|  | FARANEWSISSN 15908585
 MENSILE DIINFORMAZIONE CULTURALE
 a cura di Fara Editore
 
 1. Gennaio 2000
 Uno strumento
 
 2. Febbraio 2000
 Alla scoperta dell'Africa
 
 3. Marzo 2000
 Il nuovo millennio ha bisogno di idee
 4. Aprile 2000Se esiste un Dio giusto, perché il male?
 5. Maggio 2000Il viaggio...
 
 6. Giugno 2000
 La realtà della realtà
 7. Luglio 2000La "pace" dell'intelletuale
 8. Agosto 2000Progetti di pace
 9. Settembre 2000Il racconto fantastico
 10. Ottobre 2000I pregi della sintesi
 11. Novembre 2000Il mese del ricordo
 12. Dicembre 2000La strada dell'anima
 13. Gennaio 2001Fare il punto
 14. Febbraio 2001Tessere storie
 15. Marzo 2001La densità della parola
 16. Aprile 2001Corpo e inchiostro
 17. Maggio 2001 Specchi senza volto?
 18. Giugno 2001Chi ha più fede?
 19. Luglio 2001Il silenzio
 20. Agosto 2001Sensi rivelati
 21. Settembre 2001Accenti trasferibili?
 22. Ottobre 2001Parole amicali
 23. Novembre 2001Concorso IIIM: vincitori I ed.
 24. Dicembre 2001Lettere e visioni
 25. Gennaio 2002Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
 26. Febbraio 2002L'etica dello scrivere
 27. Marzo 2002Le affinità elettive
 28. Aprile 2002I verbi del guardare
 29. Maggio 2002Le impronte delle parole
 30. Giugno 2002La forza discreta della mitezza
 31. Luglio 2002La terapia della scrittura
 32. Agosto 2002Concorso IIIM: vincitori II ed.
 33. Settembre 2002Parola e identità
 34. Ottobre 2002Tracce ed orme
 35. Novembre 2002I confini dell'Oceano
 36. Dicembre 2002Finis terrae
 37. Gennaio 2003Quodlibet?
 38. Febbraio 2003No man's land
 39. Marzo 2003Autori e amici
 40. Aprile 2003Futuro presente
 41. Maggio 2003Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
 42. Giugno 2003Poetica
 43. Luglio 2003Esistono nuovi romanzieri?
 44. Agosto 2003I vincitori del terzo Concorso IIIM
 45.Settembre 2003Per i lettori stanchi
 46. Ottobre 2003"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
 47. Novembre 2003Lettere vive
 48. Dicembre 2003Scelte di vita
 49-50. Gennaio-Febbraio 2004Pubblica con noi e altro
 51. Marzo 2004Fra prosa e poesia
 52. Aprile 2004Preghiere
 53. Maggio 2004La strada ascetica
 54. Giugno 2004Intercultura: un luogo comune?
 55. Luglio 2004Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
 56. Agosto 2004Una estate vaga di senso
 57. Settembre2004La politica non è solo economia
 58. Ottobre 2004Varia umanità
 59. Novembre 2004I vincitori del quarto Concorso IIIM
 60. Dicembre 2004Epiloghi iniziali
 61. Gennaio 2005Pubblica con noi 2004
 62. Febbraio 2005In questo tempo misurato
 63. Marzo 2005Concerto semplice
 64. Aprile 2005Stanze e passi
 65. Maggio 2005Il mare di Giona
 65.bis Maggio 2005Una presenza
 66. Giugno 2005Risultati del Concorso Prosapoetica
 67. Luglio 2005Risvolti vitali
 68. Agosto 2005Letteratura globale
 69. Settembre 2005Parole in volo
 70. Ottobre 2005Un tappo universale
 71. Novembre 2005Fratello da sempre nell'andare
 72. Dicembre 2005Noi siamo degli altri
 73. Gennario 2006Un anno ricco di sguardi
 Vincitori IV concorso Pubblica con noi
 74. Febbraio 2006I morti guarderanno la strada
 75. Marzo 2006L'ombra dietro le parole
 76. Aprile 2006Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
 77. Maggio 2006"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
 
 78. Giugno 2006
 Varco vitale
 79. Luglio 2006“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero 
  tempo, stabilità, “memoria”
 79.bisI vincitori del concorso Prosapoetica 2006
 80. Agosto 2006Personaggi o autori?
 81. Settembre 2006Lessico o sintassi?
 82. Ottobre 2006Rimescolando le forme del tempo
 83. Novembre 2006Questa sì è poesia domestica
 84. Dicembre 2006La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
 85. Gennaio 2007La parola mi ha scelto (e non viceversa)
 86. Febbraio 2007Abbiamo creduto senza più sperare
 87. Marzo 2007“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
 88. Aprile 2007La Bellezza del Sacrificio
 89. Maggio 2007I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
 90. Giugno 2007“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
 91. Luglio 2007La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
 92. Agosto 2007Versi accidentali
 93. Settembre 2007Vita senza emozioni?
 94. Ottobre 2007Ombre e radici, normalità e follia…
 95. Novembre 2007I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
 96. Dicembre 2007Il tragico del comico
 97. Gennaio 2008Open year
 98. Febbraio 2008 
  Si vive di formule / oltre che di tempo
 99. Marzo 2008Una croce trafitta d'amore
 
 
 |  | Numero 91Luglio 2007
 Editoriale: 
          La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)Questo numero si apre con un lungo e stimolante saggio 
          di Viviana Scarinci che ci parla della Nascita 
          del poeta a partire dal mito di Orfeo (ovvero, secondo un'etimologia 
          a base fenicia, Colui che guarisce con la luce). Abbiamo poi inediti 
          veramente interessanti di Claudio Pagelli (“siamo 
          fatti per essere muti / come i fiori, a che serve, mi chiedi,la parola / se un gesto già racchiude il mare…”, 
          Enrica Musio ("Le vie delle nuove case difronte 
          a me studio, / gli sguardi della gente / la mia mancanza di fiato / 
          finestre sfuocate / il pensiero della parola che non vedo…”), 
          di Johan Pesaresi in primissima uscita pubblica con 
          versi che sono un vero e proprio incontenibile flusso di coscienza (“l'animo 
          corre lontano.. / quando t accorgi ke si muove / esso è già 
          all'orizzonte / guarda avanti.. / e sorride.. / ma nn a te..”; 
          grazie ad Alex 
          Celli per averceli proposti) e di Costantino Loprete 
          (“e tutti cercano il nome / la panacea, che impedì il futuro”). 
          Abbiamo anche una empatica recensione di Vincenzo D'Alessio a Il 
          gatto e la falena di Maria Pina Ciancio ( “Portatemi via tutto 
          / (i sogni, l'anima, la felicità) / ma lasciatemi in segreto 
          / la parola per ricominciare”). Padre Bernardo 
          ci offre infine una intensa meditazione lucana (“non può 
          esistere una società, una cultura, un sistema politico capace 
          di capire fino in fondo la novità di Cristo”).
   4. 
          Nascita del poeta di Viviana 
          Scarinci (…) ripetizione è oggi un termine risolutivo 
          come lo fu “reminescenza” presso i Greci. Come dunque costoro 
          insegnano che ogni conoscere è un ricordare, così la filosofia 
          nuova insegnerà che la vita intera è una ripetizione (…). 
          Ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento (…)(Soren Kierkegaard) (1)
 Orfeo Per Ovidio, Orfeo è un cantore della Tracia, figlio 
          di Apollo e della musa Calliope, ma secondo un'altra tradizione egli 
          è figlio del re Eagro, il cui nome significativamente allude 
          alla sua caratteristica di “cacciatore solitario”, re della 
          Tracia, amato dalla musa Calliope che gli generò Orfeo e Lino; 
          entrambi dal padre iniziati ai Misteri dionisiaci (2). Entrambi poeti. 
          Pare ci sia concordanza sulla figura di Calliope come madre, il cui 
          nome dal greco vuol dire, colei che ha bella voce. Quindi per linea 
          materna ad Orfeo potrebbe essere stata trasmessa la poesia, e per linea 
          paterna, dalla primissima infanzia, gli potrebbe essere stata infusa 
          l’appartenenza dionisiaca. E se fosse stato invece Orfeo, soltanto il figlio di una donna della 
          Tracia (3)? Il figlio di una regione che veniva vista dai greci come 
          una terra sacra. Terra su i cui monti si trovano antichissimi santuari 
          e nelle cui vallate boscose, le sacerdotesse della triplice Ecate, avevano 
          imposto al culto dionisiaco caratteristiche cruente e terribili (4). 
          In una regione come questa, Orfeo poteva essere tanto il figlio di una 
          tra le donne dedite ad un culto uranico o solare celebrato sugli altipiani, 
          e di un uomo, che fosse un re indigeno o altri, magari un pastore avvezzo 
          alla follia bacchica, dilagante negli anfratti sottostanti il tempio. 
          Non doveva camminare ancora Orfeo, se in braccio alla madre, nascondeva 
          il viso tra i suoi capelli, nell’odore celeste che la permaneva 
          nottetempo, quando discendevano l’altura del tempio: la vegetazione 
          si fa aspra, fitta di altro odore e cingeva la madre alla vita sfiorando 
          il piccolo che con lei discende verso una zona consacrata ad altro culto 
          e che la sensibilità infantile di Orfeo, già presente 
          satura di orridi richiami. Così madre e figlio col favore del 
          buio, raggiungevano il padre, così si esponevano ai più 
          terribili incontri, nella terra delle baccanti. Quello che Orfeo annusò 
          poi, fu l’afrore dell’abbraccio paterno, se pastore, il 
          padre, dava appuntamento alla madre in accordo con le baccanti, che 
          non le nocessero. O un forte sentore di mirra, se il padre era Eagro 
          che rifuggiva l’ufficialità della reggia per votarsi nottetempo 
          a Priapo, Re, splendido, circospetto (5). Questo durò fino alla 
          sparizione della madre, la quale lasciò Orfeo ancora troppo piccolo, 
          improvvisamente s’immagina, solo perché la morte lo pretese. 
          Nel caso in cui Orfeo crebbe tra pastori, visse la sua infanzia nel 
          tacito accordo con la natura che lo vedeva difendere di giorno il gregge: 
          Orfeo esposto tutte le ore ai mutamenti atmosferici che gli accadevano 
          sulla pelle, accolti con la neutralità di colui che, dalla stessa 
          mutazione, si sente naturalmente mosso nell’intimo. La notte lo 
          vedeva riconoscere tra i richiami degli animali, gli ululati emessi 
          in corsa da quelle che tra le sacerdotesse di Ecate, si diceva, fossero 
          divenute bestie. Venivano trovati, dai pastori, animali feroci dilaniati, 
          smembrati in quantità, tanto che capitava facilmente, attirati 
          da un terribile odore di putrefazione, di trovarne interi brani, tra 
          i boschi che circondavano gli stessi pascoli. Per le strade dei villaggi 
          si diceva che queste donne già sacerdotesse di Ecate fossero 
          impazzite dalla possessione della dea triplice che incattivita poteva, 
          sotto la sembianza di tre distinti corpi, attendere nottetempo gli uomini 
          a quadrivi per sbranarli. Nei villaggi terrorizzati dai macabri ritrovamenti, 
          Ecate appariva come una Lilith capace di infierire anche sui bambini, 
          senza che il terrore fosse mitigato dal sapere Ecate, poter anche essere 
          dolcissima amica, come lo fu per Persefone (5). Ma anche se Orfeo fosse 
          stato un principe cresciuto nel fervore degli scambi con la Grecia che 
          ad ogni arrivo di mercante e di musico straniero assisteva incantato 
          all’approdo del mondo nel microcosmo della Tracia; anche se Orfeo 
          fosse stato il principe adolescente che avesse avuto da solo il privilegio 
          di partecipare alle cacce paterne che Eagro divideva solo col figlio 
          datogli da quella donna celeste. Che il padre fosse un re o che fosse 
          un pastore, non importa, importa che egli decise che per il figlio poco 
          più che adolescente, fosse arrivato il momento in cui conoscere 
          il luogo e l’azione del suo concepimento. Se Orfeo fosse stato 
          un giovane pastore spaventato ed eccitato di entrare nel mondo paterno 
          o un colto principino, costretto dal padre a guardare lo spargimento 
          di sangue tra cui era stato concepito, in entrambi i casi egli si trovò 
          ad affrontare il terrore. Un terrore che da poco più che bambino, 
          non misconobbe con un finto coraggio, ma visse appieno, mantenendo il 
          suo cuore aperto al rito, perché già Orfeo era una cosa 
          sola con l’unità del mondo che esiste e dura (6).
 Vide Orfeo, la notte della sua iniziazione, le baccanti circondare un 
          torello che dal loro magico cerchio, non fu capace di liberarsi. Mentre 
          il gruppo delle invasate si avventava contro il torello per azzannarlo, 
          una, con le mani nude gli afferrò il primo accenno di corna e 
          gli storse con forza sovrumana, il muso, fino a spezzargli il collo; 
          le altre al culmine dell’eccitazione, con la stessa inesplicabile 
          forza gli strapparono le zampe, e tirando infine le monche estremità 
          della bestia, strapparono il tronco in due, provocando la fuoriuscita 
          delle viscere e dello spirito della bestia che unicamente avrebbe potuto 
          evocare l’avvento di Dioniso. Se la ripetizione è, per 
          un dio, segno maestoso, sigillo della necessità (7), fu dopo 
          lo smembramento del toro che il dio si presentò finalmente straziato 
          e trionfante, vittima, dell’ennesima ripetizione del suo smembramento. 
          Smembramento atto a rendere il presente dell’iniziato, vivo del 
          passato del dio; è così che il denso ricordare del dio, 
          diventa il terreno su cui l’iniziato deve provare la sua umanità, 
          deve conoscersi. Allora le baccanti imbrattate di sangue con una dolcissima 
          melopea, cominciarono a ripercorrere l’azione titanica che uccise 
          il loro dio. Era il culmine della notte quando i Titani, col volto biancheggiante 
          che si stagliava nel buio, circondarono il piccolo Dioniso-Zargreo. 
          Anche il bimbo si trovò col volto imbrattato, tanto che prese 
          uno dei suoi giocattoli preferiti, lo specchio e si guardò per 
          l’ultimo tempo che i Titani gli concessero. Era Lui, Dioniso la 
          cui vita stava per essere infranta o era qualcos’altro? Provò 
          diverse trasformazioni forse per sfuggire ai Titani o forse per darsi 
          prova di essere non solo il bambino che stava per morire ma anche un 
          adolescente che vuole solo l’ebbrezza perché l’ha 
          scoperta da poco; un leone che sbrana non per inimicizia; un cavallo 
          complice dell’uomo in tutto; un serpente tentatore come Zeus, 
          suo padre, che sotto quella forma lo concepì; una tigre indolente 
          e ferocissima. Quando i Titani lo afferrarono, l’ultima forma 
          che gli si conobbe, fu quella di toro. La melopea si concludeva con 
          un urlo, quello trionfale di Hera, che dai Titani aveva preteso quello 
          scempio (8). Orfeo atterrito e commosso dal canto delle baccanti, si 
          immedesimò nel bambino che i Titani stavano smembrando, immedesimandosi 
          diventò altro da sé, assunse in questo modo la prerogativa 
          dionisiaca dello sdoppiamento; diventò il suo corpo, per la durata 
          del rito, occupato dalle mutazioni del dio, e come Lui dolente di essere 
          fatto a pezzi, come il dio col corpo accecato dello strazio infantile, 
          non si riconobbe allo specchio che gli porse il padre. L’alterità 
          coesa all’ebbrezza, gli rese l’estasi, quell’istante 
          del corpo capace di accogliere tutte le forme del dio. Fu quella notte 
          che Dioniso vide Orfeo e lo decise detentore naturale, tra gli uomini, 
          della sua maschera. Si sentì compreso Dioniso da un uomo. Orfeo 
          capì che lo sconvolgente annullamento delle differenze tra donna 
          e bestia che le baccanti ritualmente operavano per darsi la forza di 
          infierire sul corpo del toro, era la condizione necessaria per trasformare 
          l’eccidio nella struggente melopea dedicata al loro dio. Comprese 
          la labile dicibilità della poesia, indossando la maschera che 
          Dioniso gli porse quella stessa sera, maschera che gli conferiva il 
          privilegio della frontalità, lo sguardo diretto, necessario alla 
          distorsione poetica, per tendere altrove. Certo Orfeo il mattino successivo 
          si svegliò, pastore o principe, comunque uomo, la cui coscienza 
          si era arricchita finalmente del compito che avrebbe governato la sua 
          esistenza. Già si diceva che Orfeo in una notte di baccanale 
          avesse incontrato il dio nuovo che a Ecate s’era sostituito rendendo 
          le sacerdotesse, baccanti. Già si diceva che le baccanti impazzivano 
          del desiderio di impossessarsi del giovinetto. Chi assistette quella 
          notte all’incontro tra Dioniso e Orfeo, tacque. I pochi uomini 
          che si congiunsero ritualmente alle baccanti erano troppo ubriachi per 
          ricordare cosa effettivamente accade al giovane Orfeo, abbandonato, 
          anche dal padre, al suo destino di dolorosa crescita. Orfeo, decise 
          quindi di partire, forse perché le baccanti non lo distruggessero 
          per troppa brama o forse perché sentiva gli mancasse un compimento 
          ulteriore, che consentisse alla sua statura umana, di tentare il governo 
          di quelle forze così oscure. E dove recarsi se non in Egitto?
  Egitto (9) (…) E ove prime erameno di una capanna a ricevere la voce,
 un nascondiglio di indistinte brame
 con un accesso i cui stipiti tremano
 – tu fondasti nel loro udito i templi
 (Rilke, I Sonetti ad Orfeo, I)
 Come approfondire i Misteri di Dioniso se non attraverso quella figura 
          così simile per ruolo e per destino che è Osiride, dio, 
          attraverso i cui Misteri, la regalità nell’antico Egitto 
          trovò il suo fondamento. E quale la terra se non l’Egitto, 
          in cui il culto misterico veniva rappresentato non dalla frenesia degli 
          invasati ma da una vera e propria casta sacerdotale ospitata in templi 
          che godevano di considerazione politica e sociale. Tanto che era ad 
          Eliopoli, antica città santa, che i faraoni andavano a legittimare 
          il loro status. I sacerdoti di quella città avevano avuto infatti 
          l’audace politica di assimilare e rielaborare in prospettiva universale, 
          le antiche tradizioni locali, sancendo così la supremazia della 
          teologia eliopolita su tutta la regione. Essa promuoveva una visione 
          del mondo divino organizzato gerarchicamente nella grande famiglia dell’Enneade, 
          dominata dalla figura di Ra, il dio sole. Figura sorprendentemente vicina 
          a quella di Apollo che pure si dice essere padre di Orfeo. Al principio, 
          il sole, personificato in questa divinità, coniugandosi all’elemento 
          liquido, rappresentato materialmente dalle acque del Nilo, aveva generato 
          tutte le cose. È immaginabile il potere fascinatorio che esercitò 
          questa teologia sul giovane poeta. L’altra suggestione dell’Egitto 
          che Orfeo fu chiamato a vivere, era l’impossibilità di 
          sentire quegli déi come figure esclusivamente divine e perciò 
          inavvicinabili. Essi erano forze cosmiche pienamente agenti; da elementi 
          della natura e non da remote divinità olimpiche, erano i governatori 
          dei principi galvanici del divenire umano che agiva secondo quella teologia, 
          tanto sulla vita quanto sulla morte; morte che come la vita poteva essere 
          sancita da regole di governo. Sono cinque gli elementi che Orfeo apprese in Egitto essere le condizioni 
          necessaria dell’esistenza: il nome, l’ombra, lo akh, 
          il ka, il ba. Il nome si lega al potere della parola 
          che seguendo il suo alterno afflato di luce e di ombra pronunciata dal 
          corpo su i suoi stessi contenuti, dipana il destino che la persona, 
          con il suono di quella parola che è il suo nome, condurrà. 
          Il nome, qualcosa di appena antecedente il respiro, l’anacrusi 
          del gergo individuale. L’ombra è l’alter ego irriflesso 
          dell’uomo, il doppio diseguale, ciò che lo specchio rimanda 
          al piccolo Dioniso-Zagreo che al tempo stesso, si riconosce e non si 
          riconosce nelle forme istintive che gli proliferano tanto dalla paura 
          quanto dall’esaltazione; forme che gli si alternano nella mente 
          come possibilità del corpo di dare compimento materiale a quanto 
          di volta in volta l’animo concepisce. L’akh rappresenta 
          la luce come veicolo, la luce come possibile emanazione d’ognuno; 
          uguale per gli dèi e per i defunti, rendendoli così, dèi 
          e defunti, assimilabili e dotati della stessa qualità solare. 
          Questa luce è il veicolo indispensabile perché il passaggio 
          tra al di qua e al di là si possa compiere. L’uomo ha in 
          vita la possibilità di acquisire questo veicolo luminoso, attraverso 
          lo sviluppo del ka. Il ka è la pura forza vitale 
          che l’essere umano può disciplinarsi in vita; è 
          ciò il cui incremento gli consentirà nel futuro di mantenere 
          la sua esistenza nell’al di là; consentirà all’anima 
          di non dissipare nella morte. Il ka quindi è un principio 
          mutevole che dipende dal potere personale di colui che lo possiede e 
          che può consentirsi di esistere sia tra i vivi che tra i morti. 
          Infine il ba è una forma di potenza propria all’uomo, 
          al defunto e alla divinità; questa potenza viene rappresentata 
          come un uccello dal volto umano che accompagna l’uomo in vita 
          e lascia il defunto alla sua morte finché egli non se ne riapproprierà, 
          dopo il processo di mummificazione. È grazie al ba che 
          dèi e defunti possono ripresentarsi ai viventi sotto una forma 
          visibile.
 Come poteva il poeta, non ricordare certe intuizioni che lo visitavano 
          spesso, che gli arrivavano spontanee e da sempre, intorno a questi principi 
          di cui solo ora materialmente acquisiva la conoscenza? Il suo nome ad 
          esempio. Secondo una fonte (10) che abbraccia più l’aspetto 
          esoterico che quello comprovatamente storico della materia orfica, non 
          gli fu imposto dalla madre, ma conferito in Egitto secondo la norma 
          misterica che alla seconda nascita, quella successiva all’iniziazione, 
          dovesse essere imposto un secondo e più importante nome, quello 
          spirituale. Secondo questa fonte il giovane venne chiamato Arpha, vocabolo 
          fenicio composto da Aur, luce, e rophae, guarigione; 
          colui che guarisce con la luce. L’ombra era ciò che aveva 
          cagionato la sua partenza dalla Tracia; era la sua immagine che per 
          un istante aveva visto riflessa nello specchio di Dioniso. Era quanto 
          di lui si legava in infiniti e controversi modi al suo oscuro concepimento 
          avvenuto al culmine di un rito dionisiaco. L’akh, il 
          veicolo, la possibilità legata alla sua stessa luce che ora vedeva 
          espressa pienamente dalla variabile del sole, durante l’adorazione 
          del dio Ra lungo tutto il ciclo circadiano, come metafora del movimento 
          ciclico della sua stessa esistenza quotidiana. Come non collegare l’akh 
          ai Misteri eleusini che ogni anno rappresentavano la possibilità 
          di quel transito, con la simulazione del ratto di una fanciulla, che 
          ne simboleggia la morte, per propiziare nell’iniziato, l’apertura 
          dell’occhio, l’illuminazione che gli consenta come a Persefone, 
          un trapasso che non voglia dire, la cessazione della propria esistenza. 
          E come non sentire, Orfeo, nel corpo la propria identificazione totale 
          con Ka, come la forza celeste che gli manteneva vivo lo spirito di sua 
          madre senza che nulla potesse mutargli di colore, quel suo sguardo sulle 
          cose ma anzi tutte le cose venissero illuminate, di quella venatura 
          sublime che gli faceva vivere nell’intimo l’orrore e la 
          meraviglia con la stessa intensità amorosa. Ed infine il ba che 
          intuiva essere l’oggetto che lo stava legando indissolubilmente 
          alla morte come cardine doloroso di una ricerca che forse sarebbe culminata 
          col suo mantenimento, il mantenimento del ba, in una forma 
          eterna che avrebbe prescisso la sua stessa morte.
 L’esperienza egiziana di Orfeo doveva aver avuto materialmente 
          inizio dall’accettazione da parte dei sacerdoti del tempio, di 
          Orfeo come osservatore del culto. Essi dovevano aver apprezzato il grado 
          di profonda suggestione con cui quel giovane si avvicinava al cuore 
          della teologia egiziana. Dovevano aver ascoltato come Orfeo rielaborava 
          in quesiti dotti la sua ricerca personale. Orfeo doveva aver detto loro 
          di come il simulacro terreno di Osiride, Horo, il faraone con le sue 
          vicende spirituali, gli faceva nascere nell’intimo la certezza 
          di un affinità sconvolgente tra divinità ed essere umano; 
          tra sé stesso e Dioniso; affinità continuamente suggeritagli 
          dalla propria vicenda iniziatica; vicenda di cui ancora doveva chiarirsi 
          il significato ma che intimamente sapeva riguardare il suo carisma poetico. 
          Osiride, fratello e sposo di Iside fu smembrato da Seth, come Dioniso. 
          Per Plutarco e per Erodoto (11) Dioniso e Osiride coincidono con la 
          stessa divinità. Successivamente, la dolentissima Iside ne raccolse 
          pietosamente i brandelli per ricomporne il simulacro nel regno dei morti 
          e lì, nell’al di là, da quel simulacro, concepì 
          Horo, concepimento tanto potente da soppiantare Seth, ottenendo così 
          il trono che gli spettava di diritto in quanto figlio di Osiride. Sulla 
          prerogativa dello sdoppiamento quindi si fonda il diritto dinastico 
          del faraone che vede il re defunto divenire Osiride e regnare sull’al 
          di là, mentre il re vivente divenire una sorta di alter ego terreno 
          del dio, assumendo il nome di Horo (12). Non è difficile credere 
          che Orfeo guardò a queste vicende con lo stesso animo con cui 
          guardò il volto dionisiaco di quella sua prima notte iniziatica: 
          identificandosi forse come Horo, il rappresentante terreno di Osiride-Dioniso, 
          dio che da un'altra sfera, comunichi agli uomini, attraverso lui, Orfeo, 
          suo pontefice. Quella notte della sua iniziazione aveva inteso essere 
          questa, l’intenzione di Dioniso che si faceva ora realtà, 
          realtà quotidiana, senza che la sua volontà gli potesse 
          ispirare altro, senza che la sua intenzione personale avesse minimamente 
          importanza nella successione di quanto apprese essere il suo destino.
 Questo lo intendeva precisamente e fuori da ogni dubbio soltanto osservando. 
          Ammesso dalla casta sacerdotale ai locali del tempio che ospitavano 
          il dio, guardava allo svolgimento del culto di Ra, dio sole, che si 
          basava sulla coltivazione quotidiana del legame tra l’officiante 
          e il dio. I sacerdoti avevano il compito di accompagnare il risveglio 
          del sole che consentisse ogni giorno, l’unione alla base del divenire, 
          quella del sole con l’elemento liquido, il Nun, l’acqua 
          del Nilo, i cui periodici straripamenti consentivano la fertilità, 
          ma anche il caos che indistintamente contiene il germe della vita. Il 
          Nun che attende quotidianamente il sole per essere ingravidato, è 
          pure tutto ciò che sta al margine del visibile, come minacciando 
          perennemente gli uomini di poter, da un momento all’altro, riappropriarsi 
          delle forme da loro faticosamente date, per distruggerle e fagocitarle 
          ancora ed ancora nel potenziale magmatico del caos. I sacerdoti prima 
          dell’alba aprivano la cella che ospitava il simulacro del dio, 
          cantando l’inno del mattino, sfioravano il volto del dio, per 
          rendergli il suo ba, per consentire all’uccello di tornare al 
          dio dopo il sonno mortifero della notte, restituendogli la potenza che 
          lo palesa: la luce; infine contemplavano il volto del dio, con ardente 
          fissità, e il sole lentamente sorgeva, come se la potenza di 
          quel legame consentisse attraverso il risplendere del dio tanto alla 
          terra quanto alla donna, sublime rappresentante del caos, di generare. 
          Apprese in questo modo Orfeo, il valore della contemplazione, dell’atto 
          in cui la visione assume la neutralità che consente l’unico 
          accesso verace alle cose. Capì perché il sommo sacerdote 
          che presiedeva tutti i riti veniva chiamato il “massimo dei vedenti”; 
          perché grazie al suo legame con Ra era colui tra gli uomini cui 
          fosse più di tutti consentito il vedere. Ma perché la 
          visione fosse concessa, il sacerdote, diverso dall’uomo comune 
          per via della sua vita dedicata, avrebbe dovuto, attraverso la pratica 
          del culto, purificarsi dagli aspetti terreni della sua visione. Tutti 
          i riti avevano questo scopo e si svolgevano nell’ambito di cerimonie 
          religiose che avevano precise cadenze temporali. E anche in ambito egiziano 
          la cerimonia consisteva nella ripetizione delle vicende mitiche del 
          dio e spesso culminava con un sacrificio. Ma qui Orfeo fu colpito da 
          un altro aspetto che fu determinante per la sua personale rielaborazione 
          teologica. Fu colpito dalla sostituzione che i sacerdoti sovente operavano 
          tra animale votato al sacrificio e suo simulacro, rendendo così 
          al rito l’aspetto incruento che incrementava la componente spirituale 
          di quella pratica, a scapito degli spargimenti di sangue che altrimenti 
          avevano sconvolto l’animo del poeta, quando vi aveva assistito 
          nella sua terra d’origine.
 Ora per Orfeo si trattava di contemplare quanto più prossimamente 
          ciò che attraverso l’orrore, Dioniso gli aveva deposto 
          nell’anima, e che gli tornava alla memoria sotto l’aspetto 
          brutale da cui sembrava decollare l’afflato religioso delle baccanti. 
          Capiva le due componenti opposte che la disgregazione del bambino-Zagreo 
          chiamava a considerare. La componente titanica, malvagità della 
          baccante che infierisce sul torello, malvagità del gigante che 
          uccide il bambino, e il bambino, l’inerme che può sopravvivere 
          allo strazio. Doveva contemplare tutto questo come se le ceneri di Titani 
          e innocenti fossero pur sempre la stessa cenere che assicura fertilità 
          alla terra, al Nun, al margine che fagocita ed espelle continuità. 
          Come il massimo dei vedenti, il sacerdote, vede il massimo che ciò 
          esprime, e questo lo avvicina più degli altri alla divinità, 
          a patto che la sua vita sia interamente dedicata alla purificazione 
          che questa vista spirituale incrementi in chiarezza e per gradi: i gradi 
          dell’iniziazione misterica che Orfeo finalmente comprende necessitare 
          di una regola e di un sacerdozio che ne scandisca le fasi. Che consente 
          alla maggior visone di volta in volta, il sostegno di un corpo capace 
          di ospitarne l’intensità.
 
 Euridice, il ritorno
 Volute di silenzio; quell’acido che tu depositi 
          sulla mia salute, la sporcizia che bolle nella mia anima.
 Ricorda. È questo il prezzo della pace.
 (Antonio Gamoneda)
 Chi fosse Euridice prima dell’incontro con Orfeo 
          non è dato sapere; quando Orfeo la perse, perché uccisa 
          dal morso di un serpente, era in compagnia di una schiera di Nàiadi 
          (13) e questo lascia supporre che ella stessa fosse una ninfa o che 
          fosse semplicemente una vergine che dalle ninfe fosse stata eletta loro 
          pari, grazie alle sue qualità che facevano pensare anche Euridice 
          come Orfeo, esseri di un umanità trascendente. Sin dal principio 
          s’immagina che i due s’intuirono accomunati nell’intimo 
          dalla poesia, perché nessuno s’innamora di un poeta a prescindere 
          dall’ispirazione che gli spira fin nella mimesi del gesto; e piace 
          credere che anche Euridice fosse poetessa nel più sublime e meno 
          diffuso dei modi, senza dichiararlo e senza scrittura che certificasse 
          ad alcuno, la poesia essere altrimenti che la sua stessa persona. Ella 
          capì al primo sguardo che nulla l’uno dell’altro 
          avrebbe mai costituito un limite nella conoscenza reciproca, capì 
          molto prima di morire, che nemmeno la morte avrebbe costituito quel 
          limite. Capì che il presagio rappresentato dal volto di Imeneo 
          (14), per niente lieto difensore del loro talamo, non doveva generare 
          paura rispetto a ciò che sarebbe accaduto; la paura che tutto 
          uccide dello spirito prima e meglio della morte del corpo. Dal principio 
          fu chiaro che Euridice fosse per Orfeo l’unica amica del silenzio 
          che gli manteneva sempre accesa l’attenzione, l’unica coinquilina 
          di quel sentire appartato che Orfeo considerava essere il suo corpo, 
          ora casa di entrambi, oltre che del suo dio. Euridice è una donna. È un essere preposto non solo al 
          concepimento ma al parto dell’alterità. Al parto dell’inconoscibile. 
          E il figlio che potrebbe aspettare un giorno da Orfeo, rappresenta l’attesa 
          di quanto le appartiene intimamente e non sa, non può sapere 
          cosa sia. Euridice è la pazienza profonda che concilia la risposta 
          del tempo, senza brama di sapere. Un essere pronto a generare, nel vero 
          senso della parola, un prodotto umano che la prescinda totalmente, che 
          le preesiste, che potrebbe non somigliarle affatto pur appartenendole, 
          che venga dalla bruma al margine, fino al suo presente terreno, come 
          qualcosa di compiuto malgrado la sua volontà, malgrado lei che 
          più non importa, dopo averlo generato, se muoia. Euridice è 
          l’apertura nel quotidiano, sulla marginalità del caos. 
          È la porta su l’al di là che Orfeo sta cercando 
          dal principio per darsi ragione dell’immortalità della 
          sua anima. È la donna senza paura che incarna la sublimazione 
          del femminile nel proprio stesso ruolo. Euridice è “La 
          donna angelicata dei poeti, strumento di comunicazione col mondo ultraterreno, 
          guida dell’uomo verso l’al di là che il maschio non 
          conosce e che teme” (15). Euridice muore perché non può 
          far altro. La morte di Euridice è l’ultima indicazione 
          che Dioniso ancora deve ad Orfeo perché gli sia chiaro, malgrado 
          l’elaborazione di necessarie teologie, di “non: dominare 
          il tempo attraverso le religioni, dunque, perché queste si servono 
          del tempo per dare delle certezze, per offrire risposte, ma dominare 
          il tempo usando il tempo, per porre domande alle quali, non si aspettano, 
          non si accettano risposte” (16). Questo è l’ultimo 
          atto di onerosa fede richiesto da Dioniso ad Orfeo. Non accettare risposta 
          da nulla quando la morte non è più teorica, quando la 
          morte diventa quotidiana assenza dell’unico essere umano che conti, 
          non formulare domanda di fronte al corpo esanime, domanda che inevitabilmente 
          senza risposta, riduca la fede allo stesso silenzio; domanda che il 
          tempo condanni per sempre a un muto non senso, quale soltanto sembra, 
          nel lutto, il suo scorre. E questo era l’unico atto di fede che 
          Orfeo davvero non poteva accordare a Dioniso.
 Al suo ritorno Orfeo divenne il pontefice che il noviziato egiziano 
          aveva formato per sedare le attese della tumultuosa Tracia. Il tempio 
          di Zeus, sul monte Kaukaion (17), divenne il luogo sacro in cui Ofero 
          venne riconosciuto come il massimo dei vedenti, sommo sacerdote di tutta 
          la Tracia. Tuttavia Orfeo, non scelse di rifuggiarsi nella vita contemplativa, 
          non scelse di riparare nella preparazione dei novizi, nell’istruzione 
          al sacerdozio dei nuovi preti di Dioniso, la sua esistenza di uomo. 
          Scendeva spesso nelle valli ancora sacre ad Ecate, in cui le invisibili 
          baccanti, costituivano un rischio per tutti, anche per lui. Aveva appreso 
          infatti che esisteva, nei luoghi della sua infanzia, una creatura pericolosa 
          che si era messa a capo delle baccanti. Una donna che molti indicavano 
          come una maga tessala di nome, Aglaonice (18) e che altri temevano addirittura 
          di nominare, come una divinità tra le più efferate, che 
          si temono fin dalla pronuncia del nome. Sembrava che nel periodo in 
          cui Orfeo si fosse recato in Egitto, Aglaonice avesse ristabilito tra 
          le baccanti il culto di Ecate e che avesse plagiato con la sua malia, 
          i re dei territori sulle sponde dell’Ebro, convincendoli a soppiantare 
          il culto solare degli dèi venerati sugli altipiani, in favore 
          di Ecate. Era anche questo che aveva spinto i sacerdoti dei templi tutti 
          ad eleggere Orfeo e la sua dottrina come somma, intuendo nei contenuti 
          della medesima e nella personalità del sacerdote-teologo, quell’elemento 
          mediano che avrebbe consentito una possibilità di governo su 
          tutte le antitesi che animavano e corrompevano la Tracia. Fu in una 
          delle sue discese solitarie in quelle valli, in cui sentiva ancora la 
          memoria di sua madre animargli il passo del giusto coraggio, che Orfeo 
          vide due donne, assolutamente tra loro diverse. La cosa che spiccava 
          era la stranezza dell’idillio tra le due, immerse nel più 
          terribile e pericoloso contesto si potesse immaginare in quel tempo. 
          Intorno frusciavano altre presenze che Orfeo fiutò come quelle 
          di baccanti ancora non manifeste, ma che paravano, in branco, l’agguato. 
          Di colpo, la donna più alta, più brutta, più vecchia, 
          la donna ossuta e ieratica che si stava già chinando sul volto 
          della compagna, alzò seccamente una mano. Come se la presenza 
          delle baccanti improvvisamente s’annullasse, più nulla 
          frusciò intorno alle due. Fu quindi nel massimo silenzio scaturito 
          dall’attesa di un accadimento fatale, che Orfeo si palesò 
          alle due, certo, che quello che si stava per compiere fosse un omicidio 
          e non, di contro l’apparenza, un convegno saffico. Non furono 
          necessarie parole. Aglaonice sapeva chi fosse quell’uomo, l’unico 
          in grado di farla recedere momentaneamente dalla sua orribile intenzione 
          di impadronirsi della grazia di Euridice. Semplicemente si fece indietro, 
          ridendo come una promessa di prossima visita e sparì subitaneamente 
          tra gli alberi. Così si narra che s’incontrarono Orfeo 
          ed Euridice, così si accorse Orfeo di quella creatura di cui, 
          altrimenti la modestia forse, non sarebbe spiccata, tra le tante donne 
          che lo cercavano per motivi diversi. La conobbe perché Aglaonice 
          l’amava anch’ella del suo amore distruttivo, allo stesso 
          modo in cui comunque l’amò Orfeo; in un modo che condusse 
          Euridice, parimenti alla morte.
 Anche in questo caso il destino si compì attraverso un emissario 
          che potesse ritenersi colpevole. Aglaonice mandò un serpente 
          a mordere la caviglia di Euridice. Ad arrestare la sua avanzata terrena, 
          mentre tra i prati Euridice, restituita alla sua grazia dall’amore 
          di Orfeo, giocava con le sue giuste compagne. Fu così che la 
          morte irruppe nel suo significato materiale nella vita di Orfeo, che 
          fin dalla perdita della madre, troppo prematura per essere davvero ricordata, 
          intorno vi aveva eretto poderosi studi ancora incapaci di poesia. Tuttavia 
          non gli apparve in quel giorno terribile la poesia dell’accaduto. 
          Quel giorno che qualcuno lo cercò, carico della frenesia del 
          messaggera di orribile nuova, la morte, gli apparve solo come un conato 
          che gli scosse il corpo convulsamente, qualcosa che il corpo rigetta 
          senza possibilità di espulsione. Non è vero che Orfeo 
          cercò sua moglie da per tutto. Sapeva bene nel quotidiano il 
          confine tra la vita e la morte, invalicabile, per chi non fosse un dio. 
          Rilke (19) ritenne che Orfeo si avvalse di Ermes, tanto era inaccettabile 
          la perdita di sua moglie, tanto non attese tempo che gli intessesse 
          un significato plausibile, tanto la domanda senza riposta che la sua 
          umanità non accettava di tacere, infine gli conclamò definitiva, 
          insanabile, disperazione. Ermes il negromante, l’alchimista, il 
          sagace. Ricorse ad Ermes perché “Quando Ermes cantava sulla 
          cetra, suscitava nel suo pubblico una suggestione senza fine: la seduzione 
          della magia, il desiderio erotico, il potere di curare e di mitigare 
          gli animi e i corpi, la forza di dimenticare, la calma, la quiete, il 
          piacere insinuante dei suoni melodiosi, il profondissimo sortilegio 
          del sonno (…)” (20). Forse avvicinò la farmacia di 
          Ermes, per lenire l’impossibilità di canto, di sacerdozio, 
          di vita. Forse Ermes gli donò soltanto in sogno la possibilità 
          di recuperare Euridice, di rinnovare attraverso la cura del sogno, le 
          sue prerogative che troppo dolorosamente tacevano, annullandogli ogni 
          possibilità di vivere. In sogno forse, gli si presentò 
          il panorama spettrale che doveva contenere tutto ciò che tace: 
          morti e quello che tace come morto, ma che può riaversi. Infatti 
          fu qui che la voce di Orfeo si riebbe, muovendo finalmente in canto 
          al dio dei morti, la domanda che Dioniso pretendeva non fosse posta 
          ad altri che al tempo. “Si narra che allora per la prima volta 
          s’inumidirono di lacrime le guance delle Furie, commosse dal canto. 
          E né la consorte del re, né il re stesso degli abissi, 
          ebbero cuore di opporre un rifiuto a quella preghiera” (21). Gliel’avrebbero 
          ridata, se, come si sa, lui avesse trovato la forza sovrumana di non 
          voltarsi, per accertarsi di essere seguito da lei. Come si sa quella 
          forza gli mancò, come a volte manca la fede. Perché Euridice 
          accompagnata da Ermes lo stava davvero seguendo, ancora avvolta dalle 
          bende funebri e claudicante per il morso. Lo seguiva non viva ma “chiusa 
          in sé come un grembo che prepari una nascita, senza un pensiero 
          all’uomo innanzi a lei, né alla via che alla vita risaliva” 
          (22). Orfeo si risvegliò dal quel sonno alchemico, che l’aveva 
          persa per la seconda volta, che aveva perso per sempre il sacerdozio 
          a cui Dioniso l’aveva consacrato ma aveva trovato il suo canto; 
          “Quel canto che rese la morte, che mai è stata un’estranea, 
          nuovamente conoscibile e tangibile nella sua qualità di tacita 
          complice di ogni cosa viva”(23).
 Dioniso non lo perdonò di aver rinunciato al suo pontificato 
          per essere poeta, per essere uomo. Né i sacerdoti potevano accettare 
          che Orfeo si ritirasse nel canto, proprio ora che i re traci, istigati 
          da Aglaonice al culto di Ecate, paravano un vero esercito per l’assalto 
          definitivo ai templi degli altipiani. Lo convocarono, puntando il dito 
          contro la sua assenza al culto, alla realtà, a cui il suo dolore 
          l’aveva sottratto. Che Orfeo non immaginasse l’ira di Dioniso, 
          né che non gli importasse dell’ingiunzione alla sua responsabilità 
          verso i sacerdoti che l’avevano scelto come capo, non è 
          plausibile. È plausibile che nulla gli importasse più 
          del suo corpo, è plausibile che si scelse per il sacrificio dionisiaco 
          dello smembramento come ultima vittima sacrificale per placare Dioniso 
          e ingiungergli protezione per la Tracia, per i traci che si trovavano 
          in balia della strega che anche a lui aveva tolto ogni bene. Non c’erano 
          da radunare eserciti, disse ai sacerdoti all’oscuro dei suoi propositi, 
          sarebbe andato egli stesso a parlare coi re rivoltosi e se necessario 
          con Aglaonice. Avrebbe loro spiegato la sua dottrina, avrebbe forse 
          in quell’occasione trovato la forza, per nuovamente crederci. 
          Che non temessero, la sua eloquenza malgrado tutto, non gli faceva ancora 
          difetto. Scese di notte a valle, perché al culmine di riti che 
          ben conosceva, li avrebbe trovati tutti. Discendendo nel bosco senza 
          luna capì che le baccanti l’attendevano, che già 
          l’avevano fiutato, avvertite da Dioniso, ma non così doveva 
          morire Orfeo. Gli consentirono di arrivare agli accampamenti sull’Ebro, 
          gli consentirono di chiamare a convegno tutti i re e gli uomini pronti 
          a muovere guerra e le baccanti, loro amanti rituali. Quella torma di 
          gente imbestialita gli consentì intorno il silenzio. Quello fu 
          il segno che Dioniso ancora l’amava e ancora l’avrebbe amato 
          perché Orfeo stava consentendo al suo proprio destino di compiersi, 
          così come aveva acconsentito al proprio destino Dioniso, tutte 
          le volte che era morto. Dioniso capì che Orfeo solo del destino 
          dell’amata non poteva consentire il compimento fatale. Come Dioniso 
          stesso non acconsentì mai al destino di morte di sua madre; madre 
          che a Dioniso fu comunque restituita a differenza che ad Orfeo, e per 
          la cui morte, nonostante questo, Dioniso cercò vendetta e non 
          poesia, come il suo diletto. Che ora cantava e ammansiva anche quella 
          gente facinorosa, anche le baccanti che sembravano finalmente donne 
          sedute all’ascolto e non più bestie. Cantava di Euridice 
          che avrebbe presto raggiunto, cantava dell’orrore che gliel’aveva 
          strappata con una mansuetudine struggente, la raggiunta mansuetudine 
          della bestia umana che insegna finalmente l’estasi poter essere 
          cosa dello spirito. A quel canto si convertirono le baccanti, si convertirono 
          i re ma non si convertì Aglaonice, che doveva come Giuda (24) 
          consentire l’omicidio, per amore del suo dio più che di 
          se stessa, ordendo il rito dimostrativo del sacrificio. Rito che potesse 
          essere tanto emblematicamente ingiusto, come ogni morte lo è 
          all’occhio umano; tanto ingiusto da rendere il fatto indelebile 
          nella memoria dei presenti e la fede nell’essere di contro giusto, 
          l’agnello sacrificale, indiscutibile per posteri. Così 
          compì ella da sola tra il pubblico esterrefatto lo smembramento 
          rituale di Orfeo. Con che animo non si sa. Con quale mano neppure: se 
          con mano prestata all’odio per colui che Euridice scelse anziché 
          lei o se prestata dallo stesso Dioniso che tremante compì sul 
          proprio pupillo lo smembramento rituale che tuttora è condannato 
          a infliggere a coloro che sopra agli altri preferisce.
 Cantare il gergo  Chi infatti parla con il dono delle lingue, 
          non parla agli uomini,ma a Dio, giacché nessuno comprende,
 mentre egli dice per ispirazione cose misteriose.
 (1 Cor, 14,2)
 Parlare in-glossa, significa cioè far l’esperienza 
          in sé stessi, di una parola barbara, che non si sa; esperienza di un parlare 
          “infantile”
 (…) in cui l’intelletto resta “senza frutto”.
 (Giorgio Agaben) (25)
 “La narrazione di Orfeo è necessariamente 
          apparenza, ma la sua sapienzialità consiste appunto nel fatto 
          di definirsi come espressione dell’indicibile, del divino, del 
          mistero. È racconto sapienziale perché istituisce un legame 
          tra l’estasi misterica e le parole: che sono parole folli, oscure, 
          infinitamente azzardate, e conservano il contenuto divino nella loro 
          natura inevitabilmente umana” (26). La maturazione in canto della 
          sua esperienza umana sancisce il legame tra l’estasi misterica 
          e la parola che finalmente rende la poesia di Orfeo l’espressione 
          della medianità della natura innata del poeta, la possibilità 
          di gemellaggio del sé col suo doppio diseguale; parola che finalmente 
          renda l’espressione degli opposti che nel quotidiano si sovrappongono 
          come fenomeni apparentemente inconciliabili ma che il poeta vive su 
          di sé con la facoltà di captarne le polarità senza 
          spavento. Polarità per niente sfumate che gli si esprimono per 
          prima cosa dalla nascita, nel corpo. È uno strano suono, un suono 
          straniero, questa alchimia di captazioni ibride che la divinità 
          presta all’uomo come possibile legame tra la propria condizione 
          umana e la sua provenienza inconoscibile, ed è un accenno che 
          deve essere inteso subitaneamente e senza incertezze, così come 
          dall’uomo viene pretesa la fede, senza che ne sia concessa alcuna 
          prova. E’ di questo gemellaggio di cui sente una nostalgia inspiegabile 
          che Orfeo non può scientemente studiare la conciliazione ma deve 
          rendere il suo corpo, cioè il suo esistere umano, come Tobia 
          capace di questa conciliazione estemporanea e deve farlo con la fede 
          necessaria a credere che davvero questa si possa realizzare stabilmente 
          anche se senza preavviso. Per, forse, alla fine trovare sé stesso 
          nel senso plurimo del quotidiano come fenomeno dell’oscura coralità 
          dei gerghi, più che del proprio intelletto. Questo, Orfeo, tenta 
          da uomo mediante l’ascolto. L’ascolto del suo nome come 
          prima cosa, la pronuncia di sé stesso in gergo, nel suo gergo 
          e non nella lingua condivisa. La prima pronuncia del corpo che rimane 
          segreta perché così precoce e pregnante da non trovare 
          nel bimbo un corpo adatto a sostenerne le immagini, e così creando 
          l’assurdo pericolo che rimanga segreta per sempre anche al latore. 
          Segreta o sottesa in una vita che non ne concepisca neanche l’espressione 
          come possibilità. Ritrovare la memoria di quel nome è iniziare la grammatica del 
          proprio gergo, è iniziarsi all’auscultazione del gergo 
          del creato, ma di un creato soggettivo che passa per la coscienza del 
          poeta, che gli nasce dall’incapacità iniziale di appartenere 
          ad una coscienza collettiva, tanto è intenso il clamore che viene 
          ai suoi sensi come un assalto che all’inizio scoordina e che il 
          poeta dovrà imparare forse a rendere, mutuando un gergo che sappia 
          del ricordo di tutta l’antichità da cui proviene la sua 
          età nuova. Imparare a gemellare nel tempo presente la strana 
          e remota parola, col gergo che gli impongono le cose. Le cose tacciono, 
          non ci palesano la loro voce, come ci palesano la loro forma (27), è 
          in questo vuoto e non altrove che il poeta apprende la sua possibilità 
          di inaudita risonanza. È nel suo azzeramento, nel suo parificarsi 
          per inclusione, in tutto quello che lo circonda, che si ricrea nel corpo 
          quella dubbia, quella risibile pontificazione che per assurdo arriva 
          a verità che solo la poesia nei tempi ha dimostrato di sapere 
          approdare.
 Se la lingua è una maschera, maschera di una maschera è 
          la lingua straniera (28). Lo straniero, Dioniso, il dio, pone la maschera 
          sul volto di Orfeo. La pone sul volto del poeta perché Orfeo 
          è colui che in modo innato si pone in relazione con l’incomprensibilità 
          dello straniero a partire dal suo stesso gergo, all’esordio incomprensibile 
          a colui che ne è la fonte. Il poeta è colui che per pura 
          necessità di relazione cerca lo straniero; lo cerca per il bisogno 
          dato dal suo nascere e vivere in un corpo che è uno spazio limbico 
          e che invece di riprodurre per imitazione il mondo che lo circonda, 
          riproduce all’infinito la sospensione del tempo condiviso. Così 
          come Dioniso riproduce, al di là del tempo lineare, all’infinito 
          l’atto di smembrarsi, l’atto di smembrare fermando una realtà 
          che invece diviene, chiamandosene fuori. È per questo che all’inizio 
          Orfeo collude col dio, ne diventa pontefice pensando il suo isolamento 
          naturale, con lo studio della religione, passibile di trascendenza. 
          È per questo che da uomo coglie il suo limite invalicabile solo 
          davanti alla prova limite che è la morte, la morte peggiore, 
          quella dell’altro.
 Secondo Ovidio, Orfeo come fosse una divinità o come fosse un 
          uomo che lo divenne grazie ai suoi studi egiziani, non morì. 
          Ma la sua testa e la sua lira, gettate nella acque del fiume, continuarono 
          cantando la discesa lungo l’Ebro, fino a raggiungere il mare e 
          poi approdate all’isola di Lesbo, furono difese dall’intervento 
          di Febo, dalle fauci di un serpente, accorso per nutrirsene. Sempre 
          secondo Ovidio questo transito canoro fino a Lesbo, riuscì a 
          infiltrare l’ombra (29) di Orfeo sottoterra, fino a Euridice. 
          L’ombra filtrò la terra, grazie al potenziale cangiante 
          della luce, della vita che smorza la sua materia in altro. E forse proprio 
          l’ombra, il doppio diseguale di quella luce che Orfeo in Egitto 
          aveva appreso significasse il suo nome e valere come cura, finalmente 
          gli fu non estranea al buio, non estranea alla pace.
 
 
 Note
 (1) Kirkegaard S., La ripetizione, a cura di 
          Dario Borso, Rizzoli 1996, p. II. Tratto da Miglio C., Vita a fronte. 
          Saggio su Paul Celan, Quodlibet 2005.(2) Ferrari A., Dizionario di mitologia I, Istituto Geografico 
          De Agostini 2006.
 (3) Schuré, I grandi iniziati, Mondolibri 2005, p. 162-165.
 (4) Schuré, I grandi iniziati, Mondolibri 2005, p. 182.
 (5) Inno primigenio da cantare con profumo di mirra, cit. da 
          Zolla E., I mistici dell’occidente I, Adelphi 2003, p. 
          114.
 (6) Rilke R.M., Lettera a G. Ouckama Knoop, cit. Commento, 
          I Sonetti di Orfeo, Poesie 1907-1926, Einaudi 2000, p. 686.
 (7) Calasso R., Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi 1992, 
          p. 48.
 (8) Calasso R., Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi 1992, 
          p. 341-42.
 (9) I cenni relativi alla storia politico religiosa dell’Egitto 
          sono stati tratti da: Filoramo, Massenzio, Raveri, Scarpi, Manuale 
          di storia delle religioni, Mondolibri 2003, p. 39-66 e Grimal N., 
          Storia dell’antico Egitto, Edizioni CDE 1998, p. 50-56.
 (10) Schurè, I grandi iniziati, Edizione Mondolibri 
          2005, p. 166.
 (11) Plutarco, de Iside et Osiride, tratto da Filoramo, Massenzio, 
          Raveri, Scarpi, Manuale di storia delle religioni, Mondolibri 
          2003, p. 39-66 e Ferrari A., Dizionario di mitologia I, Istituto 
          Geografico De Agostini 2006.
 (12) Filoramo, Massenzio, Raveri, Scarpi, Manuale di storia delle 
          religioni, Mondolibri 2003, p. 39-66.
 (13) Ovidio, Metamorfosi, Einaudi 1994, p.387.
 (14) Ovidio, Metamorfosi, Einaudi 1994, p.387.
 (15) Magli I., Il mulino di Ofelia, Bur 2007, p. 52.
 (16) Magli I., Il mulino di Ofelia, Bur 2007, p. 54-55.
 (17) Schuré, I grandi iniziati, Mondolibri 2005, p. 
          181-86.
 (18) Schuré, I grandi iniziati, Mondolibri 2005, p. 
          181-86.
 (19) Rilke R.M., Poesie 1907-1926, Einaudi 2000, p. 109.
 (20) Citati P., La luce della notte, ed. CDE 1996, p. 36.
 (21) Ovidio, Metamorfosi, Einaudi 1994, p. 389.
 (22) Rilke R.M., Poesie 1907-1926, Einaudi 2000, p. 109.
 (23) Rilke R.M., Lettera a Caroline Schenk von Stauffenberg, 
          cit. Commento, I Sonetti di Orfeo, Poesie 1907-1926, Einaudi 
          2000, p. 685.
 (24) Lc 22,47-49.
 (25) Agaben G., Pascoli e il pensiero della voce, cit. Cortellessa 
          A., La fisica del senso, Fazi Editore 2006, p. XXXIII.
 (26) Rilke R.M., cit. Commento, I Sonetti di Orfeo, Poesie 1907-1926, 
          Einaudi 2000, p. 692.
 (27) Rilke R.M., cit. Commento, I Sonetti di Orfeo, Poesie 1907-1926, 
          Einaudi 2000, p. 695.
 (28) Giudici G., Il male dei creditori, cit. Cortellessa A., 
          La fisica del senso, Fazi Editore 2006.
 (29) Ovidio, Metamorfosi, Einaudi 1994, p. 429
 
 Viviana Scarinci 
          è nata nel 1973. “La Nascita del poeta” è 
          parte di un saggio tuttora in lavorazione. Il primo capitolo intitolato 
          Nascita 
          della Madre può essere letto sul sito web Liberinversi, 
          inoltre è presente la totalità delle sillogi Diaria 
          dell’Interezza e Teurgia Casalinga. Sul sito web 
          Nazione 
          Indiana  sono pubblicate Il Luogo Contrario dell’Osservanza 
          e L’Epica del Posto. Sue poesie sono uscite per «Nuovi 
          Argomenti», «Gradiva», «Atelier» ed «Il 
          Segnale».  Torna all'inizio Shemssi 
          e Segreto di Claudio 
          Pagelli Shemssi a Chiara “ciò ch’io adoro in te. è ilsegreto, è la vita”
 (Manuel Bandeira)
 “terra d’aprile”
 sei fatta d’aprile e di qualche
 cielo lontano e ridi come ride
 il vento fra gli aranci
 quando tutto è caldo come sabbia,
 quando tutto respira profumi
 di terra buona
 
 “bocche” nella tua boccavive segreta la mia parola,
 la domanda che importa – vela bianca sulla lingua –
 brucia lo stesso mare
 che ci succhia il fiato,
 e una stella ci scruta curiosa
 dai suoi occhi di sola luce
 ……………………………
 nella mia bocca
 scorre un fiume d’acqua buona,
 alfa e omega
 il mare bianco del tuo nome
 “l’angelo”
 colmi, lo sai, i miei abissi chehanno radici, precipizi nel magma
 inumano della terra.
 arrivi, lo so, da un cielo lontano a
 ripetere un canto di luce
 anche alle orecchie delle notti più sorde
 
 “come fiori” siamo fatti per essere muticome i fiori, a che serve, mi chiedi,
 la parola
 se un gesto già racchiude il mare,
 se svapora ogni segreto
 al sole buono di un abbraccio?
 è nei tuoi occhi il seme d’acqua
 che salva il sangue dal deserto,
 che riprende fiato
 la gola dell’universo
 “nei tuoi occhi” è nei tuoi occhi, non altroveche indovino ori di città perdute,
 terre riemerse chissà da quale mare…
 che s’apre il grande fiore di magnolia
 nel suo bianco senza indugi –
 è nei tuoi occhi, non altrove
 che scorre luce ancora calda di magma,
 che porta la visione
 del centro esatto delle cose, dove tutto ride
 in un guscio di sole
 “il pesce sognatore” le tue parole sono brine, brividiche mi salgono le carni,
 canti che salvano
 dal buio che divora.
 e tu, sorriso del mio cuore,
 del mio sangue
 che ha incontrato abissi e murene,
 sei lingua di luce
 nella mia grotta segreta
 dove guizza nell’acqua azzurra
 il pesce dagli occhi d’oro
 che sogna, lo sai, un solo sogno –
 i volti nudi, le sillabe del tuo nome
 “shemssi”
 se ti apro le labbraè per vederti fiorire
 nel segreto che celi.
 le dita sono draghi leggeri
 che ti leggono la pelle
 nel cammino del fuoco.
 questa vampata bianca
 è l’ultimo sorriso che ci rimane,
 fra le mani si sbraca
 la pesca del tuo amore –
 cola a fiotti l’acqua della tua polpa
 (è acqua sacra, mi lava la bocca)
 e tutto vibra e riluce
 nel canto dei tuoi occhi
 ebbri di menta e di miele
 Segreto  “e ubriacarmi dell’odore di legnanel profondo del bosco”
 (Fabio Pusterla)
 “il bosco”
 
 dove i fantasmi, i fuochi delle streghe
 e le loro case segrete? nere
 le pietre del sentiero non portano
 orme certe, solo magri consigli,
 mute tracce scavate negli artigli
 dei tronchi, fra i sassi sparsi dal caso
 o appena sotto la ruggine delle
 foglie assopite. si cerca, s’annusa
 l’aria buona, la resina che cola
 lentissima dai rami. gli occhi gialli
 della civetta ci scrutano dalla
 quercia, vigili al fruscìo dei passi,
 già la bruma sorveglia le nostre ombre,
 il sangue brontola nello stomaco
 la distanza del ritorno, il buio
 che divora, lo strappo del bavaglio…
 fra filari di ontano nero, ignaro
 un riccio sogna nuove primavere.
 “il gufo”
 affilare i sensicome lame di coltelli
 credimi è l’unica guerra santa
 contro la dittatura
 della nebbia…
 contare i passi,
 ricominciare dagli inciampi
 col sangue che ci sporca le mani.
 voltare pagina a pagina
 il grande libro del mistero
 con la pazienza di un gufo
 che attende fra i rami
 l’occhio della luna.
 “la volpe”
 dirti, dirtidovrei
 parole di foce
 parole d’acqua che consolino
 la visione.
 lasciar scorrere, passare oltre
 l’inciampo della polvere
 che strozza la gola delle vergini.
 dirti dovrei, lo so,
 dei segni segreti,
 dell’abitudine
 della luce
 a resuscitare specchi antichi.
 l’invenzione
 è mille volte più astuta
 di una volpe – fugge, si nasconde
 tra le foglie dei versi, sotto i sassi
 dai nomi illustri….
 e vuota ancora
 è la trappola
 nel bosco della parola.
 
 Claudio Pagelli 
           (foto di Mauro Montini Bellosio) nasce a Como nel 1975. Autore 
          de L'incerta 
          specie (LietoColle, 2005, prefazione di Manrico Murzi) e Le 
          visioni del trifoglio (Manni, 2007, prefazione di Fabiano Alborghetti). 
          Sue poesie compaiono in riviste ed antologie, premiato in vari concorsi 
          di interesse nazionale. Presidente dell'Associazione culturale Helianto, 
          vive e lavora a Rovello Porro, nel Comasco.
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 Variazioni di Enrica 
          Musio IL TRENO DELLA NUOVA VITA(27 gennaio 1945)
 Traghetto come tanti in questo strano treno,e mi porta solo verso un brutto campo di concentramento
 dove oggi combatto la mia battaglia
 per la nostra cara razza
 gli ebrei
 sibilano le ruote
 verso i fari bui dei binari
 le pallide ciminiere
 nessuno ferma questi vagoni carichi di
 bestie solo ratolanti
 donne e bambini
 e lamenti di storpi
 il treno della nuova vita.
 (a tutte le vittime dei campi di sterminio)  Poesia segnalata al concorso “ Borgo Ligure” 
          – La Spezia.Variazione poetica della poesia Train de vie del poeta Luca 
          Ariano.
 
 MI RACCONTI La memoria è una cucitrice tanto capricciosa,fa correre solo il suo ago qua e là
 non sappiamo mai cosa
 ne seguirà
 la vita non è mai in ordine alfabetico
 sono delle briciole e non sai come
 raccoglierle
 è un granello di sabbia
 ogni essere è un
 esistente irrepetibile
 agli accidenti delle sue intenzioni
 ai soli capricci del destino.
 (Poesia ispirata da poesia di Virginia Wolf, da una 
          poesia di Antonio Tabucchi, e da una poesia di Cavarero) LUCI LONTANE
 Innalzava le assurde parole,un orologio singhiozzava
 solo mare notte
 e luci lontane
 un dolore a muro
 tangibile
 stelle assenti.
 (Poesia vincitrice di un decimo posto al concorso “Verso 
          il futuro - Città di Avellino”)
 D’INTESTINO E DI FEGATO  Solo il rospo di fogna mi covava dentro al fianco,i nervi consumati
 portami la spugna
 e portami la geometria
 stipiti di porte
 bisturi
 liquame verde-nero
 le righe
 la colla delle gengive
 lo smalto
 il vuoto della zolla.
 (a mia sorella Ilaria operata per una occlusione 
          intestinale)  *** Le vie delle nuove case difronte a me studio,gli sguardi della gente
 la mia mancanza di fiato
 finestre sfuocate
 il pensiero della parola che non vedo
 le mie camminate nostrane
 le mie dimenticanze
 le mie orme
 il poco spazio
 che svela a te
 solo lo stomaco
 il cuore
 e poche mie dita.
 *** Quando solo tu non sei,una descrizione di una immagine
 una virgola
 ne diviene una mia lacrima
 sul foglio
 così poco fragile
 il colore sulla tela
 buia.
 (a paolo calissano, a elena ferretti) 
 
  Enrica 
          Musio è nata a Santarcangelo nel 1966. La sua prima pubblicazione, 
          la silloge “Sarà da poeti il futuro” è stata 
          inserita in Antologia 
          Pubblica (Fara 2005). Nel 2006 ha pubblicato con Fara Dediche 
          sillabiche.  Torna all'inizio Su Il gatto e la falena 
          di Maria Pina Ciancio
 (La Bottega della stampa, Potenza 2007)
 recensione di Vincenzo 
          D'Alessio  Alla mia gente / e ai miei luoghi / discreti e imperfetti 
          che profumano a sera di malva e rosmarino sono le parole in epigrafe 
          alla raccolta Il 
          gatto e la falena della lucana Maria 
          Pina Ciancio. Una raccolta poetica arricchita da perfetti disegni 
          del pittore Cosimo Budetta già noto per altri volumi pubblicati 
          con autori famosi – a noi piace ricordare La legge del 
          cortile in collaborazione con Gianni Rodari.Versi molto complessi, assordati da un silenzio che ruota vorticosamente 
          come una falena, invisibile ma persistente, che chiede comprensione, 
          dialogo intenso affidato più agli occhi che alla bocca.
 Ho trovato impervia la strada che conduce alla forza della costruzione 
          poetica, poiché il verso è contratto da una forza generatrice 
          di sé stesso tanto forte da sembrare d'inciampo: “Una notte 
          d'inchiostro /
 non basta a cambiare la vita” (p. 7); “Ho gli occhi freddi 
          / di parole riscritte / fino all'asrazione / dell'incomprensione” 
          (p. 52).
 Il titolo delle poesie, per la maggior parte, è 
          esso stesso parte della composizione. Gli ossimori, le pause, le ripetizioni 
          tematiche, formano uno spartito che “il gatto”, tanto amato 
          dai poeti, contende alla “falena” piccola, leggera ed estremamente 
          vivace, il solfeggio di un mutamento ancestrale della parola verso una 
          formulazione più ampia, più corposa, desiderosa di superare 
          “la notte”, “la sera”, “il buio”, 
          “il tramonto”, insomma tutto quello che oggi sembra comporre 
          il finito.C'è l'aspirazione all'infinito enunciato nella epigrafe apposta 
          alla raccolta e ripetuta in questi versi: “Portatemi via tutto 
          / (i sogni, l'anima, la felicità) / ma lasciatemi in segreto 
          / la parola per ricominciare” (p. 26).
 Oggi tutto quanto appartiene alla poetessa Ciancio è 
          “discreto”, saporoso come la malva e il rosmarino, piante 
          dai forti sapori ed umori, tracce di un Mediterraneo che va scomparendo 
          verso una sera che nessuno di noi, meridionale, vorrebbe si realizzasse. 
          Ma le forze in campo non sono solo quelle della poesia. Vorrei accostare questa poetica a quella di altre poetesse contemporanee 
          ma l'originalità che persegue non mi consente facili accostamenti. 
          Credo nell'originalità di questa ricerca del versificare avvicinandola 
          a quella di poeti nazionali che hanno avviluppato le loro radici nel 
          meridione: Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Teresa Armenti, Emilia 
          Dente.
 So che la critica ad una raccolta tanto significativa, come è 
          un'opera prima, è veramente difficoltosa. Vorrei augurarmi di 
          essere tra quelli che hanno fatto levare quel vento dolce del sud e 
          fanno dire alla nostra autrice: “(…) Quando inciampo / all'ombra 
          del mio cappello / e non so dirvi più chi sono // sono sempre 
          io” (p. 59).
 
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 Erba mobile di Johan Pesaresi erba mobileke lenta rotola
 spinta dal vento dell'esistenza:
 questo siamo
 *** meglio avere un sasso nel petto piuttosto ke un cuore 
          senza appigli *** nn sono un poeta né uno scrittoresn solo triste
 conduco un'esistenza votata al grigio
 vuota mescola d'emozioni
 inutile farsa d vita
 sperando ke qualcuno ricordi con dolore
 la mia esistenza
 nn rendendomi conto
 nella normale ottusità dei viventi
 d quanto sia decadente la situazione
 nn rendendomi conto
 della forza ke realmente si può dimostrare
 quando si cancella la tristezza
 quando si ha qualcosa x cui lottare
 quando si ha qualcuno da proteggere
 nn ideali
 niente d'assurdamente astruso
 niente d grigio
 ma luce o tenebre da portare…
 qualcosa d'arrogarsi
 senza capire
 ke quel momento d'egoismo
 è forse
 l'unico vero atto d'altruismo
 senza capire
 ke la verità ke tanto cerchiamo
 è l'unica cosa ke ripudiamo
 solo x egoismo
 solo x debolezza
 nn possiamo cambiare il mondo
 nn possiamo osare le stelle
 nn fa x noi…
 x un semplice fatto materiale
 x un semplice fatto d'idea
 siamo solo puntolini nell'universo d vite ke c attorniano
 ma un fuoco arde
 nei recessi del nostro cuore
 obbligandoci a marciare contro gli orrori
 ke c attendono alle fine del viaggio…
 orrori ke il più delle volte siamo noi a creare
 orrori ke il più delle volte
 attribuiamo ad altri…
 perdendo via via
 il discernimento d noi stessi
 diventando via via
 grigi e vacui
 senza più nulla e nessuno in cui credere
 senza più nulla e nessuno x cui combattere
 in attesa
 dell'inevitabile morte
 credendo sia una liberazione
 sperando porti giustizia
 solo per il fatto ke nessuno è mai riuscito ad ammansire quel 
          fuoco
 solo per il fatto ke x evitare d bruciare gli altri
 hai bruciato te stesso
 quell'amore
 quel dolore
 quelle idee
 quel fuoco
 nn è grigio
 nn è vuoto
 fa paura
 spesso t aliena dagli altri
 spesso t fa scontrare con gli altri
 spesso t esclude dagli altri
 donandoti una solitudine
 ke nn desideravi
 ke odi
 ma tuttavia…
 nonostante s arrivi ad estraniare sé stessi dagli altri
 e persino
 ad estraniare sé stessi dalla propria vita
 lui nn smette d bruciare
 torna sotto forma d ricordi e sensazioni
 e mai t abbandona
 unico appiglio
 d una vita senza apparente motivo d'essere
 fiamma temuta
 l'anima…
 
 ***
 esistenze simili al nulla, noi siamo.privi di sensi con cui effettivamente discernere.
 nuove albe si levano
 nuove speranze muoiono.
 ciò ke ritenevi possibile si sbriciola
 certezze in cui confidavi seguono la stessa via.
 le cose ritenute importanti acquistano nuovi aspetti
 e ne perdono altri ritenuti fondamentali in passato...
 :)
 reazioni molteplici
 possibilità molteplici
 tutto ciò diventa futile
 tutto ciò diventa etereo.
 azioni ke si comprendono ma nn si attuano
 x stupidità
 x orgoglio
 praticamente sempre x un solo motivo…
 continuando ad arrancare
 qualcosa ke nn si comprende e a volte ripugna
 continuando a lottare.
 qualcosa ke quotidianamente sferza l'anima
 riducendo sogni a speranze vacue
 riducendo speranze a ricordi
 nullificando col tempo
 cose e sentimenti.
 portando l'essere sull'orlo dell'alterazione.
 assurda sensazione d frustrante vuoto
 ...
 affanculo platone e il suo mito delle metà!
 esse nn tengono conto d interazioni e d alcuni dei sentimenti trascendentali 
          senza nome d cui è composto l'amore
 o forse nn lo comprendo appieno… :)
 tuttavia
 mi limito ad esistere.
 e nn mi basta più…
 *** vuotopaura
 … la paura lo condurrà al lato oscuro.
 yang.
 altro nn si sa.
 la luce acceca?
 se no xké le si volgono le spalle?
 x scrutare l'oscurità?
 xké essa attira a sé la gente con la sua malia.
 o è la luce a spingerci verso essa?
 nel buio la vista si abitua e più nn si guarda la luce
 xké il suo bagliore sarebbe ancor più insopportabile.
 vuoto.
 in entrambi i casi si è ciechi
 cambia l'atmosfera.
 e le sensazioni si acuiscono.
 luce o oscurità?
 da lontano la differenza è ovvia.
 ciechi sordi a volte muti
 uomini.
 effimere esistenze inconsapevoli.
 paura…
 alcuno guida..
 smarrirsi nella vacuità..
 nessuno capisce..
 nascondino..
 null'altro è..
 abiti di suoni..
 aureole al neon..
 uno specchio?
 convinzione..
 yin o yang?
 dove mi trovo?
 dove sto andando?
 scontato.
 controllo?
 conoscenza?
 convinzione!?
 frustrazione.
 azioni volte al nulla..
 sempre torna..
 nn c'e dove andare
 nulla da fare restando.
 convinzione?
 vuoto.
 paura.
 motivazione.
 pavido inutile.
 sul buio crepaccio le convinzioni.
 nulla a sostenerle.
 continuano a cadere come le anime nell'ade.
 xké?
 scontato.
 cosa spinge?
 nulla forse.
 o tutto
 distinzioni.
 luce ombra o oscurita?
 tutto svanirà.
 marciare sempre dritto senza esitare mai.
 dove si marcia?
 leghe
 miglia
 ruote
 chilometri
 parsec
 eoni.. percorsi..
 l'ambiente muta..
 l'animo no..
 giustizia..
 giustizia?
 bene e male
 xké?
 scontato?
 forse no..
 sensazioni.
 vuoto risucchio..
 vento..
 foglie al vento volano..
 dove cadranno?
 alberi al vento
 percossi
 le lasciano cadere..
 lacrime..
 apatia..
 la terra resiste e continua a nutrire
 nulla xò puo evitare la loro caduta..
 destino?
 foglie alberi frutti..
 cosa?
 carne?
 pesce?
 come?
 xké?
 cognizione.
 alberi abbattuti
 frutti, lasciati muffire.
 semi sui sassi.
 spreco?
 destino?
 probabilità e caos..
 interessamento e repulsione..
 indifferenza..
 nn c'è paura nell'indifferenza..
 abiti di suoni
 aureole al neon..
 nn c'è paura nell'indifferenza??
 nn c'è vuoto nell'indifferenza..
 anke se fosse nn m'interessa..
 nn c'è vuoto nell'indifferenza?
 menzogne allo specchio.
 pavido inutile..
 rifrazione…
 convinzione d giustizia
 convinzione d luce
 azioni..
 l'animo corre lontano..
 quando t accorgi ke si muove
 esso è già all'orizzonte
 guarda avanti..
 e sorride..
 ma nn a te..
 nn d gioia..
 cinismo
 frustrazione
 migliaia di azioni motivate
 pochi risultati
 motivate?
 comunque risultati…
 comunque aridità..
 ma nn ho paura..
 nn m'importa..
 passerà..
 guardo meglio l'immagine allo specchio
 nn sono io..
 sarò cambiato?
 probabile..
 forse..
 forse no
 vuoto..
 nulla riflette lo specchio..
 i suoni nn si riflettono..
 vampiri bevono
 dall'anima..
 sussurrando parole ingannevoli..
 andrà tutto bene..
 nn serve preoccuparsi..
 le sensazioni contrastano..
 complimenti riflessi..
 foreste d'io sono..
 suoni..
 vento tra gli alberi
 sibila
 via t conduce..
 essere o nn essere?
 essere e nn essere
 essere è nn essere..
 nn sono bravo
 nn sono cattivo
 nn sono giusto
 nn sono iniquo
 sono..
 un sasso.
 tedio..
 mi costringo a guardare
 e molto
 realmente nn m'importa...
 altri sono suoni..
 ma lo specchio riflette
 princìpi?
 esso ride d me con il mio volto
 basta cosi poco
 x nn essere riflessi
 l'apparenza
 due specchi d fronte con te in mezzo
 sempre più piccolo
 si cerca d capire qual'è
 quello in fondo..
 ma ciò nn è nello specchio
 quello in fondo
 è fuori dallo specchio
 nei risvolti della propria anima
 allora mi accorgo d nn riflettermi..
 risonanze dell'ego senza ragion d'essere
 lo specchio nn riflette..
 l'essenza rimane
 la vedi e ti vedi
 li
 e nello specchio…
 fatica..
 fatica?
 difficile trovare il coraggio x guardarsi in faccia
 ancor d più il riuscire a vedersi..
 fatica.
 ciò ke nn sono
 porta vuoto
 ciò ke nn sono
 porta paura..
 ciò ke nn sono
 nn accetta ciò ke sono
 si è costretti a nn accettare l'essenza
 dall'indifferenza..
 odio
 invidia
 la tua immagine si riflette!!
 xke la nostra no?
 tanto nn m'importa…
 la tua immagine è brutta..
 meglio n essere riflessi piuttosto..
 io sto bene nn riflesso vedi?
 tu sembri stanco...
 malato..
 stai lontano essere definito..
 nn vorrei ke mi contagiassi!
 infinita tristezza…
 *** la nostra è una generazione di foglie al vento!appena il tempo inizia ad imbrunire
 perdiamo speranza e ci lasciamo morire
 non credendo nell'estate che verrà
 riportando il sole.
 così cm le foglie alla fine dell'estate iniziano a seccare
 anche noi
 appena le cose cambiano
 lo avvertiamo
 e dopo breve tempo
 come foglie ingiallite investite dal vento
 ci lasciamo trasportare via
 staccandoci dall'albero che ci dava la vita
 inevitabilmente morendo..
 perché se il tempo è brutto ora..
 non potrà migliorare di 'sti tempi
 tanto vale perdere interesse
 e morire
 ignorando la verità
 vuoi per debolezza
 vuoi per colpa delle ferite subite
 non vogliamo renderci conto
 che non siamo foglie
 che non è il vento a spostarci
 siamo giovani piantine
 in una fitta foresta
 se vogliamo ricevere luce
 dobbiamo spingerci più in alto
 soffocando a volte
 creature più deboli
 arrancando alla cieca
 verso ciò che crediamo sia calore
 verso ciò che crediamo sia luce
 verso ciò che crediamo necessario alla nostra vita
 cercando di non crescere storti
 spingendo le radici ben a fondo nel terreno
 per fare in modo di non crollare sotto il nostro stesso peso
 per fare in modo che le intemperie non ci trascinino via
 per vivere
 spietata competizione
 la vita
 odio la competizione
 odio la vita
 odio me stesso
 odio l'odio
 non posso fare a meno d'odiare
 non posso fare a meno d'illudermi
 che la speranza esista
 odiando poi la triste verità
 se il terreno in cui hai le radici è colmo di sassi
 che ti feriscono
 se l'acqua che ricevi dal cielo
 è avvelenata
 come puoi sapere
 se al di sopra di tutti gli alberi ci sia davvero qualcosa
 per cui vale la pena lottare?
 di chi ti fiderai?
 noi non siamo piante
 noi veniamo al mondo soli
 ce ne andiamo soli
 e per tutta l'effimera durata della nostra vita
 cerchiamo di scongiurare tale solitudine
 mentendo a noi stessi
 credendo
 sperando
 di trovare
 una metà
 che in realtà
 è dentro di noi
 e più cerchiamo d'amare
 più odiamo
 ritrovandoci infine
 ad aver dimenticato
 cosa significa amare
 ritrovandosi infine ad essere
 futili creature
 incapaci persino di vivere
 anche solo per se stessi
 aspettando con timore reverenziale
 la fine di questa follia
 il termine delle emozioni
 ingannando ancora sé stessi
 con la speranza
 l'unica speranza sicura
 l'unica certezza
 in questa esistenza dannata
 la morte.
 Johan Pesaresi è nato il 13/03/1984 a Forlì. 
          Non ha studiato un cazzo di niente perché niente valeva la pena 
          di essere studiato in maniera teorica, dato ke la vita è la più 
          grande insegnante (seppur crudele e senza scrupoli) ed è riuscito 
          a passare l'esame di terza media solo per la presenza. Anche se attualmente 
          odia SE STESSO e ne dà la colpa all'umanità s'interroga 
          insistentemente sul comune destino degli uomini cercando una via per 
          la comprensione dell'essere nelle sue molteplici forme, ma, nonostante 
          tutto, questo nn lo porta certo ad essere tollerante, anzi… in 
          poche parole è un testa d cazzo ke si crede meglio d tutti solo 
          xké spesso agisce in funzione dei suoi ideali. Torna all'inizio
 L'anello del re 
          salomone di Costantino 
          Loprete  Quando modificava il gergo quello era l'individuo
 gli oggetti si sono creati
 contemporanei e sol quando
 ti gira trascorre il tempo
 intorno a una gravità reale
 che incorpora il vento da cui
 sei fuori da tutto.
 non è il fiore che non muore
 e tutti cercano il nome
 la panacea, che impedì il futuro
 chiudendo una porta, il mio si
 tagliava con una mano sbilenca
 in testa, la destra come flag
 ma guidavo io era la sinistra
 era a destra era la destra
 lavorare più o meno tutti
 lavorare più o meno, un su
 ricordo sbagliato per uccidere
 uno sforzo del pensiero
 per la vita di tutti.
 custodire il comune patrimonio
 della storia nelle cose
 considerata anche la psicocinesi
 è un dovere per dimenticare.
 
 Costantino 
          Loprete vive a Salerno dove è nato da lucani (padre camionista 
          di lingua italo-albanese, madre casalinga). Docente di fisica nella 
          pubblica scuola superiore. Fuma però non divaga sogni; fotografia, 
          cinema. È stato inserito nella nostra Antologia 
          Pubblica. Torna all'inizio Riflessione sul brano del 
          Vangelo di Luca 6,12-39 di Bernardo 
          Francesco Maria Gianni Siamo alla vigilia della Pentecoste, la solennità 
          in cui la Chiesa inizia il suo compito di rischiarare la storia del 
          mondo, custodendo la rivelazione ricevuta dal Signore e trasmettendola 
          a tutta l'umanità come evento che si ha e si rinnova quando le 
          persone, i cuori, si stringono, si parlano nel nome della speranza che 
          è il Signore Gesù. Luca ci fa seguire i movimenti di Gesù; 
          i suoi gesti di azione che risanano con la parola; di scelta degli apostoli 
          frutto di una nottata di preghiera: “In quei giorni Gesù 
          se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in 
          orazione. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli 
          e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli…” 
          (cf Lc 6,12-16). Una scelta che ci vuol tramandare, attraverso la successione 
          apostolica, questo misterioso dialogo di pienezza che c'è tra 
          il Figlio e il Padre. Le beatitudini che ci accingiamo a meditare, non 
          sono una precettistica per farci ricadere nella schiavitù di 
          chi guarda a un Dio esigentissimo, ma al contrario sono una prospettiva 
          che parte dal dialogo del Padre con il Figlio e che ha come elemento 
          cardine lo sguardo che il cristiano ha sul tempo, sulla nostra storia. 
          Per capire questo, che è fondamentale, bisogna soffermarsi sul 
          risvolto teologico delle cose che Luca ci ha narrato. Gesù nella 
          sinagoga legge il rotolo di Isaia che dice: “Lo Spirito del Signore 
          è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione…” 
          (cf Lc 4,18-19).Luca, dunque, ci narra una novità; la Lettera agli Ebrei ci dà 
          una lettura teologica di questa novità: “Dio che aveva 
          già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai 
          padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni (che sono 
          gli ultimi secondo una traduzione migliore), ha parlato a noi per mezzo 
          del Figlio…” (cf Eb 1,1-2). Quindi la Lettera agli Ebrei 
          ci dice che questi giorni che noi viviamo sono gli ultimi, nel senso 
          che s'inaugura un tempo ultimo in Cristo con segni prodigiosi: la guarigione 
          di sabato, il perdono e la guarigione del lebbroso, la guarigione del 
          paralitico. Questa legge di carità, eccezionale e sconvolgente, 
          implica che è entrata nella storia una forza nuova con l'incarnazione 
          di Gesù che è inizio di un'età nuova nello Spirito 
          Santo, ma anche il suo compimento.
 Gesù con la sua venuta ha perdonato l'umanità e in forza 
          di questo perdono gratuito possiamo leggere le beatitudini con fiducia, 
          perché siamo stati visitati dall'amore di Cristo che ci ha introdotti 
          in un tempo nuovo. Questa prospettiva delle beatitudini raggiunge una 
          moltitudine che è già universale “C'era una gran 
          folla di discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea… 
          dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed 
          essere guariti dalle loro malattie…” (cf Lc 6,17-18). Ma 
          anche dalle nostre malattie! È un Dio che sta provando ad entrare 
          come fermento nuovo nella nostra interiorità, perché i 
          nostri giorni sono gli ultimi come dice la Lettera agli Ebrei. Le persone 
          intuiscono che c'è un amore all'opera: “Tutta la folla 
          cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava 
          tutti.” (Lc 6,19). Luca vuol darci la percezione che quest'uomo 
          qualsiasi cosa dica, qualsiasi parte del suo corpo si lasci toccare 
          è novità che guarisce. “Alzati gli occhi verso i 
          suoi discepoli, Gesù diceva: Beati Voi poveri perché vostro 
          è il regno di Dio.” (Lc 6,20). Guarisce e si rallegra con 
          coloro che riconoscono come nella logica del Vangelo la povertà 
          sia oggetto del compiacimento del Signore, che non vuol dire affatto 
          che la povertà sia bella e augurabile! L'aspetto fondamentale 
          di questi versetti sta nel cogliere come Gesù sia venuto a guarire 
          tutti noi, ricchi e poveri, dalle nostre sicurezze con la sua forza 
          risanante, perché tutti in realtà abbiamo fame, piangiamo, 
          siamo persone nella dimensione della fragilità. Questo non significa 
          disprezzare una lettura che Luca ha molto a cuore, e cioè del 
          rispetto dei fratelli oggettivamente poveri, perché le comunità 
          cristiane sono luoghi di condivisione. Siamo di fronte a una realtà 
          che è inaugurata da Gesù ma non è ancora compiuta: 
          “Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati.” 
          (Lc 6, 21).
 Gesù ci educa ad avere fiducia nella storia, fiducia nel tempo, 
          che però non vuol dire rassegnazione perché più 
          avanti ci indica il comportamento concreto da adottare nella vita di 
          tutti i giorni, che è di amore, di condivisione, di gratuità, 
          di perdono. Sono versetti impegnativi e complessi perché il Signore 
          ci educa a restare con i piedi per terra ed a fare in modo che il minor 
          numero possibile di persone abbia fame su questa terra, ma allo stesso 
          tempo ci dice che non ci sarà mai pane sufficiente per saziare 
          il nostro cuore. E così anche l'afflizione con cui Gesù 
          ha seguito le tormentate vicende delle sua comunità, promettendo 
          di essere a fianco di coloro che sono nella prova: “Beati voi… 
          quando vi metteranno al bando… e respingeranno il vostro nome 
          come scellerato…” (cf Lc 6, 22). Questo è un problema 
          di un'attualità straordinaria, perché non può esistere 
          una società, una cultura, un sistema politico capace di capire 
          fino in fondo la novità di Cristo ed è un dramma quando 
          si propone il cristianesimo come modello culturale del nostro Occidente: 
          sembra una conquista ma in realtà è un impoverirlo, perché 
          c'è sempre uno scarto! Quale legislazione civile potrebbe accogliere 
          nella sua logica statuale una legge siffatta: “Amate… i 
          vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla…” 
          (cf Lc 6, 35). E il cristianesimo in qualche modo è il sistema 
          culturale del nostro Occidente, ma bisogna fare attenzione a non depauperare 
          questa parola così irriducibile ad una legge puramente umana, 
          perché in Gesù c'è un di più: “Da' 
          a chiunque chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo.” (Lc 
          6, 30). Questi versetti ci stanno di fronte come uno sprone; una tensione 
          per l'aspetto dinamico che lo Spirito Santo ci dona: perciò come 
          cristiani dobbiamo introdurre la logica della testimonianza evangelica 
          che non può non cozzare con l'ordine stabilito e con i potenti 
          del nostro tempo che hanno bisogno della religione per legittimare le 
          loro sicurezze. Oggi si ricorda un grandissimo Papa (Gregorio VII, 1073-1085, 
          Ildebrando di Soana in Toscana), che davvero ha fondato la laicità 
          della cultura dell'Occidente ricordando che c'è un dominio temporale, 
          quello dell'Imperatore, cui va tutto il rispetto, ma c'è un piano 
          spirituale che ha una logica che l'Imperatore non può avere. 
          Quindi è bene distinguere questi ambiti per il bene e l'efficacia 
          della nostra testimonianza cristiana, perché essere cristiani 
          è un'impresa molto complessa e questi versetti ce lo ricordano.Tutti 
          siamo chiamati alla logica dell'amore, e ognuno di noi saprà 
          come e dove attuarla con la forza della preghiera, leggendo la parola 
          del Signore e custodendola nel proprio cuore.
 
 Bernardo 
          Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia 
          di San Miniato al Monte:Monaci Benedettini di Monte Oliveto
 Le Porte Sante, 34
 50125 Firenze
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