asciuttezza e sobrietà al punto giusto. (Luigi Nacci)
La brevità del racconto aiuta a ricordare qualche passaggio bello e a meditare su qualche altro oscuro. A tratti criptica la prosa tratta ancora una volta un tema noto. Tenta cambi di ritmo interessanti ma inevitabilmente l’attenzione cade sul profilo della costa che chiude il racconto e si trascina l’essenza del messaggio. (Angelo Leva)
Questo testo risulta apprezzabile in quanto è tutto giocato sulla creatività a livello di linguaggio che permette all'autore di raggiungere un livello espressivo originale su un argomento già ampiamente usato. (Rosa Elisa Giangoia)

Sono stati inoltre selezionati e vengono qui pubblicati:

Daniele Borghi (Roma) per Alba sul delta: Una prosa poetica a tutti gli effetti, fondata sulla commistione tra ritmo e rinnovarsi delle immagini; descrizioni in chiaroscuro, ricordi che affiorano appena e tornano al fondo; sentenziosità dimessa, mai fastidiosa; a tratti si sente il sapore e il rumore di certi versi pavesiani – un buon testo! (Lugi Nacci)

Valentina Polcini (Roseto degli Abruzzi) per Testamento di una divoratrice di libri: È apprezzabile la fiducia dell'autrice nel sapere desunto dai libri e la sua speranza che il valore dei libri continui a perdurare. (Rosa Elisa Giangoia)

Giovanna Rossi (Cesena) per In memoria: C'è qualcosa di intenzionale e visionariamente ricercato in questo testo. Mi piacciono molto alcune immagini che però non sono solo pennellate di colore letterario, ma aprono un immaginario, un'intimità di assunzione del mondo anche se non vuole de-cifrare nulla del suo segreto, tipo "L’aria della campagna che resta ai margini.", oppure "nascosta in un armadio prendo oggi la mia comunione."o "Poi torno alla strada grande ancora una volta. Ma passo dal campo coi fiori e, se non fai la spia, nessuno mi vede." La poesia, a differenza della prosa che si gioca sulla comunicazione, sta dove qualcosa di indicibile resta non violato ma aperto alla comprensione. Qui vedo e capisco. Anche se non so cosa vedo e cosa sto capendo, mi ha messo in un luogo dove queste cose succedono. È sempre il segreto ciò che farà liberi, o ciò a cui è legata la nostra libertà Avere un patto col segreto, come un palo a cui legare le cose vive e le cose morte. Un totem. (Tiziana Cera Rosco)

Leonardo Innocenti (Rimini) per R: Se la letteratura è anche il legame che ci permette di poterci porre nudi (snudati dalle parole che ci conducono) di fronte all'esistenza veramente, di farci fermare nelle cose che ci domandiamo,ecco questo componimento è commovente. Addirittura sembra il testo di un amante assottigliato nella sua
tensione, nel suo pudore del non farsi vedere per non disturbare una
crescita naturale (che l'amore disfa sempre)quando invece è un padre reso insicuro da tutto quello che combina l'amore con la sua improteggibilità e il suo abbandono su tutto. Il cercare l'espediente con cui tentare un contatto che poi è un vedere e non uno stringere, starsene dietro di sé per non ingombrare. C'è qualcosa di già salvato per noi che guardiamo chi crede di essere perduto.
(Tiziana Cera Rosco)

Luca Lanzoni (Dodici Morelli, FE) per L’esercito di pezza: Notevole la capacità dell'autore di creare immagini felici e toccanti. Come quando del volo della falena si dice che: "Il suo manto notturno fu lapidato dai raggi del sole." (AR)

Angela Ambrosini (Città di C.astello, PG) per Impressioni di viaggio: In un perfetto stile prosapoetico racconta la vita come
occasioni mancate di sosta durante il viaggio. Non manca di fissare i
ricordi con efficaci metafore che a volte assumono colori autunnali.
Sfrutta un po’ temi noti ma il racconto si fa ricordare.
(Angelo Leva)

Lorenzo Piscopiello (Pesaro) per La sacca del matto: Se fossero limate delle ingenuità qui e là, che dipendono da un piccolo cliché, questo racconto sarebbe più interessante di quello che offre. Ha un
filo conduttore ambivalente, come lo sono le cose che determinano
intimamente il corso dei nostri destini. Il simbolo ben piantato della
corda, del nervo che la nasconde e che il gatto cerca, la diversa velocità
della strada,il fare della libera crescita del corpo la rivelazione
accondiscendente della propria conoscenza su di sé, l'essere tutti legati e scavati dai propri desideri e da quegli degli altri, concatenazioni di
realizzazioni... mi piace molto. Se meno "solare" potrebbe rientrare in
categorie kafkiane. Belle alcune associazioni lessicali.
(Tiziana Cera Rosco)

 

Vincitori

Non so fare niente

di Franco Calandrini

Io non so fare niente ma niente di niente. Non so leggere non so scrivere non so fare i calcoli non conosco nessuna lingua tranne la mia e a dire il vero la mia neanche tanto bene. Sono così da quando ero bambina. A scuola pensavano che facevo finta: “Come fai a non capire nemmeno questo? – dicevano – è semplice, è che non vuoi e ci stai prendendo in giro tutti”. Ma perché dovevo prenderli in giro? Non so fare nemmeno quello. Ma c’è una cosa che so fare meglio di tutti di questo sono sicura: guidare il camion. Non guidare così per guidare qualsiasi cosa no. Guidare il camion. Tutti i camion. Quello a rimorchio il bilico i trasporti eccezionali – quelli sono quelli che mi piacciono di più perché devo andare pianissimo in strade drittissime e se delle volte mi viene da pensare qualcosa mi resta in testa. Quando invece devo fare dei percorsi lunghi e pieni di curve con la merce che se non arrivo in tempo va a male non riesco a pensare a niente. È come se ho una clessidra in testa con la sabbia o l’acqua o quello che è che scende solo da una parte e che quando ha finito non la puoi più girare. Allora sento che mi scende la sabbia da un’orecchia all’altra e che devo fare in fretta sempre più in fretta che se la roba marcisce nel cassone poi non pagano neanche il mio padrone. E dopo mi dispiace perché io posso anche restare senza soldi ma lui come fa se non guadagna? Come li paga tutti i camion la nafta e noi che stiamo sempre lì a chiedergli soldi? La voglia di guidare il camion m’è venuta che avevo cinque anni. Mio padre l’uomo più fantastico del mondo guidava sempre camion grossi. Abitavamo a Pescara in un appartamento al terzo piano che girava su tre angoli della casa. Lo vedevo dal balcone mettere in moto e lo salutavo anche se so che non mi vedeva ma tanto lo so che lo sapeva che lo salutavo. Partiva da sotto il cortile girava dietro l’angolo e io lo vedevo dalle tre finestre finché non lo vedevo più. Una volta ho anche pensato che non tornava più. Mangiava sempre le pesche dopo pranzo e una volta che un contadino ce le aveva regalate per la fretta di partire ne ha mangiata una che era ancora sporca di verde rame. Mia nonna dice che il verde rame è veleno e che “va a finire che muore”. Non era mica vero. Però quella notte non sono riuscita a dormire fin quando non l’ho sentito tornare a casa. Sono stata tanto male e ho pensato che era meglio se moriva mia nonna invece che lui. Poi ho pensato che non era un gran bel pensiero perché in fin dei conti mia nonna ci dava da mangiare a tutti. È lì che ho capito che il mio desiderio più profondo è che non volevo che moriva nessuno e che volevo guidare il camion anch’io. Già ad otto anni mi faceva mettere la macchina in un garage piccolissimo che quando c’era la macchina dentro se mettevi anche la bicicletta non si usciva più. Il senso della manovra penso che è una cosa ereditaria come non so le lentiggini o un brutto carattere. Adesso che non guida più perché ha avuto un infarto mi dice che una volta era tutto più scomodo che non c’era nemmeno il servo sterzo e che quando dovevi fare delle manovre dovevi puntare una gamba sul cruscotto e tirare con tutte le forze nei raggi dello sterzo con tutte due le mani. Mi diceva anche che ai suoi tempi non è che portavi il carico e lo lasciavi lì e te ne fregavi. Dovevi anche scaricarlo e che se non c’era nessuno che t’aiutava dovevi fartelo da solo. Diceva che quando sapeva di dover scaricare i sacchi di farina o di granturco mangiava a colazione otto etti di maccheroni col ragù perché diceva metti che là non c’è nessuno che t’aiuta dopo cosa fai? Adesso è tutto più semplice siamo diventati come dei professionisti. Ci caricano il camion di tutto quello che c’è noi facciamo i chilometri che dobbiamo fare e quando arriviamo nel posto giusto che il più delle volte ci si mette di più a trovare il posto giusto che a fare tutto il viaggio dopo là c’è sempre qualcuno gentile che ci scarica il camion. Il rispetto me lo sono guadagnato sul campo facendo manovre che molti uomini non si sognano neanche. Io so sempre qual è la manovra giusta. Dove va il rimorchio se giro di qua dove va se lo giro poco dove va se lo giro tanto o dove va se non lo giro per niente. E poi poiché non ho nessuno a casa che mi aspetta io lavoro giorno e notte sabato e domenica Natale Pasqua e Capodanno e poi faccio i viaggi lunghi che non vuole fare nessuno perché al contrario di quelli corti sei pagato di meno. Cioè non è che sei pagato di meno è che devi tirarti giù dai tuoi soldi i soldi per il secondo autista. Ma io non ho mai avuto bisogno del secondo autista perché quando sono stanca mi fermo un’oretta in piazzola e poi riparto per altre otto ore di sicuro. Il fatto poi che non sono una bella donna e che sono più grande e grossa di molti uomini mi ha salvato dalle scocciature. Solo una volta sono stata violentata perché era un uomo veramente grosso solo che dopo mi ha chiesto scusa e ha pianto e ha detto che l’aveva fatto perché nessuna donna lo voleva e allora mi ha fatto anche pena e non l’ho neanche denunciato. Poi a parte i pugni e i calci e gli schiaffi non so nemmeno se è riuscito ad entrare perché è venuto grugnendo come un maiale appena mi ha sfilato le mutande. Io non ce l’ho con lui non ce l’ho con nessuno. Io guido il camion non faccio incidenti e non do fastidio a nessuno.

Nato a Ravenna, Franco Calandrini si laurea nel 1984 in Discipline delle Arti della Musica e dello Spettacolo, con Luigi Squarzina. Verso la fine degli anni Ottanta, insieme a Maria Martinelli e Stefano Mordini (fondatori dell’odierna Kamera Film) entra a far parte della Coop. ST/ART, con la quale produrrà parte dei lavori successivi, da cui nasceranno due Festival: Ravenna Nightamare Film Fest (dedicato al genere horrror) e Corto Imola Festival (Mostra Concorso Internazionale del Cortometraggio) che tutt'ora dirige.

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The Hours: la pietra, i libri, il corpo, i fiori *

di Lucy Simonato

Mrs. Dalloway:
Cerco la pietra
perfetta che
mi trascini via
da queste tormentate parole
che invadono l’aria feroce e
sbucano dal foglio
bianco, in agguato
su penne sofferte.
Cerco la pietra
morbida
che avvolga il mio corpo
di donna che non vuole
che il fango, per sfuggire
dagli inesatti sbadigli della vita.
Cerco la pietra
fredda
che mi conduca,
Ofelia sognante,
a cavallo della tigre,
sul greto del fiume
di illuse parole lasciate
a mio marito
perché si ricordi di Londra e
di Virginia,
del mio terribile casto vuoto.
E così le ore,
spietate ore, ticchettano
via.

mrs. brown:
non chiedermi per chi si apre il giorno non per me io vedo solo porte chiuse infilarsi fra gli spilli del tempo e le pieghe delle pagine che sfoglio impetuosamente mio figlio si nasconde dietro il dorso di mrs. dalloway ma marito non ho marito non voglio più le parole corrono sui muri di casa e scivolando dalle finestre si ergono come bastioni per nascondermi da dan lui non è mio marito richie non è mio figlio lui ha quegli occhi perennemente sgranati e imploranti di cucciolo ferito dalla vita e da me no non è mio figlio no no no la mia unica casa è un libro che sfaldo e che sfrondo vivendo d’intenso solo fra le sue righe
e così le ore spietate ore ticchettano via

Richard:
Un tempo fuggivo
l’amore
impennandomi,
disabitato uomo di metropoli.
Ma ora… ma ora!
Ora mi sottraggo
al bisogno
d’amore che mi persegue,
vergognoso
di tanto dolore che
sfuma
i confini del corpo.
Per un bacio,
Mrs. Dalloway,
per un bacio potrei
stritolare la vita ingannevole
che m’aspetta
domani.
Per un bacio,
Clarissa,
potrei ancora decretare
di restare. Ma
dal mio orribile
corpo piegato,
e piagato,
allontanarmi devo.
Addio ore,
spietate ore.
Addio.

Clarissa:
L’aria è percorsa da magiche onde, profumate come fiori, mentre la luce di giugno si riversa in concerto su New York, affondandola in un lago ondeggiante di suoni e di fragranze, di desideri a lungo lasciati nei cassetti fra la biancheria pulita. Il glorioso mattino ridesta dal fondo della vita il passato, come un treno lucente che sfreccia dalla densa notte bruna. Fuggire vorrei, ma non posso. Qualcosa... qualcosa... dir non so cosa sia, sopraggiunge a stregarmi fra le braccia. Ed io naufrago, come fossi ancor giovane donna, appagata da tanta amorosa bellezza! Nonostante tu sia sasso pesante... e tu pagina vuota fra righe assai piene... e tu tormentato corpo. Nonostante... Nonostante tutto, non mi resta che riaprirmi alla vita come corolla fra fiori. Rimanete ore, spietate ore, amate ore.

* Il titolo rimanda allo splendido romanzo di Michael Cunningham (da cui è tratto l’omonimo film) che si ispira al suggestivo Mrs. Dalloway di Virginia Woolf. Dedicata a Barbara ed ai fiori che verranno.

Lucy (Rosalucia) Simonato è nata l’11 luglio del 1958 a Fara Vicentino (VI). Nel 1985 si laurea a pieni voti in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Università di Padova e nel 1987, dopo aver ottenuto una borsa di studio, parte per gli USA dove rimane fino al 1991 quando completa un Master in Letteratura Inglese ed Americana presso la University of California di San Diego, dove, in qualità di assistente, insegna italiano e letteratura inglese e frequenta anche i corsi di scrittura creativa della scrittrice Fanny Howe pubblicando alcune poesie su riviste affiliate ad università americane. Dopo aver insegnato italiano nel Centro Studi Università della California di Padova e letteratura inglese nell’International Baccalaureate della Vicenza International School ora insegna inglese nelle scuole superiori. Ha numerosi hobbies quali la fotografia, l’arte, la cinematografia, la natura, gli animali, i viaggi e non da ultimo la lettura. È in uscita con la Casa Editrice Montedit una silloge poetica dal titolo Piccole canzoni a ritroso nel tempo.

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Città (Passeggiata al limite della notte)

di Carlo Falconi

Di questo imperfetto ingranaggio, setaccio umano che enfatizza il lusso o la miseria della stessa medaglia, lambisco le zone opache ai margini dell’alone ambrato dei lampioni.
Resto appeso agli odori del primo pane fresco, come un segugio sotto vento, rallentando, indugiando, fino a tramutarmi in pianta da cortile, dove cani d’appartamento, durante quotidiane passeggiate abitudinarie, scagliano graffiti di piscio a dimostrazione della loro esistenza latente.
Un clacson sfregia il silenzio. Innervosita l’aria gli volta le spalle. Io mi raggomitolo nel lenzuolo di fumo denso e soffice procreato dalla mia sigaretta.
Eutrofico il cervello straborda. È una bagnarola stipata di ideali vaghi e ricordi sbiaditi, che tentano di assumere forme sempre più nette, decise, concrete, come il profilo della costa quando lo sbarco si fa imminente.

Carlo Falconi è nato il 19-11-1975. Risiede a Imola. Ha pubblicato nel 2002 il suo primo libro di poesia Albùmida per la casa editrice Libroitaliano World. Nel 2004 ho stampato autonomamente il libro di racconti e poesie Il brillo parlante. Nel 2003 ho fondato “I brilli parlanti”, gruppo musical-teatrale che propone letture abbinate a musica e scenari teatrali. Come chitarrista e armonicista appartiene al gruppo “Frazione Fabbrica”. Dal 2006 è membro della Libera Accademia degli Evasi di Faenza.

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Opere selezionate

Alba sul delta

di Daniele Borghi

Alba di cenere grigia, colori ammansiti dall’acqua.
Il tonfo di un pesce che salta e si tuffa strattona il silenzio.
La luce rincorre i fantasmi del rosso corteggiandoli invano. Sconfitta da giochi di gocce fluttuanti si acquatta nel fitto di ombrosi pioppeti.
Aspetta.
Avanguardia di un sole ancora distante ne attende la forza brutale per vincere ancora.
Delle anatre in volo percepisco soltanto le penne che frustano l’aria.
Un grido urticante di animale lontano stride nell’aria e la cambia. La sposta di colpo.
L’acqua scivola al mare frusciando, come seta sulla tua pelle distratta.
Tua la pelle, tuo il vestito.
Bianco di vergine antica smarrita tra stanche occasioni ed inutili frasi.
Tua la vita, le risate, il sorriso, il potere schiacciante di rendermi vivo.
Ricordo il tuo seno di opalino chiarore, come questa ottundente foschia.
Un altro abitante dell’acqua ne scivola fuori mostrandomi il dorso verdastro.
Si immerge e poi salta sforzandosi invano di vincere il grave.
Ha destino comune a questi pensieri, incapaci di prendere il volo e portarmi.
Ogni volta che il peso sfilaccia il reale ricordano che tu non ci sei.
Vorrei esser leggero, solo allora i pensieri saprebbero andare.
Leggeri come neve che si posa su un prato.
Come polvere lieve sulla corolla di un fiore.
Desiderio frustrato. Sento tutto il mio peso. Immobile e vinto.
Relitto di nave ancorata in un porto dalle acque di pietra.
Putride, opache, stagnanti dal colore di piombo.
Impossibile il muoversi. La catena mi lega ad un’ancora immensa.
Un brivido scuote la schiena. Il sole dirada l’opaco, i colori ritornano in vita.
Dopo il denso passaggio del buio, la terra indossa con grazia una veste sgargiante.
E umilia un uomo seduto, appassito e vestito di grigio.
Un pescatore lontano prepara la canna e la nassa.
È solo, si muove in silenzio con grazia decisa.
Con gli abiti verdi si confonde coi fitti cespugli. Riesco a vederlo soltanto quando si muove.
L’occhio di un uomo nota gli oggetti in movimento.
La stasi non lo stimola. In breve tutto diventa macchia monocroma, senza profondità e senso.
Un colpo di fucile violenta la quiete.
Un’anatra in volo sobbalza, perde la rotta e cede al suo peso.
Anche a chi è nato per volare viene impedito di farlo.
Le ali snervate sussurrano all’aria parole di morte, precipita a terra frusciando.
Eco di voci lontane, perdute alle orecchie di chi ascolta la vita dei suoni decisi.
Attendo il tonfo nell’acqua. Lo aspetto come parola fine sull’ultima scena di un film.
Ma l’anatra cade sull’argine. Il terreno melmoso ne sporca le piume arruffate.
È a pochi metri da me, sento arrivare un cane.
Ne posso ascoltare il respiro affannato e i passi veloci sull’erba. Un fulvo baleno crudele serra la preda tra mascelle sbavanti e torna veloce al suo amato padrone.
È solo una bestia che lecca la mano di un altro assassino.
A sua totale discolpa ha la giustificazione di non poter capire.
Il silenzio riprende a fluire. Il sole ne colora i contorni.
Polvere di diamante sparsa sull’acqua del delta si finge riflesso di stella lontana.
Il pescatore frusta l’aria lanciando la sua lenza sottile. Anche lui spera di uccidere.
Ormai non sono più un ragazzo, sono passati gli anni delle illusioni.
Non li rimpiango, li ricordo soltanto.
Le delusioni erano più cocenti di questo ottuso dolore d’assenza, di questo sordo dolore di tempo impietoso, di senso smarrito e di inutile ardore.
C’è il resto del viaggio da fare, il resto d’un viaggio a cui tutti è nota la fine.
C’è questo tempo livido che invano rinnova le sue ore girando su se stesso.
È tempo di bilanci. Domenica mattina. Troppi anni perduti nel credere.
Alba di cenere grigia, di colori ammansiti dall’acqua.
Rivedo il tuo viso perduto nel sonno. Mi rivedo coprirti con gesto di madre, baciarti la bocca, sfiorarti la schiena, godere la gioia di dormirti vicino e donarti il mio calore.
Il tuo abito bianco era poggiato su una sedia traballante che usavamo come comodino.
Passato remoto.
Sì, ci sono persone che godono a uccidere.
Con un fucile, con una canna da pesca, con parole che tagliano.
Con amori recitati.

Daniele Borghi è nato e vive a Roma. È laureato in architettura, lavora come consulente finanziario e scrive per passione. I racconti sono il suo primo amore, ma da qualche anno, nel tentativo di dare maggiore spessore alle sue narrazioni, ha iniziato a scrivere romanzi. Oltre ad alcuni racconti comparsi su antologie di premi letterari, ha pubblicato un romanzo (Il nome di una privazione, 2003, Fara editore) ed una raccolta di racconti (Day & Night, 2000, Fazi-Libuk).Con i suoi scritti ha ricevuto riconoscimenti in numerosi premi letterari. Ha appena pubblicato Pinocchio non abita più qui (Fara, 2005).

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Testamento di una divoratrice di libri

di Valentina Polcini

Mi accingo a lasciare questo mondo
di carta e impressioni d’inchiostro.
Ormai, la trama della pagina è un reticolo
di dune insormontabili e profondissimi solchi,
ma rivedo nitide nella mente
le frenetiche peregrinazioni
di un tempo.
Antenne tese, agili appendici,
squame argentee e lucide
di giovane lepisma, veloce
di volume in volume,
nutrendomi di ogni particella di sapere,
alla ricerca del senso ultimo del vivere.
Questo libro,
il mio cimitero.
La sua riga conclusiva,
la mia epigrafe.
Arrivata al punto,
carpirò finalmente la verità, ma
ahimè
in quello stesso istante, morirò.
Perciò
lascio a te, lettore,
la mia sapienza,
un’eredità incisa sulla polvere
ma indelebile nell’anima.
Sappi custodirla…

Valentina Polcini è laureata in Lingue e Letterature Straniere e nel 2006 ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Anglistica presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara con una tesi sulla narrativa di J.G. Ballard. Attualmente collabora con il Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie della stessa università, dove, tra l’altro, è membro della segreteria di redazione della rivista «Merope».

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In memoria

di Giovanna Rossi

a Cocco

In memoria Ti seguo. Tra voci che sento sulla pelle mia che ti somiglia. I passi sono fatti di mani più grandi oggi.
Di mani carezze.
Che premono dove gli occhi ci trattengono bambini.

Tra queste pareti di cielo c’è infinita l’aria della pace e della tristezza.
L’aria della campagna che resta ai margini.
O scompare.
E si incrociano qui sguardi di rito. Vecchi d’abitudine e così va il mondo.

Mentre le campane chiamano alla Messa dei giusti, nascosta in un armadio prendo oggi la mia comunione. Di fronte a quel sorriso.
Imminente e obliquo sull’estate.
Mi presento viva al fuoco d’esecuzione stringendo la tua mano mentre scivola tra i margini che resistono alle fragole.
Riempio a pugni le lacrime.
Di lacci e di baci.

Poi torno alla strada grande ancora una volta.

Ma passo dal campo coi fiori
e, se non fai la spia,
nessuno
mi vede.

Giovanna Rossi è laureata in Lettere Moderne all’Università di Bologna, dove attualmente svolge attività di Dottorato di Ricerca in Storia dell’Arte. Collabora con le pagine culturali del Corriere Romagna e con la rivista di arte e letteratura Graphie. Vive a Cesena.

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R

di Leonardo Innocenti

A volte mi sorprendo a guardare la luna e immagino che 7 ore prima la stessa luna che ora sto guardando è passata proprio sopra casa tua al di là degli Urali e della sterminata pianura asiatica.
O dolce luna sapessi come ti invidio!
Sapessi come invidio il tuo passare ogni giorno sopra quella casa a metà tra la collina e la montagna, tra paesi e regioni che non conosco. Se potessi salire su con te potrei almeno vederlo, anche se da lontano, lo vedrei crescere senza farmi notare, lo vedrei giocare e scherzare insieme ai suoi piccoli amici, lo vedrei mangiare al tavolo insieme al nonno, o alla zia o ai suoi piccoli e tanti cugini. Giuro che non lo chiamerei, non alzerei la mano per farmi notare, mi nasconderei dentro il tuo mare della tranquillità e lo osserverei con lo stesso incanto che un vecchio ha verso la vita.
O dolce R, sapessi come ti penso, all’inizio è stata dura, passavo metà della giornata a pensare a te e l’altra metà a cercare di non farlo. Eri un pensiero fisso che poi nel tempo si è modificato, è diventato meno istintivo, ma sempre intenso e forte come il fuoco.
O dolce luna, ti prego, portami con te anche se solo per una notte, ti giuro che farò il bravo, non ti darò fastidio, mi metterò acquattato nel più infimo angolino, ma dammi la possibilità di rivederlo almeno una volta, anche se da così lontano, lo riconoscerei tra un milione, è l’unico con i capelli castani e senza occhi a mandorla, quello che assomiglia a me. E se proprio non puoi allora promettimi di mandargli tutti quei baci che mi sono rimasti dentro.
O dolce R, scusa, scusa se ti ho ingannato, se ti ho imbrogliato, se ho cercato di darti quello che non potevo, scusa se hai avuto la sfortuna di ricevere carezze e amore da chi un tempo credevi fosse tuo padre, figlio mio.

Leonardo Innocenti è nato e vive a Rimini. Lavora nel sociale.
Ha scritto e messo in scena alcune commedie brillanti. È appassionato di fumetti, libri e musica italiana. Con Il Primo Pensiero ha debuttato nel mondo del romanzo.

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L'esercito di pezza (Favola di giorno)

di Luca Lanzoni

Mi persi.
In un giorno di piena estate così caldo da fare tremolare l’orizzonte, mentre mi chiedevo come fossi arrivato davanti a quella casa abbandonata, la mia attenzione fu catturata da un esercito di pezza sospeso a mezz’aria. Erano qualche decina di bambole appese, come fossero vestiti zuppi, ad un filo teso tra due enormi alberi. Ogni piccola mano rotonda era legata al filo con un giglio secco, il lungo stelo inaridito sembrava dovesse sgretolarsi da un momento all’altro.
Avevano tutte occhi azzurri che non si chiudevano mai, lunghe chiome rosse, quattro puntini simili a lentiggini su ogni guancia e un bel sorriso tracciato sul viso paffuto con un colore scarlatto. Dai vestiti di stracci rammendati spuntavano paia di piedini rosei dalle unghie dipinte.

Non mi sono mai chiesto perché fossero lì.

Mi guardavano tutte con la stessa espressione serena, sembrava quasi che m’invitassero a ridere con loro. Mi sentivo imbarazzato come quando mia madre mi diceva “Su dai sorridi o tutti penseranno che sei un bimbo cattivo”.
Distolsi lo sguardo da loro facendolo scivolare lungo il filo, fino ad arrivare all’albero alla mia sinistra.
Dal lato ombreggiato della corteccia si mosse un insetto bruno tradendo il suo mimetismo.
Una falena aprì le ali e si staccò dal tronco senza far rumore, entrando nella luce ardente di mezzogiorno come una vergine inconsapevole che va all’altare. Il suo manto notturno fu lapidato dai raggi del sole.
Si diresse faticosamente verso la bambola più vicina, si posò accanto ad un occhio e vi spinse dentro la coda come per pungerla. Quando si alzò in volo per raggiungere la bambola accanto, vidi che dall’orbita della prima spuntava una minuscola perla colore dell’ambra che pulsava come un cuore malandato. La falena ripeté la medesima operazione su ognuno di quei vacui visini incantati, deponendo tutte le uova che teneva nel suo ventre.
Quel plotone immobile sembrava lacrimare vita.

Guardavo incredulo.

Quando l’oscura farfalla lasciò l’ultima bambola dirigendosi verso il riparo delle fitte fronde, le sue forze erano terminate e l’afa la schiacciava a terra. Le ali nere, nere come la notte di cui era figlia, bruciavano lasciando una coltre di polvere sottile ad ogni battito sgraziato. Cadde nell’erba ingiallita che divenne il suo ultimo giaciglio.
Mentre cercavo di capire se stavo sognando, improvvisamente il cielo si riempì di nuvoloni scuri e gonfi come corpi tumefatti che si accavallavano e fondevano. Il tuono cominciò a brontolare sempre più vicino. Corsi verso la casa abbandonata puntando verso l’unica finestra aperta. I vetri erano rotti e una scheggia mi tagliò una gamba mentre l’attraversavo per mettermi al coperto. Non sentii dolore, non me ne curai nemmeno.

Le prime gocce di sangue stillarono lentamente, poi un rigagnolo arrivò fino alla scarpa.
Le prime gocce di pioggia caddero lentamente.
Tre per volta. Cinque. Venti. Duecento.
Un milione all’unisono battevano.
Il sangue colava denso.
La pioggia continuò
ancora, ancora.
Ancora.
Basta.

Improvvisamente cessò il nubifragio lasciando il cielo terso sopra la terra scura. Il sipario d’acqua che velava tutto fuori da quella finestra infranta era scomparso e io potevo guardare di nuovo verso l’esercito di pezza. I frivoli soldati erano caduti e i loro sorrisi erano sciolti nel fango. Le larve di falena spazzate dalla tempesta non vibravano più. Una sola bambola era ancora legata al filo, stretta dall’unico giglio che sembrava reciso da poco. Lo stelo ancora verde, i petali mutilati dal vento. Il capo pregno d’acqua pendeva in avanti, i capelli rossi ammassati in un paio di ciocche ai lati della faccia, gli occhi sbarrati, la bocca tirata da due rivoli di pioggia alle estremità sembrava un’espressione di dolore. La perla pulsava ancora sulla guancia umida.
Il taglio sulla mia tibia batteva come se il cuore volesse uscire da lì. Cominciai a sentire il dolore e quando guardai il mio piede vidi la calza completamente rossa. I miei sensi cedettero.

Nero infinito dietro le mie palpebre.

Non so quanto tempo stetti svenuto nella polvere di quel salone desolato, ma dormii abbastanza per sognare…non ricordo cosa, ma so che sognai.
Quando tornai al mondo la luce era incerta e la preoccupazione mi fece scattare davanti alla finestra. Era il tramonto.
Distrussi del tutto i vetri della finestra e uscii tirandomi dietro la gamba dolorante. Mi diressi zoppicando verso la strada che vedevo lontanissima. Un pensiero mi distrasse dalla paura del buio che stava giungendo…
La bambola!
Tornai di fronte a lei…
L’ovulo nell’occhio s’era schiuso.
Un giovane bruco mordicchiava lo stelo di giglio.
Dimenticai tutto, feci un passo indietro e osservai in silenzio.
Quell’esserino verde rosicchiò avidamente fino a far cadere la bambola.
Il filo vibrò per un attimo appena come una corda di violino pizzicata da un fantasma.
Il bruco rimase sul filo e strisciò in direzione dell’albero, la bambola caduta a terra guardava il cielo. La raccolsi come fosse un eroe ferito a morte, la infilai sotto la maglietta e cominciai a correre per sfuggire alle maglie della notte.
Come avevo perso la strada così la ritrovai e senza nemmeno rendermene conto vidi casa mia all’orizzonte. Mia madre mi aspettava sulla porta con le mani sui fianchi e lo sguardo severo. Arrivai ridendo e mostrando il trofeo. Corsi in bagno a sciacquare il fango dalla ferita e dalla bambola. Asciugai entrambi mentre sentivo ancora la ramanzina provenire dalla cucina. Mi stesi sul letto con lei a fianco pensando a quanto coraggio ci volesse per decidere di morire arsi… a quale strano destino decide di abbattere tutti tranne uno… a quale valore avrebbe avuto quell’assurda scena se io non l’avessi vista…se nessuno l’avesse vista.
Sono passati vent’anni da quel giorno e ancora oggi, ogni volta che guardo la bambola, controllo che la cicatrice sulla mia gamba sia ancora lì.

Luca Lanzoni è nato a Bondeno (FE) il 16/01/1978, è perito in elettronica e telecomunicazioni, laureato in filosofia nel dicembre 2005 presso l’università di Ferrara con una tesi dal titolo La Religione Diffusa Nella Società Postmoderna. Scrive per il magazine di musica, arte e scrittura www.dissenzoo.com, per il quale pubblica racconti brevi nella rubrica “Anime Viola”, recensisce musica e fa interviste per le rubriche di musica. Collabora con l’agenzia stampa L’Altoparlante del giornalista Fabio Gallo, scrivendo comunicati stampa per i locali più importanti del nord Italia. Da febbraio 2006 si occupa della redazione Emilia Romagna del magazine www.impattosonoro.it, per il quale recensisce musica e letteratura.

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Impressioni di viaggio

di Angela Ambrosini

L’estate non aveva più confini. Dilagava a occidente,
oltre i colli increspati di vitigni a intenerire le ombre
lontane del mare. Non più confini: posata sulle Balze gugliate
filtrava il tramonto in un campo lungo di ricordi che attraverso cipressi e dune ocra s’incuneava nel presente e nel presente indugiava. E quel sentore d’eterno che a volte ci stilla
nella mente (perché, poi, lo respingiamo?) stava lì, esausto,
a convivere con il dimenarsi prepotente delle cose e delle
idee.
La macchina fluiva trascinata dal grigio dell’asfalto e
la bellezza solinga di borghi e poderi, casali e fienili
picchiava ai vetri come reclamando una sosta, ma il viaggio proseguiva al conversare del motore componendo una nicchia
in quella corsa che chiunque avrebbe detto destinata a una
meta. E avrei voluto fermarmi sotto gli sterminati nimbi
dove il cielo frange sull’Arno e il Pratomagno s’acquatta
a valle nell’ora d’alabastro, invece ero lì, non lungi dai ben
noti ulivi eppure altrove, fra mutevoli orizzonti che mutevoli
stagioni profilavano oltre i declivi.
I giorni passarono. Le notti declinarono nel giorno e il
giorno nuovamente nelle notti e ancora dopo tante mancate
soste nessuno mai siede al mio fianco, perché stagione dopo stagione, contrada dopo contrada è da soli che decifriamo
il viaggio della vita.

Angela Ambrosini, nata a Perugia, risiede a Città di Castello. Laureata in Lingua e Letteratura Spagnola, insegna Spagnolo in un Liceo Linguistico della Provincia di Arezzo. Dal 1985, anno di pubblicazione della sua traduzione italiana del Don Juan di G. Torrente Ballester (Jaca Book), coltiva interesse per la traduzione letteraria. Ha conseguito il Master in Traduzione del Testo Letterario presso l’Università di Siena e al suo attivo ha traduzioni di narrativa e poesia dallo spagnolo, alcune in fase di pubblicazione. Ha scritto recensioni e studi critici su autori spagnoli. Le sono stati conferiti premi letterari sia per la poesia che per il racconto, una sua lirica in lingua spagnola è pubblicata nell’antologia di un premio letterario di Madrid. Sta curando per le Edizioni Tracce di Pescara la pubblicazione del suo primo libro di poesie.

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La sacca del matto

di Lorenzo Piscopiello

Il solito gatto mi morde, appeso laggiù, al polpaccio.
Sento i suoi canini trovare la strada tra le mie fibre, gioisco nel lacerarsi delle mie carni; i suoi artigli affondano nel rosso e la mia resistenza defluisce dal mio corpo con la densità della mia linfa. I muscoli affiorano alla luce nelle contrazioni del mio camminare, e le vene si aprono al sole sorridendo della mia passività.
Il rumore.
Il rumore mi spaventa: è il rumore di qualcosa che era dentro di me e che ora cade a terra, lungo il sentiero che mi lascio alle spalle.
Continuo a camminare, sorretto dal mio fedele bastone, sperando che il gatto demorda e che mi lasci continuare in pace, perché se voglio arrivare avanti ho bisogno del mio polpaccio.
Facendo smorfie al gatto comunque troppo occupato, mi gratto la lunga barba che campeggia sul mio volto: quanta ne ho tagliata in vita mia? E quanta ce n’è ancora dentro di me? Dove sta quando ancora non è uscita?
Ci sono magazzini immensi tra i miei zigomi e siccome voglio conoscere me stesso per capire il mondo, devo sapere quanto spazio c’è dentro di me per la mia barba; così non me la rado più, per calcolarne l’ingombro interno. Ho un gomitolo di barba nella tasca e mano a mano che questo cresce i magazzini si liberano e tra un po’ la barba finirà.
E poi però cosa ci metterò in tutto quello spazio?
Il magazzino dei capelli era molto più piccolo: i capelli sono finiti da un pezzo… chissà cosa c’è adesso lì.
Sono partito una vita fa e ho dimenticato la cintura. È da una vita che i pantaloni continuano a cadermi, a scivolarmi alle caviglie.
All’inizio avevo preso lungo la strada una corda abbandonata da chissà chi e me l’ero legata alla vita, ma la corda era lunga e si raccoglieva a terra come un serpente morto. È stata la corda ad attirare l’attenzione del gatto, così che mi sono costretto a lasciargliela per non averlo sempre tra i piedi.
Ho preferito la natiche al vento alla distrazione di un felino.
Ma ora il gatto è tornato. Tornano sempre se solo ti avventi a donar loro qualcosa… e forse ha sentito l’odore di una corda sotto la mia pelle e così ha cominciato a scavare per trovarla. Spero la trovi presto, così finalmente mi lascerà in pace…
Sono partito da una vita ormai e ho dimenticato anche il perché.
Ricordo che era una cosa importante, così cerco di non perdere tempo e continuo a camminare lungo questo sentiero di fiori morenti e rospi curiosi.
Non so dove devo andare o quando potrò arrivare. Penso che quando sarà il momento ricorderò e allora sarò giunto alla fine del mio viaggio.
Così potrò finalmente aprire la sacca che trasporto legata al bastone.
Chissà cosa c’è dentro? Cosa ci avrò messo prima di partire? Sono partito da una vita ormai e ho dimenticato il suo contenuto. Immagino di averla portata per aprirla al mio arrivo, ed è soprattutto per questa ragione che il mio passo è così veloce e che il sentiero mi corre così spedito incontro. Ho tentato di ricordare, di intuire, di capire.
Penso che lì dentro ci siano i miei sogni, i sogni che il mondo mi ha impedito di realizzare, troppo occupato a considerarmi pazzo.
E dunque è per questo che sono partito, per trovare un altro mondo dove anche i miei sogni possano diventare realtà. Dove anche io potrò essere normale e quando avrò trovato quel luogo, allora mi fermerò e finalmente potrò riposare i piedi, abbandonare il mio bastone, comperare una cintura. E scioglierò infine il sicuro nodo della mia sacca, per vivere del suo contenuto.
E magari per quel giorno il gatto se ne sarà andato con la sua nuova corda, che ora cerca dentro di me con tanto impeto: ognuno ha i suoi sogni da realizzare…

Nato a Pesaro nel 1975, Lorenzo Piscopiello si dedica a tutto tranne che alla mia laurea in Architettura: cucina e design sono il pane quotidiano; scrittura, regia teatrale, artigianato ed illustrazione sono le passioni predilette. È stato fra i vincitori della I edizione del concorso.

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grafica Kaleidon © copyright fara editore