Logo Fara Editore Fara Editore

L'universo che sta sotto le parole
home - fara - catalogo - news - scrivi - faranews
Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 41
Maggio 2003

Prosapoetica Terradinessuno

Questo numero di è dedicato ai vinicitori e ai segnalati dal concorso Prosapoetica Terradinessuno 2003.
I giurati David Aguzzi, Sandra Clementina Ammendola, Daniele Bottura, Simone Garzella, Corrado Giamboni, Letizia Lanzi, Alessandro Giovanardi hanno premiato i seguenti autori:

1. Pino Imperatore (Mugnano, Napoli)
2. Alessandra Spagnolo (Genova)
3. Manuel Finelli (attualmente all'estero)

Sono stati segnalati: Marco Saccaperni, Oreste Bonvicini, Liliana Camarda, Fabio Franzin, Salvatrice Virgadaula, Loretta Raggini, Gloria Venturini.

Ci complimentiamo con i vincitori, i segnalati e con tutti i partecipanti. Un grazie particolare ai giurati.

1. classificato (vince 20 libri Fara)
Questo bellissimo cammino

di Pino Imperatore

"Il solo vero viaggio, la sola immersione
nella giovinezza, si farebbe non con l'andare
verso nuovi paesaggi, ma con l'avere occhi diversi"
MARCEL PROUST

Sono stato un viaggiatore, in questo mondo e altrove.
E lo sono ancora, a modo mio, in spazi di fascino e magia.
I miei occhi hanno ospitato la luce e il buio,
facendosi sempre guidare dall'immaginazione.
Tra lettere e cifre, tra gioco e sogno, ho percorso i sentieri
tracciati da mille cavalieri in mille diverse epoche,
alla ricerca dell'incanto, dell'armonia tra parole e atti.
Ho avuto una patria, ma tanti luoghi terreni e metafisici
mi hanno offerto dimora. Ho dialogato con l'Oriente,
con l'Occidente, coi venti di pianure e deserti, con volti senza lusinghe.
Sull'atlante della vita ho segnato i percorsi di inammissibili guarigioni,
come cerchi di conchiglie attorno a castelli di sabbia,
e da novello Ulisse ho inseguito la fonte di ogni grazia,
l'acqua della rigenerazione che consuma il vanto
e lascia immacolato l'ardire. Conservo intatti lo stupore e la curiosità
che mi hanno portato fin qui. E ripeto a gran voce il Segreto:
un solo uomo è nato, un solo uomo è morto sulla terra.
Unico è stato, unico sarà il suo inquieto peregrinare.
L'esercizio dei secoli non ha mutato la sua indole.
Egli è custode di meraviglie che vanno ben oltre la storia del caso.
Mi sono trasformato in spada, lancia e freccia per investigare il male.
Ho conosciuto gli inferni di Dante e di Poe, per ritrovarmi naufrago
su coste e mari dove il coraggio è il tesoro più prezioso.
Mi sono perso nel labirinto di Creta e continuo a perdermi
nel labirinto del tempo. Tra piramidi, templi e rovine
i miei passi hanno composto l'eco di finzioni e artifici.
Mi sono addormentato ai tramonti delle Isole del Tigre
e della Terra del Fuoco. Ho svelato il crepuscolo delicato ed eterno
di Venezia. A Cartagine ho scoperto fantasmi di molti e diversi popoli. Nella Valle di Napa in California il mio corpo è rimasto sospeso nel cielo di un'antica felicità. Nelle terre di Tlön e di Uqbar ho visitato le fucine del talento e dell'inventiva. E ogni volta, in ogni istante,
ho saputo che non esiste una sola cosa che non sia misteriosa.
Un oceano non ha geometrie e riconoscibili profondità.
Un fuoco non si lascia catturare dalla codardia.
Innumerevoli spiriti abitano le dimensioni del ricordo.
Nelle mie esplorazioni ho avuto straordinari compagni:
il temerario Enea, don Quijote e la sua ombra, il giovane Werther
e Dorian Gray, i fratelli Karamazov, il principe di Elsinore
e Leopold Bloom, madame Bovary e monsieur Teste,
il dottor Jekill e Edward Hyde. A ciascuno di loro
ho donato una rosa e una milonga. Con essi ho sorriso
fino al crocevia delle avventure che non svaniscono.
Ora sono sereno, anche se fremo dal desiderio di rimettermi in moto.
Il mio itinerario ha nuove tappe. Chi ha sete di conoscenza
non ama sostare a lungo. Altri giardini, altri campi e orizzonti
mi attendono, e strade ignote che nessun ostacolo
potrà impedirmi di affrontare. Nella coscienza di uno smarrimento
si trova la forza per andare incontro a verità più grandi.
Sono sedotto dagli astri che illuminano le rotte dei viandanti.
Il loro splendore mi protegge da ogni sofferenza.
Ripercorro le origini e indovino con gioia la mia identità.
Il mio nome è Borges. Nato in via Tucumán a Buenos Aires,
ufficialmente morto sulle sponde del Rodano.
Quale entità io sia adesso, non ha importanza. Il mio viaggio
prosegue tra le infinite pagine della biblioteca di Babele.
Le mie parole attraversano le menti e i cuori di uomini e donne,
di città e paesi. E questo bellissimo cammino non terminerà mai.

Giudizio
Linguaggio semplice ma raffinato, molto controllato e curato. Affronta temi importanti: l'archetipo del viaggio e la conoscenza, riscrivendoli in un viaggio reale e fantastico e che è l'esperienza stessa della lettura. Un po' lungo ed espanso, ma questa è la sua caratteristica, è in tema con il titolo del concorso e si ispira a Proust e Borges e questo non è poco. Ha infatti la capacità di rendere e riassumere i motivi e le atmosfere di Borges, quasi sovrapponendosi alla sua voce. Pur nella sua prolissità, sa trasformare la lirica in una narrazione di viaggio nel mare della letteratura e fa venire voglia di leggere. Ha quindi un valore didattico ed edificante.

L'autore
Nato a Milano nel 1961, vive e lavora a Napoli. Giornalista, ha scritto per quotidiani e riviste ed ha collaborato con emittenti radiofoniche e televisive. È autore della fortunata opera umoristica In principio era il Verbo, poi vennero il soggetto e il complemento (Colonnese editore, Napoli, 2001). Conduce a Napoli il Laboratorio di Scrittura Comica e Umoristica Achille Campanile (unica esperienza del genere in Italia). Ha recitato con il gruppo cabarettistico I Saltimbanchi. Con l'attore Gaetano De Martino ha scritto lo spettacolo TraShow, portato in scena dallo stesso De Martino. È autore di testi per il cabaret. È nel gruppo di autori della trasmissione comica Bulldozer (Rai 2, 2003). Fa parte del gruppo Cellula Poetica ed è tra i curatori del foglio letterario Partenope Versus. Presiede la giuria dei premi letterari Viaggi fuori dai paraggi (Napoli) e Movimento Comico (Napoli). Alterna l'attività narrativa a quella poetica. Suoi racconti e poesie sono stati pubblicati in riviste, antologie e siti Internet. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti letterari, tra cui il premio speciale Antonio de Curtis 2000 per la Narrativa, il premio Massimo Troisi 2001 per la Migliore Scrittura Comica, il premio Silarus 2002 per la Narrativa e il premio D'Annunzio & Michetti 2002 per la Narrativa.

Torna all'inizio

2. classificato (vince 10 libri Fara)
L'ultimo volo di un angelo

di Alessandra Spagnolo

Io sono un artista nel mio genere, io vengo dalla strada e da lì ho fatto la mia fortuna. Lavoravo con un circo ed ero un'acrobata. Mi piaceva volteggiare sulla testa della gente ed arrampicarmi sempre più in alto. Allora mi sentivo libero, come un falco o un angelo senza le ali, e dal trapezio volavo ed ascoltavo ad occhi chiusi l'applauso del pubblico o il loro silenzio smarrito davanti a quelle giravolte impossibili. Vivevo in una tenda ed ero felice, la mia abilità era il mio pane e non chiedevo altro.
Ma venne la Rivoluzione.
Venne il freddo.
Il gelo dell'inverno russo uccise molti di noi, della compagnia non rimase quasi nessuno, non c'era posto per noi gente di circo, ci dissero, che gira è una spia, dovevamo diventare contadini o operai. Mio fratello scappò subito piangendo; non avrebbe mai potuto adattarsi, preferiva vivere di nostalgia ma sentirsi libero. Io invece rimasi e cercai il mio posto credendo che, il dissolversi della Russia Comunista mi avrebbe portato alla grande occasione. Mi accorsi presto che erano sogni, la gente faceva la coda per il pane, non restava che sniffare la colla fino a stordirsi per dimenticare di dormire in una fogna.
Non so come, ma mio fratello riuscì a mettersi in contatto con me. Le lettere che arrivavano all'ufficio postale erano l'ancora che mi impediva di andare alla deriva, di trasformarmi in uno dei tanti barboni imbottiti di vodka che dormivano con me contendendomi le panchine del parco.
Che avrei fatto durante l'inverno? Le lettere mi chiamavano verso un futuro migliore. Un giorno mi arrivarono anche i soldi. Così andai anch'io lungo il percorso che facevano i mercanti, in mezzo al deserto, alle rovine di città perdute, cercando le impronte degli altri stranieri.
Mi accorsi presto che lui non era nulla di ciò che diceva di essere e che l'occidente non aveva nulla da offrire a me. Io ero un clandestino in terra straniera e mio fratello sfruttava le donne per vivere.
"Perché ti fai tanti scrupoli? Io do loro più degli altri, non le picchio. Perché mi fai la morale? Mettiti a lavorare anche tu, perché non c'è spazio per chi non conclude nulla!"
Ma io non volevo quello per me. Volevo un pubblico, volevo esibirmi, tornare ad essere l'acrobata che ero, un fiore pulito, un angelo, che volava sopra le teste dei comuni mortali. Un giorno passò un circo e mi presentai. Mi ero tenuto in allenamento e piacqui al padrone, ma quando controllò i documenti e scoprì che ero irregolare, non volle saperne.
"Non sono più i tempi di una volta, caro Dimitri. Alla frontiera ci spolpano, ci sono gli animalisti, non vedono l'ora di farci chiudere, mi dispiace."
Girando per la città guardavo le case e la gente, così ordinata e ben vestita e provavo per loro rancore. Non era possibile che loro avessero tutto ed io niente. Non so come mi venne l'idea di arrampicarmi ed entrare da una finestra. La prima volta guardai soltanto. Toccai i mobili, i libri, i bicchieri di cristallo. Iniziai così la mia carriera di ladro.
Non andavo in giro armato, facevo meno danno possibile, ero diventato abilissimo nello far scattare le finestre senza far rumore, prendevo solo ciò che era in vista, a volte lasciavo un fiore per le padrone di casa.
Forse fu per questo motivo che i giornalisti mi ribattezzarono Il gentiluomo. La notorietà mi prese la mano. Parlavano di me, avevo nuovamente un pubblico, iniziai a perdere la mia abituale prudenza: iniziai a lasciare biglietti per le signore ed a compiere furti più importanti. C'era una casa in particolare che mi attraeva. Era a quattro piani, ed ogni finestra c'era un mostro che reggeva l'architrave e, tutte le sere, si affacciava dalla finestra una fanciulla bionda, con il sorriso di un angelo. Io la fissavo nascosto nei cespugli, confuso nel nero della notte estiva cercando di fare in modo che il mio cuore non facesse troppo rumore. Come ogni fortezza era espugnabile: trovai un tubo sottile sul retro, che portava fino all'ultimo piano. Sarei entrato solo per guardarla da vicino, non avrei toccato nulla, le avrei lasciato una rosa sul seno e mi sarei nutrito per un attimo del suo candore abbagliante.
Entrai nella casa dalla finestra aperta, scivolando silenzioso come al solito, e gironzolai per l'appartamento deluso, credendolo vuoto. Sentii il suo profumo e la vidi riflessa nello specchio, bianca, bellissima, con la sua camicia da notte trasparente. Capii che mi stava aspettando. Nella penombra gli occhi chiari sembravano due cristalli. Si alzò ed allargò le braccia, io le posai le labbra sulle sue che cedettero. Mi aprì la bocca morsicandomi il labbro inferiore fino a farlo sanguinare e succhiò il mio sangue e si schiuse a me, come un fiore dai colori bellissimi, ed io, abbagliato dalla sua forza e dalla sua grazia, me ne andai in silenzio, ringraziando la sorte, convinto di aver rubato qualcosa di più prezioso di un pugno di monili.
Mi voltai sul balcone, per calarmi come facevo di solito, la salutai con lo sguardo per un ultimo istante e solo allora vidi un uomo alle sue spalle che aveva in mano qualcosa che luccicava, ma non capii che cosa fosse finché il gelo della lama non mi trapassò il cuore.
Solo allora spalancai le braccia e spiccai il mio ultimo volo, libero come un falco o come un angelo, guardai il mio corpo cadere fra le lenzuola immobili nel caldo della notte e sentii l'ultimo applauso accompagnato da un sottofondo di meraviglia.

Giudizio
È un racconto poetico che ricorda i Poemi in Prosa di Baudelaire, scritto in uno stile chiaro, scorrevole ed incisivo. Ottima la struttura e seducente il motivo del circo, che ricorda di nuovo i saltimbanchi del poeta francese. Peccato che non sia un romanzo! Dopo un inizio non troppo convincente la prosa migliora nello sviluppo e diviene bella nelle righe finali. La trama regge e la struttura è nell'insieme solida, lo stile è coerente e senza sbavature, manca un po' di atmosfera e pur essendo ben raccontata non coinvolge fino in fondo, ma riesce comunque ad incuriosire, si legge senza fatica. Metamorfosi di una vita che crede di prendere per mano, ma che ti trasforma comunque, ti cambia, il testo manifesta la tragedia di un uomo, di un popolo e di tanti popoli che nella libertà hanno perduto, ma della libertà hanno vissuto.

L'autrice
Nata a Genova nel 1964 è infermiera professionista e laureata in Beni Culturali. È coniugata e ha due figli. È vissuta in Giappone e USA. Nel 2002 vince la VII edizione del premio Ormegialle con "Cannibali" e pubblica 5 neri, ma andanti con brio. Ha recentemente vinto il premio La voce delle donne con pubblicazione de "L'Amministratore".

Torna all'inizio


3. classificato (vince 5 libri Fara)
L'isola

di Manuel Finelli

La sera, Gilles e Claude suonano nella sala dell'Ile Burgon, il mio albergo ad Antananarivo, Madagascar.
L'Ile Burgon: L'isola di Burgon.
Burgon non so chi fosse, ma isola lo è. Sembra un atollo, questa locanda. Un atollo perso in una parentesi di tempo.
Gilles e Claude suonano un piano laccato nero e un contrabbasso un po' berciato. Vecchie musiche di Francia o d'Albione rispolverate lentamente e inesorabilmente nella sala dell'Ile Burbon, come se la storia si fosse fermata settanta anni fa. I settant'anni che umile e dignitoso si porta questo ambiente.
Legno alle pareti e a profusione negli arredi, nei sedioloni e nei tavoli quadrati con le gambe tozze e rotonde. Tovaglie bianche quadrettate rosa e, rosa, le tendissime pesanti alle finestre.
Suonano, Gilles e Claude, appoggiando delicatamente le note su due giganteschi quadri, gigantemente demodé. Sul primo, un improbabile giardino neoclassico ritratto dalla mano annoiata di un manierista creolo, mentre cascate tropicali bucano una montagna di verde, sull'altro poco lontano. D'un kitsch agghiacciante potrebbe sembrare, ma Gilles e Claude suonano incuranti in quest'isola e i quadracci divengono solo macchie di colore dietro le loro spalle robuste.
La sala è vuota, isola deserta quella di Burgon questa sera. Oltre a me solamente un rotondo malgascio e un'innamorata coppia di francesini entrambi, teneramente, raffreddati. Ed è tutto ancora più bello, perché Gilles e Claude suonano con il passato, suonano IL passato, solo per noi quattro, mentre fuori Tanà arranca nei suoi drammi di oggi.
Sono ore che non entra o esce nessuno, ciò nonostante, dietro il bancone di legno intarsiato e mimetizzato tra bottiglie di Armagnac impolverate, il barista - perfetta icona di se stesso - incessantemente pulisce annoiato bicchieri che nessuno userà.
La cameriera, con grazia indolente, è appoggiata al primo pomellone di legno della grande scala che conduce alle camere di sopra.
Io ascolto. Ascolto Gilles e Claude.
Quando ci sono altri clienti, delle volte applaudono, delle volte no.
Quando la gente applaude, Gilles volta per un attimo le spalle alla tastiera, prende il bicchiere di birra ormai calda e lo alza in segno di salute. Quando la gente non applaude, Claude fa fare una piroettina al suo contrabbasso, disegna con le labbra un sorriso mesto ma fiero e guarda Gilles. Un cenno impercettibile e iniziano un'altra canzone. Forse nuova, forse sempre uguale, sempre uguale a se stessa. Ma non importa. Non importa a Gilles e Claude. Loro suonano. Suonano.
Non so se sia un scordazzare il loro, in verità: sono sociologo e stonato, io. E poi, forse, non lo sanno più nemmeno loro, assordati dalla monotonia del venire tutte le sere qui a suonare. Suonare la Vie en rose, Je t'aime à mourir, West side story, tanto altro. E farlo abbastanza convincenti e convinti per essere uditi in ogni angolo della sala, ma sempre sufficientemente piano per non disturbare nessuno.
Sì, forse hanno smesso di chiederselo se suonano davvero o se stanno solo sopravvivendo.
Io non so. Non lo so quello che fanno, ma qualunque cosa sia e comunque sia fatta, è bella, bellissima questa isola, e lo è anche grazie a Gilles e Claude che continuano a suonare come l'orchestra di una nave mentre va a fondo. Perché fuori c'è la malaria, quella che uccide, e il colera, ogni tanto, e una miseria che urla di smettere di porsi domande.
E Gilles e Claude, domande non se fanno più. Loro suonano nell'isola di Burgon.
Suonano.
Suonano.
Continueranno a suonare.

Giudizio
Una descrizione al ritmo dei musicisti, senza retorica, di un'isola breve che continuerà a suonare. Convincente nello sviluppo e nello stile, risulta ben scritto, capace di coinvolgere il lettore, l'ambiente e la musica a tratti si materializzano, le descrizioni convincono e sono coerenti, dettagliate ma non prolisse. Dai toni malinconici, quasi struggente nel finale, strappa attimi di commozione. Apprezzabili alcune felici intuizioni linguistiche.

L'autore
Nato nel 1972 Manuel Finelli si è laureato in Sociologia all'Università di Bologna perfezionandosi in Diritti umani, cooperazione internazionale e politiche di sviluppo presso la Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento S. Anna di Pisa. Si occupa della tutela dei bambini nei paesi in via di sviluppo. Ha operato in Perù, Siria, Mali, Mozambico, Madagascar, Laos. Attualmente fa azione di prevenzione contro lo sfruttamento sessuale dei bambini in Thailandia per conto di ECPAT Interanational. È stato presidente di NATs associazione che si interessa del lavoro minorile e ha organizzato conferenze, dibattiti e forum.

Torna all'inizio

Segnalati


Estate o l'urlo cremisi della carne di Marco Saccaperni

Un condominio di quattro famiglie.
Il condominio diviene , in estate , un posto umido e tiepido.
Scruta, scoprendole, le singole esistenze di ognuno, le vite intensamente rosse, calde, torbide e livide che l'inverno gela, insieme al loro sporco.
L'inverno sembra pulire, levigare e lucidare ma, in realtà, ferma solamente, pietrifica.
Non è sincero e generoso come l'estate che arricchisce ogni cosa, che fa venire ogni cosa, amplia ogni cosa.
L'estate è un continuo orgasmo.
Ogni notte, in estate, si metteva alla finestra.Si affacciava su una strada, enorme, e pensava a se stesso , a quando da piccolo giocava in quella stessa strada ancora in costruzione, a quando fingeva di non vedere suo padre che, dalla stessa finestra che ora lo serviva , lo salutava con il braccio ingessato; chissà quanta generosità aveva riposto l'estate sotto quell'ingessatura.
La strada era costeggiata, per tutto il tratto parallelo al suo palazzo, da un fitto bosco che ora appariva nero, ricco di chissà quanti suoni al suo interno, di chissà quanti odori e volumi squadrati dall'aria calda.
L'eco colossale del traffico picchiava sulla facciata del palazzo, in un frastuono blu scuro, pericolosamente evocatore di tutto ciò che il bosco faceva vivere.
Segreto confessato di fretta guardando l'unico altro custode, un'occhiata bianca e nera, il colore rumoroso che picchiava.
Il silenzio della palazzina era diviso fra lui e la famiglia sottostante: intenti tutti a godersi, con l'assenza delle altre due famiglie, la loro estate condominiale.
Erano in tre, il marito con la moglie e la figlia diciassettenne; il figlio più grande, aveva venti anni , si era suicidato l'anno prima.
Il suicidio del figlio dava alla famiglia quel tono , quell'impressione di inferiorità, di minoranza, di stupidità che trasuda dalla gente reduce da una disgrazia, dalle persone che sono state trattate male.
Quel senso violento di pena, di condanna, come a pensare: "mi fai schifo, ti si è suicidato il figlio!" Una cosa troppo violenta che trasforma la compassione per queste persone disgraziate in un odio e repulsione per loro.
Lui era coetaneo del loro figlio morto.
Rimasti in quattro nella palazzina, avevano instaurato un rapporto famigliare tanto da presumere una sostituzione psicologica, o quantomeno un paragone, tra lui ed il suicida. Durante l'estate incontrava spesso i tre disgraziati.
Lungo le scale si imbatteva, pomeriggio giallo, nella signora.Negli spazzi ambrati della sera estiva , capelli biondi ancora vivi, occhi blu e un sorriso per lui. Denti opachi, vecchi, che nutrivano la smorfia.
Rughe piene di amore; una bellezza ancora viva che lo faceva sentire compreso, apprezzato, abbracciato a quella miserevole donna chiusa nella violenza del passato.
Sua madre era morta partorendolo.
Aveva sempre voluto, lui, gli abbracci!
Erano un suo diritto! Perché, Cristo, la madre non poteva neanche incontrarla in sogno!
Gli incontri con quella donna lo assopivano, per un momento.
Si vergognava di quei pensieri: rubare l'affetto di una madre ad un morto!Rubare l'affetto della madre al figlio morto di quella madre!La pelle usciva , passava , accarezzava i bordi tirati, umidi e tesi, quanta generosità quell'estate! Era nato in agosto.
Quanta produzione in quel momento! Quanto calore rosso! Umidità cieca!Scorreva tra i bordi tesi, quasi lacerati; una lama che ripassa tra le vene, la carne e la pelle dei polsi. L'urlo cremisi della carne.
Un taglio a tutto lo dava il marito.
In processione lungo le scale, rigorosamente dopo la moglie, lo guardava in silenzio.
L'odore degli alberi e di tutta la sua vita lo nauseava.
Lui si sedeva in camera, una bella camera bianca, rivolto verso la strada e quindi verso il bosco , aspettando il vento fresco che ogni tanto passava, e lo risvegliava.
Come fosse tra miliardi di uomini , tutto chiuso in respiri, aliti caldi, che condensavano l'aria, amalgamato con la carne di tutti gli uomini, che tirava e penetrava; una crema rossa di persone.
Alzato il volto, un vento gelido e torbido lo divideva da tutta la carne che era in giro.
In quelle settimane ripensò a una persona conosciuta quell'inverno.
L'aveva sprofondato in visioni estive che avevano luogo in una villa dall'altra parte del mondo; visioni ambientate in una piscina notturna, costeggiata da cipressi freschissimi.
Più che a quella persona, aveva ripensato al corpo di questa.Galleggiava come un crocefisso nell'acqua della piscina, completamente nuda.
L'odore di cloro inzuppava il corpo in quello dei cipressi , la carne pallida, i capelli lunghissimi, neri.
Tutto affluiva in quell'installazione psicologica che viveva nell'acqua calda della piscina.
Sentiva l'acqua calda nel labbro inferiore.
Nel sapore dell'acqua c'era il torpore della carne, la lama tagliente del rapporto; viaggiava su quel corpo e ne sentiva il danno, il richiamo, l'ubriacatura deviata, la pazzia squarciata, sentiva il pube lievemente pungente e crespo, il pube con il suo odore dolciastro.
I palmi delle mani e le piante dei piedi color rosso sbiadito, ma sempre profondo.
Quella persona, a suo tempo, lo aveva letteralmente rapito.
Presto si accorse che si trattava di un rapimento puramente fisico, carnale, ai suoi massimi livelli, alle più alte quote di innamoramento di un corpo.
Naturalmente, nel condominio, incontrava spesso anche la sorella del suicida.
Si guardavano in silenzio.
Lei era vittima della sostituzione psicologica : lo avrebbe voluto abbracciare, sentiva nella morte del fratello una violenza sessuale profondissima che le scavava dentro.
Il suicidio è sessualmente violento.
La pelle rosea teneva, dentro sé, una corporatura robusta.
Non grassa.
I vestiti in estate che accarezzano i corpi.
Lui pensava agli odori di quel corpo.
Lei aveva capelli rossi, arancio.
Gli occhi celesti, grigi.
Vedeva il punto fra le guance, lisce, e il collo.
Vedeva il punto fra la bocca, rossa e carnosa, e il naso; entrambi costeggiati dalle guance.
Vedeva sui polsi le vene che correvano livide in quel mare spugnoso e roseo.
Sotto scorreva il sangue , sotto all'involucro epidermico.
Vedeva le unghie, tutti i contorni, i giri del sangue.
Il colore rosso chiaro.
Il colore somatico.
Il corpo.
Vedeva l'addome profumatamente tagliente.
Il pube soffocare sotto il delirio affettivo.
L'aria satura dell'odore grigio, fantasticamente infinito e luminoso; le mani che si contrapponevano, i fiumi di vene che si toccavano separati da cellule in delirio.
Pelle eccitata che brucia nel petto.
Incesto psicologico.
Sentiva squarciarsi in un carnevale di sangue, orgasmo di felicità.
Vedeva il sangue che scorreva sotto l'osso laterale del piede, sentiva la sterilizzazione dell'anima, la pulizia di tutto.
Odorava il pulito.
I corpi come un fremito di vita, un suicidio come richiamo primordiale alla vita; le lame che scorticano i polsi, che scavano la tomba alla vita.
Due corpi che urlano, un corpo che esce, tutto entra ed esplode.
Urlo cremisi delle carni.

Giudizio Bel componimento che ci fa penetrare nella psiche di un suicida e in quella di chi gli era vicino. Il linguaggio, metaforico e al contempo concreto, sottolinea in modo affascinante lo slittamento tra sensazioni fisiche e psicologiche. Apprezzabile per il coraggio di affrontare una tematica difficile e intensa con un linguaggio denotativo e corporeo che suggerisce immagini inquietanti, profonde e non estranee a chi legge.

L'autore è nato a Foligno nel 1980. Si è diplomato in Disegno Industriale all'Istituto Statale d'Arte "O.Metelli" di Terni, dove risiede. Ha avuto esperienze lavorative nel campo della sceneggiatura e della creazione di "Story board" riguardanti il cinema d'animazione.
Ha frequentato per due anni il corso di laurea in Lingue e Letterture Straniere. Ha sempre scritto, letto, suonato...

Torna all'inizio


Le origini di Oreste Bonvicini

"Devi sempre avere in mente Itaca-
raggiungerla sia il pensiero costante."
(C. Kavafis)

Mio nonno è venuto quaggiù in bicicletta.
Dormendo nei fossi, pedalando di giorno, in due o tre, amici di viaggio, a piccoli gruppi, per brevi tratti, scambiano parole e scoprendo diversa la lingua parlata e il contatto nel tempo con la gente conosciuta in fretta, cercando un luogo dove fermarsi, un mondo sconosciuto eppure non troppo lontano dalla sua terra. Le strade e le stagioni non erano di oggi: non c'era l'asfalto, i campi erano terra e le città buie la sera e silenziose. Pochi motori e una gran polvere nella pianura padana, da Legnago verso Mantova, Cremona e poi via oltre il Po, verso il Piemonte.
Aveva trovato casa e presto tornato in famiglia avevano caricato sul treno i mobili e i ricordi. Un letto, l'armadio, il tavolo e le sedie. Pochi abiti nei cassetti piegati e impacchettati. Un posto sul sedile di legno freddo in terza classe, durante una primavera che stentava a sbocciare. La vita in campagna.
In treno attraversava la pianura, tra campi lavorati o disfatti, seguendo con lo sguardo i canali e l'acqua dei fossi e i nomi di paesi e località sconosciute. Per i più vecchi di loro non era il primo viaggio. Un viaggio più lungo l'avevano vissuto anni addietro, verso occidente, verso San Paolo, in Brasile, sperando una sorte migliore, una vita meno dura nel lavoro in terra straniera, senza storia e senza passato. Li aveva salvati la Grande Guerra. Centinaia di migliaia di morti sui fronti, negli ospedali improvvisati, di storpi, massacrati, pazzi e condannati alla follia per la vita. Migliaia di esuli e fuggiaschi. Ma per qualcuno era stata la salvezza tornare in Italia e attraversandola in guerra, riscoprire la propria terra e la casa e i nomi di tanti lasciati e non ritrovati. C'era chi non li aveva nemmeno riconosciuti.
Il mio bisnonno, volontario, era partito per il fronte. La famiglia rimpatriata era tornata a scrutare il vecchio orizzonte, nella terra dei propri morti. I nomi e le lapidi bianche nel vecchio cimitero, come dei e penati ritrovati.
Mio nonno è venuto quaggiù in bicicletta.
Dormendo nei fossi, pedalando di giorno, in due o tre, amici di viaggio, a piccoli gruppi, talvolta, per brevi tratti, scambiano parole e scoprendo diversa la lingua parlata e il contatto nel tempo con la gente conosciuta in fretta. La terra e la fame, la guerra lontana, il treno già pronto il vagone e i sedili di legno in terza classe, freddi in quella primavera che stentava a sbocciare.

Ci troviamo al mattino
tra ex di un'altra terra,
figli e nipoti di emigranti
e questo ci rende solidali,
nella lontananza,
d'un comune trascorso.
Le origini.
Genetica attitudine alla nostalgia.

Giudizio Suscita immagini forti e scorrevoli. Perde di intensità nella seconda parte anche se poi riconquista l'attenzione del lettore con gli ultimi due versi della poesia. Nel linguaggio semplificato della narrazione, manifesta ancestrale il ricordo del suo poetare, dei ricordi amari del sapore di lunghi viaggi di vita.

L'autore è nato ad Alessandria nel 1958. Collabora periodici locali, tra cui la rivista A.L.I Penna d'autore, Il Lobio, Insieme. Ha pubblicato la silloge poetica Cibernetica (Montedit, Melegnano, 2000) classificatasi nel 2001 al terzo posto ai concorsi Orso di Biella e Michelangelo di Silvano d'Orba (AL). Segnalato con la raccolta inedita Itaca, è risultato finalista alla edizione 2001 del premio Polispoiesis di Ceprano con Cecità e infine vincitore della edizione del 2002 con Il velo di Chartres. Segnalato nel 2001 dal Premio Petrarca di Arquà Petrarca, scrive un ampio saggio su Giorgio Bassani che, secondo classificato al Premio Tito Casini di Borgo San Lorenzo nel 2001, è segnalato nel 2002 al Premio Laboratorio delle arti di Milano, e primo classificato al Premio Michelangelo 2002 di Silvano d'Orba (Al). Riconoscimenti per la poesia singola e inedita a Viterbo nel 2001 e al Club dei Poeti di Melegnano dove nel 2000 aveva conseguito il primo premio assoluto. Nel settembre 2001 pubblica la plaquette Il granaio di Nalut (Prospettiva, Civitavecchia). Nel corso del 2002 ha ricevuto riconoscimenti al Premio di poesia Fanfulla da Lodi, il secondo premio per la saggistica del Premio Santa Rosa di Viterbo, una segnalazione al Premio Cittadella di Piombino, il quarto posto al Premio Alfieri di Asti e una segnalazione dal Premio Turoldo. Testi poetici e in prosa sono consultabili in www.pennad'autore.it, Frontiere, su Dismisura e Cittanova, sull'antologia Graffinrete e sulla rivista letteraria internazionale Niederngasse.

Torna all'inizio

Un meraviglioso ponte d'amore di Liliana Camarda

M'accosto silenziosamente a Te
nel gioco di luci e ombre
che avvolgono la mia coscienza,
assetata di Verità e Giustizia,
ma, soprattutto, d'Amore.
Perché Ti dimentico
per poi tornare a scoprirTi
nella mia solitudine,
nelle mie incertezze,
nell'incedere quotidiano
che porta via con sè ogni tentativo
di vivere nella pienezza?
Eppure solo in Te si radicano le mie certezze;
Tu solo nutri di Speranza
i desideri nascosti
che non oso esprimerTi
e Tu già m'hai esaudita.
Tu solo vesti di significato
ogni mio piccolo gesto,
colorando di umanità e di amore
ciò che altrimenti sarebbe
un mettere a tacere la coscienza.
Illumini le tenebre con la Tua luce
quando voglio chiudere gli occhi sulla verità;
mi spingi a cercarTi disperatamente
quando la preghiera tace;
mi seduci con voce dolcissima
quando chiudo le orecchie
all'ascolto della Parola;
mi affascini col Tuo stile di vita
quando metto me stessa innanzi agli altri...
Perchè torno a scordarTi
per poi scoprirTi così "mio"?
Perché pretendo di fare a meno di Te
se poi mi ritrovo a mani vuote
e solo in Te si placa ogni mia angoscia?
Mio Dio, mi hai fatta così fragile
e Tu sei la mia forza;
mi hai fatta così insicura
e Tu sei la mia certezza...
Mio Dio, mi sento così arida a volte,
possibile strumento di dolore
per chi mi circonda...
Colmami del Tuo amore
perchè questa mia aridità
si converta in sua fonte inesauribile;
rendimi docile strumento nelle Tue mani
perchè, insieme a Te, io possa realizzare
un progetto che è amore, è vita, è verità
e pertanto non può scendere a compromessi
con l'egoismo, con l'odio,
con la prevaricazione dei diritti altrui...
Fa' che, nel mio silenzio, la Tua voce
sia forte provocazione, invito alla coerenza;
salvami da ogni tentazione
e, soprattutto, aiutami a tener viva questa mia Fede
perchè questo ponte meraviglioso
che avverto adesso fra me e Te
- e che mi porta agli altri - non debba spezzarsi mai.

Giudizio Un inno alla vita, alla fede, all'amore, con una poetica a tratti frammentaria, ma che indica la passione quale sentimento nobile ed elevazione spirituale. Un incontro fra poesia e preghiera sincero e coraggioso: parlando a Dio, parla anche a noi.

L'autrice è nata a Bari nel 1963 da genitori siciliani. Si laurea in Pedagogia all'Università di Bari. Attualmente è dirigente scolastico a Monopoli, dove ha sempre vissuto. Coniugata e madre di tre figli ha partecipato a vari concorsi, fra i quali:
1988, 1993, 1996 Concorso Ibiskos, finalista
1989 Premio "Verso Libero" Ed. Il Grappolo: finalista
1991 Premio "Città di Palestrina – L'Autore dell'Anno": finalista
1991, 1992 Premio "Felsina" Book Editore: finalista
1992 Premio Biennale dei Monti Lepini: sesta
1993 Premio di Poesia "Book 1993": finalista
1995 Concorso di Poesia indetto dall'ASCA di Monreale: terza
1996 Premio "Giuseppe Tomasi di Lampedusa": segnalata
1996 Concorso Letteratura d'Amore - Cultura e Società: segnalata
1997 Concorso "Antonino Noto" indetto dall'ASCA di Monreale: Diploma d'onore per la Poesia e per la Narrativa in Lingua Italiana
2000 Segnalazione di merito con proposta di pubblicazione Concorso Letterario "Il Grappolo"
2000, 2002 Attestato di merito al Premio Biennale dei Monti Lepini
2001 Finalista per la poesia edita al Premio Letterario "Il Portone"
2001 Diploma d'onore Premio di Poesia edita "Marisa Priori"
2002 Menzione d'onore Concorso "Giovanni Gronchi"

Pubblicazioni:
Frammenti di cuore
, silloge di poesie, Ibiskos, Empoli, 1988.
Oltre la superficie, silloge di poesie Ibiskos, Empoli, 1997.
Giunchiglie, silloge di poesie, Edizioni Vivere In, Monopoli, 2000.
La Grande Attesa, romanzo, Edizioni I fiori di campo, Landriano, 2002.

Torna all'inizio


Lettera VXXIII ad un amico esitante di Fabio Franzin

Allora, quando mi svegliavo impregnato di sudore ormai ghiaccio, e il guaciale, madido, pareva una morbida benda da applicare sulla fronte di un febbricitante; ancora perso nei garbugli pastosi del dormiveglia, cercavo, rabdomante dei silenzi - senza l'ausilio di bastoncini ad y o di altri artifizi che escludessero, a priori, anfratti misteriosi in cui frugare, preclusioni a significati sfumanti nel lilla - il varco, la soglia d'edera per entrare a far parte; con tutti i sensi irti, con il mio insano sentire che credevo un ultrasuono, cercavo - dicevo - un qualcuno che mi bisbigliasse un segreto all'orecchio, di nascosto da tutti, e che si raccomandasse, con le mani giunte, di non spifferarlo mai a nessuno; che potessi diventare almeno il custode di un sentimento o di un'infamia altrui, partecipe di una passione, di un fiorir d'amore acerbo, di monete rubate dal vaso del sale; almeno di una supplica ruffiana, di un alito caldo impastato di menzogna.
Allora che il sole era ancora impigliato nel guinzaglio della luna, e le costellazioni pulsanti lo schiacciavano oltre le creste nude, nei mesi della vacanza scolastica, scendevo, scalzo ed uscivo a fiutare l'aria fresca del crepuscolo, mentre il buio sfumava via via in un rugginio rosato. Prendevo a dialogare coi cinguettii, con la rugiada perlifera delle ragnatele; a raccontargli le strambe inquietudini di un undicenne che faceva collezione di foglie e di confetti; quel pensare storto che si è poi fissato in un marchio indelebile negli occhi: che continuo a portare vòlti e sfuggenti pure di fronte alla donna amata o a chi mi dimostri stima e affetto.
Mi godevo gli effluvi della salvia e del basilico; mi passavo sulla pelle i petali lisci e polposi della magnolia che rubavo dall'orticello dei vicini; il mondo era più piccolo, in quei miei momenti, quando il miagolìo sommesso di un micio che, lemme lemme, attraversava la strada, diceva di un ritmo meno abnorme.
Quindi mi concedevo l'ultimo rito, verso le cinque: il lungo gioco del chiudere e riaprire gli occhi per captare il momento esatto dell'accensione della boccia nella casa di Arnaldo; ecco, vedi, essere lì nello stesso istante in cui quell'ocreo chiarore appariva, era come un modo segreto per volergli dire: "ci sono anch'io, non sei proprio solo, non sei il primo risveglio del paese, non ci sei solo tu in quest'ora da bestie"; e gli tenevo compagnia nella sua frettolosa e, immagino, parca colazione; nella sua toeletta; nel salutare la casa che risprofondava nell'ombra. Nel rombo che si avvicinava e poi nel ronzio che fuggiva della sua 127, comprendevo che era ora di rientrare, che mia madre fra non molto si sarebbe destata.
Rientravo, allora, e mi stendevo ad ascoltarla scendere e armeggiare con le tazze e i cucchiai e, nell'attesa del suo chiamare, solo allora riuscivo ad assopirmi fra il respiro profondo dei miei due fratellini.
Quel mattino che, accarezzandomi la frangetta, trafiggendomi coi suoi occhi preoccupati, mi disse, in un sussurro: – Cosa succede, eh? Perché esci fuori, la notte? Dillo, alla tua mamma, che sennò mi fai morire di crepacuore.
Non sono uscito mai più. Non per non farla più soffrire, credo, perché ero io l'unico a soffrire. Probabilmente perché lei e mio padre mi lasciassero in pace e non prendessero ad indagare su quelle mie sortite notturne; perché non mi ponessero domande a cui neanch'io potevo rispondere.
Altre volte, nel corso degli anni, ho respirato l'aria pura dell'alba; ma in tutte stavo rientrando, dalla notte, in quelle che sono state le molte case che ho cambiato.
Okay caro Amico, ricevi quest'altro tassello del puzzle, e cerca un po' tu di illuminarmi; dimmi in quale nido si avvia, ora, la musica delle creature; qual'è il vizio o il difetto della mia anima così ancora incapace ad accordarsi a questi stridori. O a queste melodie, non so.

Mirco data lo scritto, rincappuccia la penna a sfera e ripiega, accuratamente, il foglio due volte. Si avvicina alla finestra a seguire i colori che passano come sorprese.

"Fatti vivo, AMICO. Sono stanco di riempire questo cassetto di fogli, di scartoffie che, a rileggerle, mi vergogno persino di averle scritte, di saperle mie. Di non capire più quale sia, in esse, il nesso o il confine fra la memoria e la fantasia."

Giudizio Si segnala per il delicato accento intimista e per l'impronta da pagina di diario, forse più che da lettera, a preludio probabile di un'opera più grande.

L'autore è nato a Milano nel 1963. A 6 anni si trasferisce nel paese natale del padre: Chiarano (TV). Nel 1995 pubblica la raccolta poetica In canti d'aria (e rapide dimenticanze), H. Kellermann editore. Nel 2000, presso l'editore Zone, la raccolta El coeor dee paroe, scritto nel dialetto dell'Opitergino-Mottense, con prefazione di Achille Serrao. È in uscita presso l'editore ECIG di Genova la raccolta Il centro della clessidra, premio "Ugo Foscolo" 2002. Sue poesie sono apparse nelle riviste: BALDUS (n. 3, 1995), DIVERSE LINGUE (n. 15, 1996, con introduzione critica di G. Mario Villalta), PAGINE (n. 18, 1996 e n. 21, 1997), KULT (n. 2, 2001, con nota di Lello Voce), LAVORO E SOLIDARIETÀ (n. 1, 2002), LA TRIBUNA DI TREVISO (14/2/2002). Il n. 5 di BALDUS ha ospitato il saggio "La promessa di Galatea" sulla poesia di Ernesto Calzavara. Sue poesie sono presenti nell'antologia Afonie con nota introduttiva di Andrea Zanzotto. Ha partecipato alle rassegne poetiche: "V nebu luna plava", incontro fra le etnie europee a Topolò (Udine) nel 1994, nel 1995 e nel 2002 (nel corso di quest'ultima edizione è stata spampata l'antologia Voci dalla sala d'aspetto a cura di Michele Obit, editore Samizdat; l'audio è reperibile in www.ilnarratore.com/topolo2002/ascolta_edizione2002.htm); "Mondo poesia-Mondo giovani", Milano, 1993, di cui è uscita un'antologia curata da B. Cepollaro e G. Majorino; "Poetry Festival", Treviso, 1996; "Il libro invisibile", Caerano S. Marco, 1996; "LeggerLe" (cantieri poetici nel Triveneto) a cura di Mauro Portello, Oderzo, 1998. Nell'aprile 1998 il critico-poeta Achille Serrao ha presentato la sua opera poetica all'American Association of Italian Studies presso l'Università di Chicago. Il poeta e Master of Arts dell'Università di Chicago Adeodato Piazza Nicolai sta traducendo in inglese un'ampia scelta delle mie poesie. Nel maggio 2002 l'artista Roberto Vettoretti ha vinto il premio "Poesia e Pittura" a Fossalta Maggiore interpretando pittoricamente la sua poesia in dialetto 'A bici. Ha vinto diversi concorsi nazionali di poesia con giurie composte da alcuni fra i più autorevoli esponenti del panorama letterario nazionale.

Torna all'inizio


Bambini confabulatori e fratelli di Salvatrice Virgadaula

La nave approdò presto e i bambini si sparsero per il porto senza neanche sapere il nome di quella terra: Ancora assapora armadi d'aurora, che armeggiano ad armoniosi porti, portanti di genti aramaiche, portantine allucinanti, sete arrampicate su carri arabi, genti addossate ad affumicanti ebrezze: pipe oppiacee. Porti e portentosi portapacchi portabili, andando assicurano verso la porta che entra ad Atene, arruolata a portare nel porto accaldato, altosonanti feste di amanti ardentemente desiderabili; occhi di ingenua allegria che ammiccano al turista, occhi, bocche, gambe di tenera età che fanno il verso alla prostituta in professionalità. Fiori voluti a sbocciare nella stagione sbagliata, precoce. A soddisfare lucrose ingegnosità del magnaccia che assale il turista attonito dalle sue stesse impetuose e aborrevoli voluttà. Gli arrecano anisetta e altro annesso di peggior portata, annaffiato dal brindisi che la festa del nuovo folclore di bambini dà a sua disponibilità, là, nel porto annoso, che apodittico annovera allettanti, attaccanti, ansimanti assalenti avventure. Su angioletti che racchiudono nel loro cuore il loro volo d'infantile e gioiosa casualità, che aspira al diritto della propria loquace infantilità, su angioletti che nella precoe notte della voluttà, si accovacciano nei loro pensierini che vagano; si fanno complice il buio per izzarsi alti, imperterriti, spavaldi nella loro gioventù, a raggiungere il luccichio ridondante di crine luminose: le stellette pendenti sul cielo immenso che echeggiano la loro purezza, che ispirano speranze inaudite, riccabonde di soluzione felicitamente immensa, LE STELLE PERPETUAMENTE GAIE!
Ode il lume dell'alba il canto del gallo, inizia il giorno grigio speranzoso alla porta che entra ad Atene, lenendo i pensierini crinati. Ma l'Angelo turchino che vaga nel mattino dirompe! e trionfa in generosa allegria, in speranza in quei volticini di fiacca mestezza... e il prodigio cattivo si pergola in questa gioventù lenita, schiacciata, deturpata al verso dell'antico mestiere dell'adutlto, come un giocattolo meccanico che deturpata per sempre, inesorabilmente. Ancora assapora armadi d'aurora...
Nel mentre egli confabulava intimidazioni piene d'ira, timide di quiete, e nel mentre la tartana approdava nel mare di Palestina, incitava alla preghiera con il volto rivolto verso la Mecca. I pugnali, anch'essi infido ghiaccio di metallo guerresco, ciondolavano dalle vesti rigate, cinte di cuoio e i piedi nudi, nudi... come quando si nasce.
Il fratello volgeva il volto al muro di preghiera, dondolando alla crescente trascendenza. All'angolo della fiera si nascondono fiere umane, là, l'epifania li accolse patentando il loro volto l'uno all'altro, il confabulatore e il fratello. Lo straniero disse loro: Scusate gente del posto, voglio visitare la Mecca e le tombe dei Patriachi.
Il fratello disse: TI porterò volentieri alle tombe dei patriarchi!
E il confabulatore degno della sua mole disse: Io conosco meglio la città!
Il giovane guardò i due e rispose con una domanda: A chi dovrei seguire?
Segui me amico, questa è la terra Santa ed io sono il popolo prescelto!
Puah! Non seguirlo, la Mecca un giorno ti convoglierà in paradiso.
Lo straniero rispose: la vostra cocciutaggine vi acceca, non cercate la colazione fraterna, ma piuttosto il fracasso bellicoso!
I due che erano l'imbarazzo che sguarciava come un velo disincantato della fratellanza la loro parola, si erano ammutoliti come prostitute, come bambini in castigo.
D'accordo, salperò sulla mia nave dell'amore, là, i bambini del porto d'Atene hanno preso posto, là diluvi e cataclismi temono il solo sfiorarla, là uomini in terre di nessun prestigio politico e religioso hanno salpato con candide vesti e innalzato canti leggiadri di ebbrezza di vita, di perenne armonia, malto profumato, balsamo per lo spirito.
Là DOVE? IO VOGLIO VENIRE! Dissero a coro.
Allora un'alba nuova irradiò sui quattro punti cardinali della città, le palme brillarono tutte, e le danze soccorsero le genti, canti intonacarono di colori dei più soavi le mura e non si ebbe che una sola parola, Pace. Ma il confabulatore e il fratello si svegliaron nel loro sonno quotidiano.

Giudizio Una prosa complessa e gustosa, a tratti involuta, ma con il sentimentalismo equilibrato dall'ironia.

L'autrice è nata e vive a Gela. Ha conseguito la maturità artistica, studiato lingue (anche ebraico e sanscrito), frequentato un corso di teatro alla Royal Academy of Dramatic Art. Ha scritto racconti, poesie e una prosa evangelica. Ha recentemento pubblicato con noi Il signor Panzero.

Torna all'inizio

L'ultima luna di Loretta Raggini

Lacrime,
improvvisazione scivolosa, umido caldo fra me ed il nero di lenti impenetrabili.
Prospettive offuscate. Il niente velato di contorni. Ora. Passeggiando per respirare aria d'inverno
fra alberi cupi nel verde e d'umori. Poi succede che vai a sbatterci, ti rimbalzano addosso le cose.
Si sciolgono foschie umorali e comincio a vedere. Ora.
Un povero Cristo nero, un panino, sull'ultimo gradino della celletta di un altro Cristo, suo fratello.
Capostipite di tutta una serie, per la Storia.
Una piccola tenda colorata sotto ad un cipresso. Pare l' attrezzatura dimenticata di uno gnomo
campeggiatore. O solo la casa del Cristo nero.
Alza la mano e dice "Ciao" "Ciao" rispondo, con vergogna per l'acqua che, si vede, CRISTO
si vede, rigarmi il viso. E per la casa vera del mio ritorno.
Il calore di quel saluto è vento d'estate per le mie
lacrime.
Bianca e grande mi rimbalza addosso la casa. Vorrei solo non rientrarvi.
Per quel padre mai trovato e ora perso nell'Alzahimer. E una madre forte che combatte il suo male - incurabile? - mentre si fa infermiera dell'altro. Per la vergogna di una sorella guerriera fino all'ultimo mattone. Girano cose atroci, "le hai dette tu", ti ribalta tutto in faccia, è furba è di vento mia sorella. Troppo seria io. E intanto se la ride, ride sempre mia sorella.
I due vecchi se ne stanno tutto il tempo su di un divano - piccolo e sfacciato, di fiori grandi sgargianti - persi con lo sguardo. Irreali come quel prato. Tutto il tempo ad aspettare l'ultima luna.
Malati di tristezza per quei mattoni mal donati, disgrazia quotidiana da vivere quando la vita era col sole. Quando era anche vera.
Senza un Natale così come si deve non ci vuole mia madre, ha ragione, attorno ad un tavolo.
Né buoni né cattivi. Tutti uguali di nessuna pietà. Non ce n'è abbastanza per fare Natale.
E proprio questa notte i ladri. A portar via roba fra i mattoni vuoti di una figlia che intanto se la ride altrove. Poi il coraggio di una madre a riempire la casa semivuota d'uomini, d'autorità e dell'ordine. Ad evitare la profanazione di un'altra casa. No, la mia no. Non a Natale.
In montagna nuovi umori di sentieri e d'alberi.Piango meglio sulla neve, senza rumore a Natale.
Senza lo strazio di un divano buffone davanti ad un camino spento a Natale.
CRISTO, MI SONO INFILATA IN UNA NENIA IN ...ALE
Torno il giorno dopo, fra deliri di cose antiche, d'oro e soldi rubati. Trovo pena solo per loro, due
orologi vecchi, lasciati lì senza mercato, inutili a scandire il senso ed il tempo di questo Natale.
Sento urla di rabbia e "me ne frego". Rimbombi cupi di famiglia sempre più povera non solo di anticaglie portate via ieri, quando era Natale.CRISTO, AFFOGO NELL'INCUBO DELLE RIME IN ...ALE. Poi il coraggio di ridere, io, triste e musona. Antipatica, senza più lacrime da sprecare.
Intanto rido di gusto, è bello sentirmi ridere, e voglio farlo almeno fino al prossimo Natale.
E tu bambina mia, sangue misto, - tuo padre un'altra religione - dici: "Questo è il tuo Natale?"
"Non lo vedi, la nostra casa è tutto il mondo. È guerra. Va così ovunque quest'anno a Natale."
E adesso sei tu che piangi. Troppe malattie e prepotenze e rancori. Sei giovane, vuoi vivere.
Cosa vuoi fare? Volontariato all'estero, ti serve per la lingua, per crescere, per respirare.
Che idea, aspetta almeno un po', lascia che si spenga l'ultima luce. CRISTO, È NATALE!
Staremo ad aspettarti, io e tuo padre, sempre più vecchi e malandati. Che vuoi farci, è la vita.
Vedi, noi pensavamo di aver fatto di tutto - o niente? - per rendertela liscia, profumata.
Non è quello che vuoi. Adesso tu sei solo caduta, umida, affogata.
Dai, smettila di piangere. Che tanto ci ritrovi caldi caldi per un plaid, sul divano bianco.
E DOVE ALTRIMENTI. CRISTO! Il prossimo Natale.

Giudizio Sotto un velo di rabbia si rivelano profonde tristezze, il ritmo è buono e crescente anche se a tratti serve una certa concentrazione per seguire il filo. Buone sono anche le sonorità, interessante il tentativo di scrittura a più caratteri anche se non sempre la scelta dell'uno o dell'altro sembra significativa.

L'autrice è nata a Rimini nel 1952 e si è laureata in Studi turistici alla Facoltà di Economia e Commercio. All'università ha conosciuto e sposato nel 1979 suo marito, iraniano. Ha lavorato per venti anni nel campo della moda. Ha una figlia che studia Diplomazia Internazionale, in partenza per un progetto di volonariato. Ha recentemente pubblicato con noi Duemila e una luna.

Torna all'inizio


Rosso segreto di Gloria Venturini

Un giorno il vento, irato perché stanco di soffiare, si crucciò con tutto il mondo.
Con folate decise disperse i semi dei fiori, recise le foglie dagli alberi, e per tutta la notte,
con il suo impietoso ululare, fece paura ai bambini.
Il giorno dopo, i raggi del sole lo accarezzarono, e come un neonato infelice,
gli scaldarono il cuore, così il vento, cullato dalla luminosa ninna nanna, si addormentò.
Dormì di un sonno lungo e profondo, aveva proprio bisogno di riposare.
Una fresca pioggerellina di marzo pianse sulla natura, perché le mancava il suo amico assopito. Pioggia e vento insieme si divertivano parecchio.
Ai bordi di un campo di grano, lentamente, crescevano due semi di fiori,
giocando con la luce e con il giallo tutto intorno.
Chiacchieravano con le coccinelle, con le farfalle e le libellule, ridevano a crepapelle.
Di notte dormivano vicini, e di tanto in tanto, qualche stella raccontava loro una favola,
di ufo, di streghe, di gnomi, di elfi celestiali, di giostre e stelle filanti.
Spensierate le loro giornate dorate da fate incantate!
L'estate avanzò e quei piccoli semi crebbero diventando due fiori stupendi.
Una rosa rossa, vellutata e profumata, è regina tra i fiori, fra tutti la più bella.
Sparuto ed impacciato era il suo compagno di giochi, un esile papavero.
Ogni volta che vedeva la bella rosa arrossiva di pudore e... diventava sempre più rosso.
Un amore accecante avvampò in quel fiore titubante,
che non aveva il coraggio di dichiararlo alla rosa.
Lei si profumava tutte le mattine e crescendo diventava ogni dì sempre più bella,
sempre più rosa rossa. Ma la vita corta di una rosa è breve...
Giunse il giorno della sua massima beltà e della sua unica maturità.
Lei si rivolse al papavero con uno sguardo colmo di lacrime gli confessò il suo amore,
gli disse che da tanto tempo aspettava che lui la prendesse fra i suoi petali,
e proprio quel giorno, il suo ultimo giorno, il suo giorno da sposa, lei lo amò, lui l'amò.
Cercarono di fermare il tempo, chiedendo al mattino di mettere un palo sulla ruota
che faceva avanzare le ore, ma questo si ruppe e i momenti continuarono.
Chiesero al sole di rimanere nel cielo per sempre, almeno un po' di più,
ma la notte imperterrita e nera arrivò. La luna gemente raccolse la rosa,
la sua bellezza e le parole strazianti d'amore del papavero innamorato.
Ora era un papavero tutto solo, ai bordi di un campo di grano, con il cuore strappato!
Dolcemente rammenta i primi giorni, la loro infanzia, i loro sorrisi e infine i loro baci,
il loro unico giorno d'amore, solo un giorno da sposi.
Il suo lamento echeggiava tutt'intorno, era così acuto e dilaniante,
che anche il vento si svegliò. Incuriosito e allarmato, andò a vedere
cos'era quel pianto disperato e dopo aver trovato il papavero dal cuore spezzato,
che gli raccontò la sua triste storia, il vento, con gli occhi arrossati dalle lacrime,
cercò di consolarlo con le brezze più lievi, con il sussurro più delicato,
con note di nenie lontane. Ma il papavero disse che per certi mali del cuore
non esiste nessun conforto e pregò il vento di aiutarlo, di strappargli i petali
con un'unica sferzata e portarli fino alla luna,
per ricoprire il corpo della sua cara rosa rossa,
come un estremo sconsolato abbraccio d'amore.
Per quel compito così ingrato il vento chiuse a serra le sue labbra,
con occhi gonfi e chiusi estirpò il rosso dal papavero...
il suo ultimo desiderio era esaudito.
Un estremo atto d'amore, un peso che il vento si porta nel cuore,
ogni tanto ne parla, per liberarsi l'anima, attanagliata da incerte paure.
Fu così che il racconto di questa storia dilagò in tutto il mondo,
fu così che il rosso segreto del papavero morì tra la vita corta di una rosa.


Giudizio Indiscutibilmente ben scritto, anche se la storia non è particolarmente avvincente.

L'autrice ha 36 anni e vive a Lendinara, nella verde provincia di Rovigo, immersa nella quiete dei campi fioriti, nell’azzurro del cielo e nella luce solare della campagna. Ha un diploma di Maturità Magistrale. Ama imprimere sulla carta storie di vita vissute, storie di fantasie del cuore, storie di anima. Ha tre figlie e lavora come impiegata.

Torna all'inizio

Siti consigliati

Succo acido www.succoacido.it
Forza centrifuga www.forzacentrifuga.it
Kabul bolg kabul.splinder.it
Letture e visioni www.zoooom.it
Letteratour www.letteratour.it

Torna all'inizio


 
grafica Kaleidon © copyright fara editore