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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 67
Luglio 2005

Editoriale: Risvolti vitali

A dodici anni dalla nascita, Fara esce con una antologia poetica in qualche modo atipica: 21 poeti di età e poetiche diverse si presentano nella Coda della galassia il cui filo conduttore e forse quello di presentare versi che affrontano la vita, la realtà, insomma recuperano in po' l'etimologia della parola poesia come un fare non meramente solipsistico o un superficiale gioco linguistico, ma come un fare capace di cambiarci. In questo numero trovate opere dai risvolti vitali particolarmente evidenti (in quanto ci pongono in modo diretto nella verità delle cose): Dino di Drazan Gunjaca, Alcune poesie di Piergiorgio Viti, Con applicatore di Flavia Piccinni, Infinito spessore dei segni di Ardea Montebelli, QQ quasi quotidiana di Carmelo Calabrò. Vi ricordiamo, sempre per restare in argomento, che sono appena usciti i romanzi Pinocchio non abita più qui e Il Primo Pensiero, il romanzo breve L'isola continentale, il Poema dell'esilio con versione albanese a fronte e la silloge Seni di cristalli. Per l'estate avete solo l'imbarazzo della scelta! Buona lettura.

 

La coda della galassia

a cura di Alessandro Ramberti

Questo libro è un’avventura a cui hanno partecipato 21 autori (cliccando sui nomi saprete qualcosa di loro):

Luca Ariano
Roberta Bertozzi
Monica Borettini
Andrea Campanozzi
Caterina Camporesi
Chiara De Luca
Pietro Federico
Raffaele Ferrario
Gianmaria Giannetti
Gëzim Hajdari
Sergio La Chiusa
Gianfranco Lauretano
Nicola Molon
Alessandro Nannini
Luca Nannipieri
Davide Nota
Adeodato Piazza Nicolai
Domenico Settevendemie
Christian Sinicco
Giovanni Tuzet
Teresa Zuccaro

il progetto covava da tempo, ma ha ricevuto uno stimolo dalla lettura di un libro bello e intelligente curato da Gian Ruggero Manzoni: Oltre il tempo. Undici poeti per una metavanguardia (Diabasis 2004). Davide Rondoni, Martino Baldi sono poi intellettuali impegnati su più fronti che mi sono stati vicini con la loro amicizia e competenza.
La scelta degli autori è comunque imputabile unicamente al curatore: diversi gli stili e le poetiche, diverse le età e le visioni del mondo. Alcuni poeti li conoscevo da tempo; altri sono conoscenze “virtuali”, recenti, occasionali; altri mi sono stati consigliati. Difficile dunque trovare un fil rouge, se non un soggettivo gusto personale: credo però che tutti loro intendano la poesia non come un gioco di citazioni, di mera bravura letteraria, di sfogo per le personali frustrazioni, ma come un dare voce all’oltre, un dare suono al senso, un interpretare (anche con una valenza profetica) la realtà del mondo e delle relazioni umane all’inizio del terzo millennio.
Il titolo dell’Antologia si ispira a questi versi del curatore:

Sulla coda della galassia
Con grandi percussioni il cosmo cambia
i buchi sono fori tautologici
vi cade e vi sparisce l’energia
non ne sappiamo nulla
se nuova forma o vacuo
universale vi si addentra –
guardami le gengive, i denti
fanno luogo a ponti –
accoglimi con i miei vuoti
meno pericolosi degli spigoli
sommersi: non navighiamo a vista?
Mònitora il radar con lentezza
quando sei fragile e chiudi il cuore
i banchi toccheranno il pelo
dell’acqua e forse si incaglierà
la prua della ragione.
Resta con me al timone
e la spirale di questa piccola
galassia saprà soffrire
assieme ai suoi pianeti
che hanno raggruppato nella volta
le figure di una sapienza antica:
sono i progetti che fanno un po’ terrestre
il nostro cielo, più cosmico il margine
di spazio terra-terra.

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Dino

di Drazan Gunjaca

Non ho scritto nulla da mesi. A dire la verità, non ricordo l’ultima volta che mi sono messo a scrivere. Dapprima scrivevo per riflettere sulla realtà in cui vivo, più tardi, è stata la stessa realtà a riflettersi su quello che scrivevo, il che raramente può finire bene. Purtroppo, non sono stato un’eccezione a questa regola mai scritta, anche se ho cercato di esserlo… Come ho detto in uno dei miei libri, le eccezioni confermano la regola, ma per quando agguanto lo status di eccezione, mi avranno già distrutto.
Comunque, questa non è la mia storia. Non è neanche un racconto. È… non ho la più pallida idea di cosa sia. So soltanto che stamattina non ho bevuto il solito caffè, senza il quale non connetto, non funziono. Non funziono nemmeno ora. Dunque, mentre ero seduto a un tavolo sulla terrazza del solito bar, aspettando con ansia il mio primo caffè, ho assistito a una scena di fronte al bar superata soltanto dal destino stesso.
Conosco Dino da parecchio tempo. Dino è parte dell’inventario di questo bar e dei negozietti circostanti. Tanto che nessuno lo nota più. Gira sempre intorno a noi, qualche volta gli paghiamo da bere, scambiamo qualche frase senza senso… Nessuno sa precisamente quanti anni ha. Probabilmente venticinque o ventisei. Dino è cerebroleso. Dalla nascita. Una forma “leggera”. Di quelle che non ti costringono su una sedia a rotelle. Dino sorride sempre, anche se nessuno sa perché. Ma poi, già che abbiamo perso l’ottimismo, è bello vedere una faccia sorridente, anche se non sappiamo cos’è che lo mette di quest’umore poco comune. Dino è… Dino.
Come ogni mattina, Dino era qui anche questa volta. Accanto a noi. Quasi. Stava seduto una decina di metri più in là, accanto all’edicola, sullo sporco ripiano di cemento, e piangeva. Piano, sotto voce, con un’espressione strana… un dolore che nessuno capisce. Nessuno sapeva perché stesse piangendo. Ho aspettato che smettesse, che mi sorrida, per poter finalmente bere quel caffè che era sul tavolo da un bel po’… Inutile. Dino continuava a piangere. Poi ad un tratto, unì le mani come se stesse pregando… Il primo sorso del caffè ormai freddo mi andò di traverso.
Mi alzai. Tra una decina di minuti avevo un’udienza in tribunale. Fratello e sorella, ambedue anzianotti, querelano per 4 metri quadrati di cortile… gran cortile. Una di quelle cause assurde che ti fanno arrivare alla pensione. Appena finita l’udienza, tornai allo stesso bar. Non lo so perché. Dino non c’era più. Nessuno sapeva dove fosse andato. Alla mia domanda tutti scuotevano la testa disinteressati.
Senza prendere niente al bar mi incamminai verso l’associazione cittadina dei cerebrolesi gestita da un mio amico. Dovevo raccontare tutto questo a qualcuno. Mi squadrò con compassione, e il sorriso mi ricordò qualcuno…
Dino ha soltanto vent’anni e nessun amico. Dino vuole bene a tutto intorno a lui, ma… Dino vuole bene persino a una ragazza accanto alla cui bancarella passa ogni giorno, ma lei non nota nemmeno la sua esistenza. Dino non vivrà mai i primi baci, quella passione sconosciuta che sale dal profondo dello stomaco e colpisce dritto in testa… Non avrà mai la patente di guida per guidare una di quelle automobili veloci che guarda sfrecciare accanto a quel ripiano di cemento… Non avrà mai… Dino ha tentato di suicidarsi già un paio di volte.
Giro in macchina per le strade della città, senza meta, ascoltando il notiziario alla radio. Lo speaker parla con voce da automa della volontaria italiana rapita in Afghanistan… L’hanno rapita per far liberare gli amici dalle prigioni locali, amici criminali. Già, i criminali non hanno problemi con gli amici. Lo speaker parla della possibilità che la volontaria sia stata uccisa… Perché faceva del bene. Spero tanto che sia ancora viva. Almeno questo. Se no, dovremmo togliere tutte le targhe con i nomi delle vie che onorano i vari capi militari conosciuti o meno, e rimpiazzarli col nome della volontaria rapita. E di altri come lei. Per far sì che queste targhette insignificanti che in genere ignoriamo, ci ricordino almeno qualche volta che siamo solamente esseri umani e che un giorno potremmo aver bisogno di quelle persone che sanno quanti anni ha Dino e…
Mio Dio, in che razza di mondo viviamo. E quanto è colpa nostra se è ridotto così.

www.drazangunjaca.net

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Alcune poesie

di Piegiorgio Viti

Congedo
Sul pavimento, orme scontornate –
quale virtù serviva?
Il cielo, robusta assenza
bagliore
che resta appeso
trattenuto, come dalla bocca:
l’ammalarsi del tuo nome.

***

La realtà è la baracca di tutti gli orefici
il tuo specchio un ovale
che non mi riflette
l’amore, mio capoluogo difficile.

***

Estate
l’edera smangia l’ arenaria
fissa azzurrità

una luce di anni
anni luce nelle cortecce
e una suora alla soglia
(nella sua tunica nera
riconosco l’infanzia)
parola che risveglia.

***


Vivendo di fede:
il paesaggio, altri profili,
vicino che aspira al lontano,
glabra ustione.

***


i pini screpolano la riviera
l’orizzonte taglia e cuce le biciclette
fa freddo, è mezzogiorno:
non lasciare il mio cuore
incustodito.


Piergiorgio Viti è nato nel 1978 a Sulmona. Vive a Monte Urano (AP). È presente in antologie, riviste specializzate, siti internet.

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Con applicatore

di Flavia Piccinni

“La fortuna si accanisce sempre sui più deboli” mi dice Mario.
“Eh?” rispondo, istintivamente come se non ci fosse altro da dire. Come se proprio quel “Eh?” scandalizzato e arrabbiato fosse l’unica risposta valida: l’unica accettabile.
Mario adesso sta zitto e si tocca gli occhiali grandi e con le lenti riflettenti. Hanno un bel graffio sulla lente sinistra, ma lui probabilmente non se ne è ancora accorto. O, semplicemente, non gli interessa.
Fa freddo oggi, anche se è aprile. Fa freddo non come a dicembre quando ti vuoi infilare una giacca e poi un maglione e poi seppellirti sotto il piumone accanto alla stufa. Fa un freddo condito d’imbarazzo. Come quando sei in chiesa e tutti piangono, per il funerale, e recitano in coro il Padre Nostro mentre tu te ne stai zitta e preghi solo che nessuno si accorga che tu non credi e che la Messa finisca presto. Fa freddo con il sole e con un vento che ti trascina i capelli e tu che parole non ne hai, anche se servirebbero. Eccome se servirebbero. Perché le parole non ti vengono mai nei momenti in cui sono necessarie e inizi a parlare a vanvera solo quando dovresti chiudere la bocca e far parlare gli altri. Ascoltare, insomma.
Fatto sta che oggi fa freddo. Che accanto a me sta Mario. Che Mario ha due occhialoni graffiati e che dice “la fortuna si accanisce sempre sui più deboli” mentre il vento mi stravolge i capelli e quelli dietro di me, lei tacchi a spillo e trucco da Moira Orfei, lui giacca di velluto e capelli ingelatinati come una sanguisuga, bisbigliano. Non capisco cosa si dicano. Ma c’è lui che le tiene una mano sulla schiena e lei che, a tratti, appoggia la sua testa sulla spalla di lui. Poi c’è sempre lei che gli dice qualcosa all’orecchio. Lui che annuisce. Poi, ancora: il silenzio.
Quel silenzio che vorresti quando sei sul mare a guardare le onde. Il silenzio di persone che pensano e che ringraziano che non sia toccato a loro. Che ringraziano di essere solo spettatori, seduti, in piedi. Spettatori paganti. Spettatori che osservano con attenzione il tuo dolore: non è toccato a me – pensano mentre chiudono gli occhi. Mentre abbassano lo sguardo. Mentre sanno che domani tutto sarà passato. Per me, almeno, lo sarà.
“E’ uno spettacolo indecente” mi continua a dire Mario, come se oggi di cazzate ne avesse dette poche. Dice qualche altra idiozia, masticando nervosamente le parole. Poi basta. Si tira su gli occhiali, come a fermare quei brutti capelli crespi che si ritrova, e guarda quelli che chiudono la tomba. In silenzio, anche loro.
La tomba è una di quelle a muro che costano poco. E’ un piccolo buco in un muro alto più o meno quattro metri. Un buco centrale, circondato da altri due loculi già pieni dove le lettere scure con la pioggia hanno lasciato un segno verde che è colato giù. Stanno scritti i nomi, le date di nascita, di morte. Ad una in bella mostra c’è una fotografia: una vecchia con gli occhiali grossi e il sorriso a mezza bocca. Non è bella, la vecchia, ma come dice Zia Marcella non si può parlare male dei morti. Anche se sono i peggiori esseri dell’Universo, secondo lei, una volta morti, meritano il Paradiso. Io al Paradiso non ci credo così finisce che parlo lo stesso male di suo marito, l’abusivo, perché prima di lei aveva sposato una bella negra del Camerun che dopo un paio di mesi lo aveva lasciato per il figlio del concessionario che vende le auto Fiat usate sulla tangenziale. Controllo sempre che lei non mi stia a sentire, la farei soffrire a vuoto e poi non la sopporto quando mi dice che devo portare rispetto ai morti.
Un muratore tossisce e dice all’altro qualcosa. I due stanno infagottati in gilè arancioni, come quelli che portano gli spazzini dell’Amit. Stanno lì non curanti degli sguardi di tutti: noi, poveri scemi, che vediamo mettere davanti ad una bara mattoni e cemento. Cemento e mattoni. Con la figlia e la moglie che guardano la scala appoggiata al muro e quei due avvolti in gilè fosforescenti che, come fosse nulla, gli portano via, per sempre, il compagno. Mario adesso sta zitto. E anche io non ho di che parlare. Sento freddo anche se il sole mi batte in faccia e me la illumina, come fosse giugno. I due dietro di me si abbracciano. Lui la stringe da dietro. Lei si mangiucchia le unghie della mano destra. Le foglie della siepe, quella che separa il cimitero dal mondo, si muovono. Il fruscio è lento, solo a tratti veloce. Il rumore impercettibile, ma continuo.
Alzo gli sguardi e vedo le facce intorno a me. I sorrisi di quelli che godono della sfiga altrui e come rapaci aspettano di poter raccontare quanto è umile la tomba e quanto erano maleducati i due becchini Le facce di persone che vorrebbero andare via, a fare le loro cose, e che scocciate si chiedono quando finiranno di mettere cemento e mattoni. Le lacrime di quelli che piangono perché non hanno altre maniere per partecipare alla situazione. Gli occhi fissi, gonfi e tremanti. Gli sguardi, sinceri, di quelli che non sono lì per sbaglio. Ma solo per starti vicino, perché è brutto, cazzo se è brutto, perdere un padre a diciott’anni e renderti conto che non hai nessuno se non un paio di compagne di classe che si fingono amiche e neanche hanno avuto il buon gusto di vestirsi di nero. Simona, quella che crede di essere alternativa, si è presentata con una maglietta rosa che le fascia i chili di troppo. Fa la fila dietro la squadra di pallavolo, mentre finge di trattenere le lacrime. Federica, quella che ci sei andata in Grecia d’estate e non ha trovato uno straccio di ragazzo, benché sia riuscita a fare conquiste anche Anna - ottantadue chili per un metro e sessanta, ha la felpa verde pisello, i jeans bucati e le scarpe con i lacci rossi: neanche dovesse andare ad un rave.
Ma loro sono le amiche, quelle che ti dovrebbero stare vicine e invece non ti seguono neanche in bagno durante l’ora di greco, quando esci piangendo, perché non vogliono smettere di prendere appunti. Perché, la classe è un microcosmo. Con le persone false e bugiarde come nei piccoli borghi, come nelle metropoli: come il cimitero. Dove vai a portare i fiori non perché ti fa piacere, ma perché non è bene che la tomba stia così, senza neanche un fiorellino che la adorni.
“Questo funerale mi fa schifo” esplode Mario adesso. Lo dice a voce alta, mentre la fila per abbracciare la figlia orfana si allunga e le persone iniziano a spazientirsi. In parecchi si girano. Lo guardano male, ma lui sembra non accorgersene. Si mette in disparte, tenendo in mano la giacchina di camoscio. Appoggia un piede su una tomba dal bell’angelo con le ali che svolazzano e guarda l’orologio. Sono in tanti, quelli che continuano a guardarlo. Qualcuno, lo vedo da come lo fissa, vorrebbe dirgli qualcosa: che no, non si sta così ai funerali, che bisogna portare rispetto ai morti.
“Che rispetto avete voi?” dice poi, mentre mi sto cercando una sigaretta nella borsa. Lui è uno di quelli che non riescono a non fare polemica. Per lui la polemica o c’è o c’è: è obbligatoria. Nessuno risponde, solo sguardi sdegnati. Qualche scossa di testa. Qualche mano passata fra i capelli. Continuo a cercare la sigaretta: il pacchetto è finito sotto il cellulare e si è incastrato con la cerniera della tasca interna. Mi serve tutta la maestria che possiedo per prenderne una. Adesso non mi resta che rintracciare l’accendino e trovare un nascondiglio per accendere. Mi sto allontanando con disinvoltura quando sento Mario che mi comanda: “Vai da Serena”. Vorrei dirgli che l’abbraccio glielo posso dare dopo ma che la sigaretta è un bisogno impellente, che no, non posso proprio rimandare che se non me ne fumo una ogni mezz’ora svengo, ma lui mi fa cenno con la mano. Non mi resta che infilarla in tasca, sperando che non si spezzi, e abbracciare Serena.
Io Serena in cinque anni di scuola non l’ho mai abbracciata. Non perché mi faccia propriamente schifo, no. Solo perché io abbraccio quelli a cui sono legata con un vincolo affettivo fortissimo. Mamma, papà, fratello (raramente), cugina, il ragazzo del momento: nessun altro. Poi, abbracciare le donne mi fa senso. Soprattutto quando sono comuniste che sembrano sempre sporche e ho paura di prendermi qualche malattia. Fatto sta che Serena mi prende e mi stringe. E allora sento il suo dolore come mio. E non mio per sbaglio, ma mio davvero. Vedo la faccia bianca, senza trucco. Gli occhi rossi e il naso gonfio. Le tasche piene di fazzoletti, che qualcuno gli è pure caduto. Mi passa la mano sulla schiena un paio di volte. Io le dico che se ha bisogno non si deve fare problemi, che io ci sono. Lei dice che lo sa e io mi sento la coscienza a posto. Almeno in parte. Perché, in fondo, è questo quello che vogliamo tutti: fare bella figura, con gli altri come con noi stessi. Tranne Lorenzo che è venuto dieci minuti, ha respirato odore di Chiesa, non si è neanche preoccupato di farsi vedere e se n’è andato. A preso la sua Fiat Punto bianca con impianto stereo da discoteca, ha messo una musica dance ed è andato a Viareggio. Che là c’è sempre il sole. E fa caldo. E non ci pensi che una che è in classe con te adesso non dirà più la parola papà, se non associata a imperfetto e ricordi remoti.
Poi Mario. La stringe. Le tocca i capelli, vedo che gli annusa. Dovrei essere gelosa, ma non lo sono. Un ricciolo gli si infila fra le vitine degli occhiali. Quando si separano un paio di capelli rimangono intrappolati e lei sorride. Lui maldestramente si toglie gli occhiali: le tira i capelli. Si salutano e lei dice, come un automa, grazie. Lui inclina la testa poi si avvicina a me e:
- Ma infondo, a noi che ci frega?
- Come che ci frega?
- Sì, che ci frega?
Io allora me ne sto zitta. Queste sono quelle domande che non vanno mai fatte, perché non hanno risposta. Cerco un aforisma da utilizzare per non sembrare imbarazzata e ignorante. Per non sembrare come sono. Missione impossibile. Mi prendo la sigaretta dalla tasca: è spezzata. Prendo la parte con il filtro e l’accendo. Dura un paio di aspirate. Poi la tiro per terra, fra i sassi e le erbacce. La pesto. Sento un sapore amaro in bocca e la gola raschiata.
Devo smettere di fumare mi dico, mentre mi viene in mente che quello è morto di cancro ai polmoni.

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Infinito spessore dei segni

di Ardea Montebelli

Infinito spessore dei segni
luce che visita l’anima
nel dire umano
di celeste memoria
congiunge e nutre.
Viene il Santo Spirito
viene quieto.
Rinnova la somiglianza con l’eterno
alita un soffio di vita,
nella carne benedice.
Luce dell’anima
che non ti rassegni
scuoti a piene mani
in povere cose
contempli l’eterna promessa.
Luce Santa
scintilli nell’infinito ascoltaci,
avvolgi la nostra nudità
all’anima smarrita rivelati
voce interiore
che inviti al Mistero.
Veni Creator Spiritus
torna consolatore
alla tua unica fonte,
dona all’anima
una memoria di luce.

(Solennità di Pentecoste 2005)

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da QQ quasi quotidiana (silloge inedita)

di Carmelo Calabrò

Proprietà
Non appartengono le cose
Figurarsi la luce degl’occhi
Il gesto perpetuo delle mani
L’andare e il ritornare
La libertà del corpo
Mosso da pensieri incessanti
Sono la vita che non muore
Amare è immaginarla muti
Se lontana, stringerla forte
Quando si stringe a noi

Marina di Vecchiano
L’onda colore del ghiaccio
Il cielo marmo, basso
La spiaggia piatta di vento
Le minime arselle viola
Meriti un po’ di felicità?

Il tuo lavoro
La mattina arrivavo presto
Sotto il glicine i giornali
E la gente che va e viene
Quante volte t’ho vista
Passare tra le domande
Di clienti rapidi
Ora il giornale
Lo leggo a casa
Di clienti non ce ne sono
Il caffè lo bevo da solo
Ma il glicine lo sento
Sfiorarmi sotto il soffitto

Il viaggio
Il viaggio lungo
Lascia in testa un ronzio
La sensazione fisica
Di una consumazione
Il corpo ha percepito
Più ancora del cervello
L’usura aspra del tempo

L’ombrello
Il loto in giardino
Rosso sotto la pioggia
Tutt’intorno l’autunno
Fuori dalla porta c’è
L’ombrello poggiato al muro
Non lo prendo, lo guardo soltanto
Dovrei andare ma resto

Versi
I versi che ho scritto per te
Non sono un dono d’amore
Bensì un prestito, il genio
Del mio egoismo gracile
Sono pensieri che tu
Continuerai a dedicarmi

Carmelo Calabrò, messinese, ha pubblicato nel 2004 la raccolta Cinquanta, edita da Fara. La poesia è una passione coltivata da tempo, che si concilia con il lavoro di ricercatore in Storia del pensiero politico presso l‚Università di Pisa.

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