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L'universo che sta sotto le parole
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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 91
Luglio 2007

Editoriale: La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

Questo numero si apre con un lungo e stimolante saggio di Viviana Scarinci che ci parla della Nascita del poeta a partire dal mito di Orfeo (ovvero, secondo un'etimologia a base fenicia, Colui che guarisce con la luce). Abbiamo poi inediti veramente interessanti di Claudio Pagelli (“siamo fatti per essere muti / come i fiori, a che serve, mi chiedi,
la parola / se un gesto già racchiude il mare…”, Enrica Musio ("Le vie delle nuove case difronte a me studio, / gli sguardi della gente / la mia mancanza di fiato / finestre sfuocate / il pensiero della parola che non vedo…”), di Johan Pesaresi in primissima uscita pubblica con versi che sono un vero e proprio incontenibile flusso di coscienza (“l'animo corre lontano.. / quando t accorgi ke si muove / esso è già all'orizzonte / guarda avanti.. / e sorride.. / ma nn a te..”; grazie ad Alex Celli per averceli proposti) e di Costantino Loprete (“e tutti cercano il nome / la panacea, che impedì il futuro”). Abbiamo anche una empatica recensione di Vincenzo D'Alessio a Il gatto e la falena di Maria Pina Ciancio ( “Portatemi via tutto / (i sogni, l'anima, la felicità) / ma lasciatemi in segreto / la parola per ricominciare”). Padre Bernardo ci offre infine una intensa meditazione lucana (“non può esistere una società, una cultura, un sistema politico capace di capire fino in fondo la novità di Cristo”).

 

4. Nascita del poeta

di Viviana Scarinci

(…) ripetizione è oggi un termine risolutivo come lo fu “reminescenza” presso i Greci. Come dunque costoro insegnano che ogni conoscere è un ricordare, così la filosofia nuova insegnerà che la vita intera è una ripetizione (…). Ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento (…)
(Soren Kierkegaard) (1)

Orfeo

Per Ovidio, Orfeo è un cantore della Tracia, figlio di Apollo e della musa Calliope, ma secondo un'altra tradizione egli è figlio del re Eagro, il cui nome significativamente allude alla sua caratteristica di “cacciatore solitario”, re della Tracia, amato dalla musa Calliope che gli generò Orfeo e Lino; entrambi dal padre iniziati ai Misteri dionisiaci (2). Entrambi poeti. Pare ci sia concordanza sulla figura di Calliope come madre, il cui nome dal greco vuol dire, colei che ha bella voce. Quindi per linea materna ad Orfeo potrebbe essere stata trasmessa la poesia, e per linea paterna, dalla primissima infanzia, gli potrebbe essere stata infusa l’appartenenza dionisiaca.
E se fosse stato invece Orfeo, soltanto il figlio di una donna della Tracia (3)? Il figlio di una regione che veniva vista dai greci come una terra sacra. Terra su i cui monti si trovano antichissimi santuari e nelle cui vallate boscose, le sacerdotesse della triplice Ecate, avevano imposto al culto dionisiaco caratteristiche cruente e terribili (4). In una regione come questa, Orfeo poteva essere tanto il figlio di una tra le donne dedite ad un culto uranico o solare celebrato sugli altipiani, e di un uomo, che fosse un re indigeno o altri, magari un pastore avvezzo alla follia bacchica, dilagante negli anfratti sottostanti il tempio. Non doveva camminare ancora Orfeo, se in braccio alla madre, nascondeva il viso tra i suoi capelli, nell’odore celeste che la permaneva nottetempo, quando discendevano l’altura del tempio: la vegetazione si fa aspra, fitta di altro odore e cingeva la madre alla vita sfiorando il piccolo che con lei discende verso una zona consacrata ad altro culto e che la sensibilità infantile di Orfeo, già presente satura di orridi richiami. Così madre e figlio col favore del buio, raggiungevano il padre, così si esponevano ai più terribili incontri, nella terra delle baccanti. Quello che Orfeo annusò poi, fu l’afrore dell’abbraccio paterno, se pastore, il padre, dava appuntamento alla madre in accordo con le baccanti, che non le nocessero. O un forte sentore di mirra, se il padre era Eagro che rifuggiva l’ufficialità della reggia per votarsi nottetempo a Priapo, Re, splendido, circospetto (5). Questo durò fino alla sparizione della madre, la quale lasciò Orfeo ancora troppo piccolo, improvvisamente s’immagina, solo perché la morte lo pretese. Nel caso in cui Orfeo crebbe tra pastori, visse la sua infanzia nel tacito accordo con la natura che lo vedeva difendere di giorno il gregge: Orfeo esposto tutte le ore ai mutamenti atmosferici che gli accadevano sulla pelle, accolti con la neutralità di colui che, dalla stessa mutazione, si sente naturalmente mosso nell’intimo. La notte lo vedeva riconoscere tra i richiami degli animali, gli ululati emessi in corsa da quelle che tra le sacerdotesse di Ecate, si diceva, fossero divenute bestie. Venivano trovati, dai pastori, animali feroci dilaniati, smembrati in quantità, tanto che capitava facilmente, attirati da un terribile odore di putrefazione, di trovarne interi brani, tra i boschi che circondavano gli stessi pascoli. Per le strade dei villaggi si diceva che queste donne già sacerdotesse di Ecate fossero impazzite dalla possessione della dea triplice che incattivita poteva, sotto la sembianza di tre distinti corpi, attendere nottetempo gli uomini a quadrivi per sbranarli. Nei villaggi terrorizzati dai macabri ritrovamenti, Ecate appariva come una Lilith capace di infierire anche sui bambini, senza che il terrore fosse mitigato dal sapere Ecate, poter anche essere dolcissima amica, come lo fu per Persefone (5). Ma anche se Orfeo fosse stato un principe cresciuto nel fervore degli scambi con la Grecia che ad ogni arrivo di mercante e di musico straniero assisteva incantato all’approdo del mondo nel microcosmo della Tracia; anche se Orfeo fosse stato il principe adolescente che avesse avuto da solo il privilegio di partecipare alle cacce paterne che Eagro divideva solo col figlio datogli da quella donna celeste. Che il padre fosse un re o che fosse un pastore, non importa, importa che egli decise che per il figlio poco più che adolescente, fosse arrivato il momento in cui conoscere il luogo e l’azione del suo concepimento. Se Orfeo fosse stato un giovane pastore spaventato ed eccitato di entrare nel mondo paterno o un colto principino, costretto dal padre a guardare lo spargimento di sangue tra cui era stato concepito, in entrambi i casi egli si trovò ad affrontare il terrore. Un terrore che da poco più che bambino, non misconobbe con un finto coraggio, ma visse appieno, mantenendo il suo cuore aperto al rito, perché già Orfeo era una cosa sola con l’unità del mondo che esiste e dura (6).
Vide Orfeo, la notte della sua iniziazione, le baccanti circondare un torello che dal loro magico cerchio, non fu capace di liberarsi. Mentre il gruppo delle invasate si avventava contro il torello per azzannarlo, una, con le mani nude gli afferrò il primo accenno di corna e gli storse con forza sovrumana, il muso, fino a spezzargli il collo; le altre al culmine dell’eccitazione, con la stessa inesplicabile forza gli strapparono le zampe, e tirando infine le monche estremità della bestia, strapparono il tronco in due, provocando la fuoriuscita delle viscere e dello spirito della bestia che unicamente avrebbe potuto evocare l’avvento di Dioniso. Se la ripetizione è, per un dio, segno maestoso, sigillo della necessità (7), fu dopo lo smembramento del toro che il dio si presentò finalmente straziato e trionfante, vittima, dell’ennesima ripetizione del suo smembramento. Smembramento atto a rendere il presente dell’iniziato, vivo del passato del dio; è così che il denso ricordare del dio, diventa il terreno su cui l’iniziato deve provare la sua umanità, deve conoscersi. Allora le baccanti imbrattate di sangue con una dolcissima melopea, cominciarono a ripercorrere l’azione titanica che uccise il loro dio. Era il culmine della notte quando i Titani, col volto biancheggiante che si stagliava nel buio, circondarono il piccolo Dioniso-Zargreo. Anche il bimbo si trovò col volto imbrattato, tanto che prese uno dei suoi giocattoli preferiti, lo specchio e si guardò per l’ultimo tempo che i Titani gli concessero. Era Lui, Dioniso la cui vita stava per essere infranta o era qualcos’altro? Provò diverse trasformazioni forse per sfuggire ai Titani o forse per darsi prova di essere non solo il bambino che stava per morire ma anche un adolescente che vuole solo l’ebbrezza perché l’ha scoperta da poco; un leone che sbrana non per inimicizia; un cavallo complice dell’uomo in tutto; un serpente tentatore come Zeus, suo padre, che sotto quella forma lo concepì; una tigre indolente e ferocissima. Quando i Titani lo afferrarono, l’ultima forma che gli si conobbe, fu quella di toro. La melopea si concludeva con un urlo, quello trionfale di Hera, che dai Titani aveva preteso quello scempio (8). Orfeo atterrito e commosso dal canto delle baccanti, si immedesimò nel bambino che i Titani stavano smembrando, immedesimandosi diventò altro da sé, assunse in questo modo la prerogativa dionisiaca dello sdoppiamento; diventò il suo corpo, per la durata del rito, occupato dalle mutazioni del dio, e come Lui dolente di essere fatto a pezzi, come il dio col corpo accecato dello strazio infantile, non si riconobbe allo specchio che gli porse il padre. L’alterità coesa all’ebbrezza, gli rese l’estasi, quell’istante del corpo capace di accogliere tutte le forme del dio. Fu quella notte che Dioniso vide Orfeo e lo decise detentore naturale, tra gli uomini, della sua maschera. Si sentì compreso Dioniso da un uomo. Orfeo capì che lo sconvolgente annullamento delle differenze tra donna e bestia che le baccanti ritualmente operavano per darsi la forza di infierire sul corpo del toro, era la condizione necessaria per trasformare l’eccidio nella struggente melopea dedicata al loro dio. Comprese la labile dicibilità della poesia, indossando la maschera che Dioniso gli porse quella stessa sera, maschera che gli conferiva il privilegio della frontalità, lo sguardo diretto, necessario alla distorsione poetica, per tendere altrove. Certo Orfeo il mattino successivo si svegliò, pastore o principe, comunque uomo, la cui coscienza si era arricchita finalmente del compito che avrebbe governato la sua esistenza. Già si diceva che Orfeo in una notte di baccanale avesse incontrato il dio nuovo che a Ecate s’era sostituito rendendo le sacerdotesse, baccanti. Già si diceva che le baccanti impazzivano del desiderio di impossessarsi del giovinetto. Chi assistette quella notte all’incontro tra Dioniso e Orfeo, tacque. I pochi uomini che si congiunsero ritualmente alle baccanti erano troppo ubriachi per ricordare cosa effettivamente accade al giovane Orfeo, abbandonato, anche dal padre, al suo destino di dolorosa crescita. Orfeo, decise quindi di partire, forse perché le baccanti non lo distruggessero per troppa brama o forse perché sentiva gli mancasse un compimento ulteriore, che consentisse alla sua statura umana, di tentare il governo di quelle forze così oscure. E dove recarsi se non in Egitto?

Egitto (9)

(…) E ove prime era
meno di una capanna a ricevere la voce,
un nascondiglio di indistinte brame
con un accesso i cui stipiti tremano
– tu fondasti nel loro udito i templi

(Rilke, I Sonetti ad Orfeo, I)

Come approfondire i Misteri di Dioniso se non attraverso quella figura così simile per ruolo e per destino che è Osiride, dio, attraverso i cui Misteri, la regalità nell’antico Egitto trovò il suo fondamento. E quale la terra se non l’Egitto, in cui il culto misterico veniva rappresentato non dalla frenesia degli invasati ma da una vera e propria casta sacerdotale ospitata in templi che godevano di considerazione politica e sociale. Tanto che era ad Eliopoli, antica città santa, che i faraoni andavano a legittimare il loro status. I sacerdoti di quella città avevano avuto infatti l’audace politica di assimilare e rielaborare in prospettiva universale, le antiche tradizioni locali, sancendo così la supremazia della teologia eliopolita su tutta la regione. Essa promuoveva una visione del mondo divino organizzato gerarchicamente nella grande famiglia dell’Enneade, dominata dalla figura di Ra, il dio sole. Figura sorprendentemente vicina a quella di Apollo che pure si dice essere padre di Orfeo. Al principio, il sole, personificato in questa divinità, coniugandosi all’elemento liquido, rappresentato materialmente dalle acque del Nilo, aveva generato tutte le cose. È immaginabile il potere fascinatorio che esercitò questa teologia sul giovane poeta. L’altra suggestione dell’Egitto che Orfeo fu chiamato a vivere, era l’impossibilità di sentire quegli déi come figure esclusivamente divine e perciò inavvicinabili. Essi erano forze cosmiche pienamente agenti; da elementi della natura e non da remote divinità olimpiche, erano i governatori dei principi galvanici del divenire umano che agiva secondo quella teologia, tanto sulla vita quanto sulla morte; morte che come la vita poteva essere sancita da regole di governo.
Sono cinque gli elementi che Orfeo apprese in Egitto essere le condizioni necessaria dell’esistenza: il nome, l’ombra, lo akh, il ka, il ba. Il nome si lega al potere della parola che seguendo il suo alterno afflato di luce e di ombra pronunciata dal corpo su i suoi stessi contenuti, dipana il destino che la persona, con il suono di quella parola che è il suo nome, condurrà. Il nome, qualcosa di appena antecedente il respiro, l’anacrusi del gergo individuale. L’ombra è l’alter ego irriflesso dell’uomo, il doppio diseguale, ciò che lo specchio rimanda al piccolo Dioniso-Zagreo che al tempo stesso, si riconosce e non si riconosce nelle forme istintive che gli proliferano tanto dalla paura quanto dall’esaltazione; forme che gli si alternano nella mente come possibilità del corpo di dare compimento materiale a quanto di volta in volta l’animo concepisce. L’akh rappresenta la luce come veicolo, la luce come possibile emanazione d’ognuno; uguale per gli dèi e per i defunti, rendendoli così, dèi e defunti, assimilabili e dotati della stessa qualità solare. Questa luce è il veicolo indispensabile perché il passaggio tra al di qua e al di là si possa compiere. L’uomo ha in vita la possibilità di acquisire questo veicolo luminoso, attraverso lo sviluppo del ka. Il ka è la pura forza vitale che l’essere umano può disciplinarsi in vita; è ciò il cui incremento gli consentirà nel futuro di mantenere la sua esistenza nell’al di là; consentirà all’anima di non dissipare nella morte. Il ka quindi è un principio mutevole che dipende dal potere personale di colui che lo possiede e che può consentirsi di esistere sia tra i vivi che tra i morti. Infine il ba è una forma di potenza propria all’uomo, al defunto e alla divinità; questa potenza viene rappresentata come un uccello dal volto umano che accompagna l’uomo in vita e lascia il defunto alla sua morte finché egli non se ne riapproprierà, dopo il processo di mummificazione. È grazie al ba che dèi e defunti possono ripresentarsi ai viventi sotto una forma visibile.
Come poteva il poeta, non ricordare certe intuizioni che lo visitavano spesso, che gli arrivavano spontanee e da sempre, intorno a questi principi di cui solo ora materialmente acquisiva la conoscenza? Il suo nome ad esempio. Secondo una fonte (10) che abbraccia più l’aspetto esoterico che quello comprovatamente storico della materia orfica, non gli fu imposto dalla madre, ma conferito in Egitto secondo la norma misterica che alla seconda nascita, quella successiva all’iniziazione, dovesse essere imposto un secondo e più importante nome, quello spirituale. Secondo questa fonte il giovane venne chiamato Arpha, vocabolo fenicio composto da Aur, luce, e rophae, guarigione; colui che guarisce con la luce. L’ombra era ciò che aveva cagionato la sua partenza dalla Tracia; era la sua immagine che per un istante aveva visto riflessa nello specchio di Dioniso. Era quanto di lui si legava in infiniti e controversi modi al suo oscuro concepimento avvenuto al culmine di un rito dionisiaco. L’akh, il veicolo, la possibilità legata alla sua stessa luce che ora vedeva espressa pienamente dalla variabile del sole, durante l’adorazione del dio Ra lungo tutto il ciclo circadiano, come metafora del movimento ciclico della sua stessa esistenza quotidiana. Come non collegare l’akh ai Misteri eleusini che ogni anno rappresentavano la possibilità di quel transito, con la simulazione del ratto di una fanciulla, che ne simboleggia la morte, per propiziare nell’iniziato, l’apertura dell’occhio, l’illuminazione che gli consenta come a Persefone, un trapasso che non voglia dire, la cessazione della propria esistenza. E come non sentire, Orfeo, nel corpo la propria identificazione totale con Ka, come la forza celeste che gli manteneva vivo lo spirito di sua madre senza che nulla potesse mutargli di colore, quel suo sguardo sulle cose ma anzi tutte le cose venissero illuminate, di quella venatura sublime che gli faceva vivere nell’intimo l’orrore e la meraviglia con la stessa intensità amorosa. Ed infine il ba che intuiva essere l’oggetto che lo stava legando indissolubilmente alla morte come cardine doloroso di una ricerca che forse sarebbe culminata col suo mantenimento, il mantenimento del ba, in una forma eterna che avrebbe prescisso la sua stessa morte.
L’esperienza egiziana di Orfeo doveva aver avuto materialmente inizio dall’accettazione da parte dei sacerdoti del tempio, di Orfeo come osservatore del culto. Essi dovevano aver apprezzato il grado di profonda suggestione con cui quel giovane si avvicinava al cuore della teologia egiziana. Dovevano aver ascoltato come Orfeo rielaborava in quesiti dotti la sua ricerca personale. Orfeo doveva aver detto loro di come il simulacro terreno di Osiride, Horo, il faraone con le sue vicende spirituali, gli faceva nascere nell’intimo la certezza di un affinità sconvolgente tra divinità ed essere umano; tra sé stesso e Dioniso; affinità continuamente suggeritagli dalla propria vicenda iniziatica; vicenda di cui ancora doveva chiarirsi il significato ma che intimamente sapeva riguardare il suo carisma poetico. Osiride, fratello e sposo di Iside fu smembrato da Seth, come Dioniso. Per Plutarco e per Erodoto (11) Dioniso e Osiride coincidono con la stessa divinità. Successivamente, la dolentissima Iside ne raccolse pietosamente i brandelli per ricomporne il simulacro nel regno dei morti e lì, nell’al di là, da quel simulacro, concepì Horo, concepimento tanto potente da soppiantare Seth, ottenendo così il trono che gli spettava di diritto in quanto figlio di Osiride. Sulla prerogativa dello sdoppiamento quindi si fonda il diritto dinastico del faraone che vede il re defunto divenire Osiride e regnare sull’al di là, mentre il re vivente divenire una sorta di alter ego terreno del dio, assumendo il nome di Horo (12). Non è difficile credere che Orfeo guardò a queste vicende con lo stesso animo con cui guardò il volto dionisiaco di quella sua prima notte iniziatica: identificandosi forse come Horo, il rappresentante terreno di Osiride-Dioniso, dio che da un'altra sfera, comunichi agli uomini, attraverso lui, Orfeo, suo pontefice. Quella notte della sua iniziazione aveva inteso essere questa, l’intenzione di Dioniso che si faceva ora realtà, realtà quotidiana, senza che la sua volontà gli potesse ispirare altro, senza che la sua intenzione personale avesse minimamente importanza nella successione di quanto apprese essere il suo destino.
Questo lo intendeva precisamente e fuori da ogni dubbio soltanto osservando. Ammesso dalla casta sacerdotale ai locali del tempio che ospitavano il dio, guardava allo svolgimento del culto di Ra, dio sole, che si basava sulla coltivazione quotidiana del legame tra l’officiante e il dio. I sacerdoti avevano il compito di accompagnare il risveglio del sole che consentisse ogni giorno, l’unione alla base del divenire, quella del sole con l’elemento liquido, il Nun, l’acqua del Nilo, i cui periodici straripamenti consentivano la fertilità, ma anche il caos che indistintamente contiene il germe della vita. Il Nun che attende quotidianamente il sole per essere ingravidato, è pure tutto ciò che sta al margine del visibile, come minacciando perennemente gli uomini di poter, da un momento all’altro, riappropriarsi delle forme da loro faticosamente date, per distruggerle e fagocitarle ancora ed ancora nel potenziale magmatico del caos. I sacerdoti prima dell’alba aprivano la cella che ospitava il simulacro del dio, cantando l’inno del mattino, sfioravano il volto del dio, per rendergli il suo ba, per consentire all’uccello di tornare al dio dopo il sonno mortifero della notte, restituendogli la potenza che lo palesa: la luce; infine contemplavano il volto del dio, con ardente fissità, e il sole lentamente sorgeva, come se la potenza di quel legame consentisse attraverso il risplendere del dio tanto alla terra quanto alla donna, sublime rappresentante del caos, di generare. Apprese in questo modo Orfeo, il valore della contemplazione, dell’atto in cui la visione assume la neutralità che consente l’unico accesso verace alle cose. Capì perché il sommo sacerdote che presiedeva tutti i riti veniva chiamato il “massimo dei vedenti”; perché grazie al suo legame con Ra era colui tra gli uomini cui fosse più di tutti consentito il vedere. Ma perché la visione fosse concessa, il sacerdote, diverso dall’uomo comune per via della sua vita dedicata, avrebbe dovuto, attraverso la pratica del culto, purificarsi dagli aspetti terreni della sua visione. Tutti i riti avevano questo scopo e si svolgevano nell’ambito di cerimonie religiose che avevano precise cadenze temporali. E anche in ambito egiziano la cerimonia consisteva nella ripetizione delle vicende mitiche del dio e spesso culminava con un sacrificio. Ma qui Orfeo fu colpito da un altro aspetto che fu determinante per la sua personale rielaborazione teologica. Fu colpito dalla sostituzione che i sacerdoti sovente operavano tra animale votato al sacrificio e suo simulacro, rendendo così al rito l’aspetto incruento che incrementava la componente spirituale di quella pratica, a scapito degli spargimenti di sangue che altrimenti avevano sconvolto l’animo del poeta, quando vi aveva assistito nella sua terra d’origine.
Ora per Orfeo si trattava di contemplare quanto più prossimamente ciò che attraverso l’orrore, Dioniso gli aveva deposto nell’anima, e che gli tornava alla memoria sotto l’aspetto brutale da cui sembrava decollare l’afflato religioso delle baccanti. Capiva le due componenti opposte che la disgregazione del bambino-Zagreo chiamava a considerare. La componente titanica, malvagità della baccante che infierisce sul torello, malvagità del gigante che uccide il bambino, e il bambino, l’inerme che può sopravvivere allo strazio. Doveva contemplare tutto questo come se le ceneri di Titani e innocenti fossero pur sempre la stessa cenere che assicura fertilità alla terra, al Nun, al margine che fagocita ed espelle continuità. Come il massimo dei vedenti, il sacerdote, vede il massimo che ciò esprime, e questo lo avvicina più degli altri alla divinità, a patto che la sua vita sia interamente dedicata alla purificazione che questa vista spirituale incrementi in chiarezza e per gradi: i gradi dell’iniziazione misterica che Orfeo finalmente comprende necessitare di una regola e di un sacerdozio che ne scandisca le fasi. Che consente alla maggior visone di volta in volta, il sostegno di un corpo capace di ospitarne l’intensità.

Euridice, il ritorno

Volute di silenzio; quell’acido che tu depositi sulla mia salute,
la sporcizia che bolle nella mia anima.
Ricorda. È questo il prezzo della pace.

(Antonio Gamoneda)

Chi fosse Euridice prima dell’incontro con Orfeo non è dato sapere; quando Orfeo la perse, perché uccisa dal morso di un serpente, era in compagnia di una schiera di Nàiadi (13) e questo lascia supporre che ella stessa fosse una ninfa o che fosse semplicemente una vergine che dalle ninfe fosse stata eletta loro pari, grazie alle sue qualità che facevano pensare anche Euridice come Orfeo, esseri di un umanità trascendente. Sin dal principio s’immagina che i due s’intuirono accomunati nell’intimo dalla poesia, perché nessuno s’innamora di un poeta a prescindere dall’ispirazione che gli spira fin nella mimesi del gesto; e piace credere che anche Euridice fosse poetessa nel più sublime e meno diffuso dei modi, senza dichiararlo e senza scrittura che certificasse ad alcuno, la poesia essere altrimenti che la sua stessa persona. Ella capì al primo sguardo che nulla l’uno dell’altro avrebbe mai costituito un limite nella conoscenza reciproca, capì molto prima di morire, che nemmeno la morte avrebbe costituito quel limite. Capì che il presagio rappresentato dal volto di Imeneo (14), per niente lieto difensore del loro talamo, non doveva generare paura rispetto a ciò che sarebbe accaduto; la paura che tutto uccide dello spirito prima e meglio della morte del corpo. Dal principio fu chiaro che Euridice fosse per Orfeo l’unica amica del silenzio che gli manteneva sempre accesa l’attenzione, l’unica coinquilina di quel sentire appartato che Orfeo considerava essere il suo corpo, ora casa di entrambi, oltre che del suo dio.
Euridice è una donna. È un essere preposto non solo al concepimento ma al parto dell’alterità. Al parto dell’inconoscibile. E il figlio che potrebbe aspettare un giorno da Orfeo, rappresenta l’attesa di quanto le appartiene intimamente e non sa, non può sapere cosa sia. Euridice è la pazienza profonda che concilia la risposta del tempo, senza brama di sapere. Un essere pronto a generare, nel vero senso della parola, un prodotto umano che la prescinda totalmente, che le preesiste, che potrebbe non somigliarle affatto pur appartenendole, che venga dalla bruma al margine, fino al suo presente terreno, come qualcosa di compiuto malgrado la sua volontà, malgrado lei che più non importa, dopo averlo generato, se muoia. Euridice è l’apertura nel quotidiano, sulla marginalità del caos. È la porta su l’al di là che Orfeo sta cercando dal principio per darsi ragione dell’immortalità della sua anima. È la donna senza paura che incarna la sublimazione del femminile nel proprio stesso ruolo. Euridice è “La donna angelicata dei poeti, strumento di comunicazione col mondo ultraterreno, guida dell’uomo verso l’al di là che il maschio non conosce e che teme” (15). Euridice muore perché non può far altro. La morte di Euridice è l’ultima indicazione che Dioniso ancora deve ad Orfeo perché gli sia chiaro, malgrado l’elaborazione di necessarie teologie, di “non: dominare il tempo attraverso le religioni, dunque, perché queste si servono del tempo per dare delle certezze, per offrire risposte, ma dominare il tempo usando il tempo, per porre domande alle quali, non si aspettano, non si accettano risposte” (16). Questo è l’ultimo atto di onerosa fede richiesto da Dioniso ad Orfeo. Non accettare risposta da nulla quando la morte non è più teorica, quando la morte diventa quotidiana assenza dell’unico essere umano che conti, non formulare domanda di fronte al corpo esanime, domanda che inevitabilmente senza risposta, riduca la fede allo stesso silenzio; domanda che il tempo condanni per sempre a un muto non senso, quale soltanto sembra, nel lutto, il suo scorre. E questo era l’unico atto di fede che Orfeo davvero non poteva accordare a Dioniso.
Al suo ritorno Orfeo divenne il pontefice che il noviziato egiziano aveva formato per sedare le attese della tumultuosa Tracia. Il tempio di Zeus, sul monte Kaukaion (17), divenne il luogo sacro in cui Ofero venne riconosciuto come il massimo dei vedenti, sommo sacerdote di tutta la Tracia. Tuttavia Orfeo, non scelse di rifuggiarsi nella vita contemplativa, non scelse di riparare nella preparazione dei novizi, nell’istruzione al sacerdozio dei nuovi preti di Dioniso, la sua esistenza di uomo. Scendeva spesso nelle valli ancora sacre ad Ecate, in cui le invisibili baccanti, costituivano un rischio per tutti, anche per lui. Aveva appreso infatti che esisteva, nei luoghi della sua infanzia, una creatura pericolosa che si era messa a capo delle baccanti. Una donna che molti indicavano come una maga tessala di nome, Aglaonice (18) e che altri temevano addirittura di nominare, come una divinità tra le più efferate, che si temono fin dalla pronuncia del nome. Sembrava che nel periodo in cui Orfeo si fosse recato in Egitto, Aglaonice avesse ristabilito tra le baccanti il culto di Ecate e che avesse plagiato con la sua malia, i re dei territori sulle sponde dell’Ebro, convincendoli a soppiantare il culto solare degli dèi venerati sugli altipiani, in favore di Ecate. Era anche questo che aveva spinto i sacerdoti dei templi tutti ad eleggere Orfeo e la sua dottrina come somma, intuendo nei contenuti della medesima e nella personalità del sacerdote-teologo, quell’elemento mediano che avrebbe consentito una possibilità di governo su tutte le antitesi che animavano e corrompevano la Tracia. Fu in una delle sue discese solitarie in quelle valli, in cui sentiva ancora la memoria di sua madre animargli il passo del giusto coraggio, che Orfeo vide due donne, assolutamente tra loro diverse. La cosa che spiccava era la stranezza dell’idillio tra le due, immerse nel più terribile e pericoloso contesto si potesse immaginare in quel tempo. Intorno frusciavano altre presenze che Orfeo fiutò come quelle di baccanti ancora non manifeste, ma che paravano, in branco, l’agguato. Di colpo, la donna più alta, più brutta, più vecchia, la donna ossuta e ieratica che si stava già chinando sul volto della compagna, alzò seccamente una mano. Come se la presenza delle baccanti improvvisamente s’annullasse, più nulla frusciò intorno alle due. Fu quindi nel massimo silenzio scaturito dall’attesa di un accadimento fatale, che Orfeo si palesò alle due, certo, che quello che si stava per compiere fosse un omicidio e non, di contro l’apparenza, un convegno saffico. Non furono necessarie parole. Aglaonice sapeva chi fosse quell’uomo, l’unico in grado di farla recedere momentaneamente dalla sua orribile intenzione di impadronirsi della grazia di Euridice. Semplicemente si fece indietro, ridendo come una promessa di prossima visita e sparì subitaneamente tra gli alberi. Così si narra che s’incontrarono Orfeo ed Euridice, così si accorse Orfeo di quella creatura di cui, altrimenti la modestia forse, non sarebbe spiccata, tra le tante donne che lo cercavano per motivi diversi. La conobbe perché Aglaonice l’amava anch’ella del suo amore distruttivo, allo stesso modo in cui comunque l’amò Orfeo; in un modo che condusse Euridice, parimenti alla morte.
Anche in questo caso il destino si compì attraverso un emissario che potesse ritenersi colpevole. Aglaonice mandò un serpente a mordere la caviglia di Euridice. Ad arrestare la sua avanzata terrena, mentre tra i prati Euridice, restituita alla sua grazia dall’amore di Orfeo, giocava con le sue giuste compagne. Fu così che la morte irruppe nel suo significato materiale nella vita di Orfeo, che fin dalla perdita della madre, troppo prematura per essere davvero ricordata, intorno vi aveva eretto poderosi studi ancora incapaci di poesia. Tuttavia non gli apparve in quel giorno terribile la poesia dell’accaduto. Quel giorno che qualcuno lo cercò, carico della frenesia del messaggera di orribile nuova, la morte, gli apparve solo come un conato che gli scosse il corpo convulsamente, qualcosa che il corpo rigetta senza possibilità di espulsione. Non è vero che Orfeo cercò sua moglie da per tutto. Sapeva bene nel quotidiano il confine tra la vita e la morte, invalicabile, per chi non fosse un dio. Rilke (19) ritenne che Orfeo si avvalse di Ermes, tanto era inaccettabile la perdita di sua moglie, tanto non attese tempo che gli intessesse un significato plausibile, tanto la domanda senza riposta che la sua umanità non accettava di tacere, infine gli conclamò definitiva, insanabile, disperazione. Ermes il negromante, l’alchimista, il sagace. Ricorse ad Ermes perché “Quando Ermes cantava sulla cetra, suscitava nel suo pubblico una suggestione senza fine: la seduzione della magia, il desiderio erotico, il potere di curare e di mitigare gli animi e i corpi, la forza di dimenticare, la calma, la quiete, il piacere insinuante dei suoni melodiosi, il profondissimo sortilegio del sonno (…)” (20). Forse avvicinò la farmacia di Ermes, per lenire l’impossibilità di canto, di sacerdozio, di vita. Forse Ermes gli donò soltanto in sogno la possibilità di recuperare Euridice, di rinnovare attraverso la cura del sogno, le sue prerogative che troppo dolorosamente tacevano, annullandogli ogni possibilità di vivere. In sogno forse, gli si presentò il panorama spettrale che doveva contenere tutto ciò che tace: morti e quello che tace come morto, ma che può riaversi. Infatti fu qui che la voce di Orfeo si riebbe, muovendo finalmente in canto al dio dei morti, la domanda che Dioniso pretendeva non fosse posta ad altri che al tempo. “Si narra che allora per la prima volta s’inumidirono di lacrime le guance delle Furie, commosse dal canto. E né la consorte del re, né il re stesso degli abissi, ebbero cuore di opporre un rifiuto a quella preghiera” (21). Gliel’avrebbero ridata, se, come si sa, lui avesse trovato la forza sovrumana di non voltarsi, per accertarsi di essere seguito da lei. Come si sa quella forza gli mancò, come a volte manca la fede. Perché Euridice accompagnata da Ermes lo stava davvero seguendo, ancora avvolta dalle bende funebri e claudicante per il morso. Lo seguiva non viva ma “chiusa in sé come un grembo che prepari una nascita, senza un pensiero all’uomo innanzi a lei, né alla via che alla vita risaliva” (22). Orfeo si risvegliò dal quel sonno alchemico, che l’aveva persa per la seconda volta, che aveva perso per sempre il sacerdozio a cui Dioniso l’aveva consacrato ma aveva trovato il suo canto; “Quel canto che rese la morte, che mai è stata un’estranea, nuovamente conoscibile e tangibile nella sua qualità di tacita complice di ogni cosa viva”(23).
Dioniso non lo perdonò di aver rinunciato al suo pontificato per essere poeta, per essere uomo. Né i sacerdoti potevano accettare che Orfeo si ritirasse nel canto, proprio ora che i re traci, istigati da Aglaonice al culto di Ecate, paravano un vero esercito per l’assalto definitivo ai templi degli altipiani. Lo convocarono, puntando il dito contro la sua assenza al culto, alla realtà, a cui il suo dolore l’aveva sottratto. Che Orfeo non immaginasse l’ira di Dioniso, né che non gli importasse dell’ingiunzione alla sua responsabilità verso i sacerdoti che l’avevano scelto come capo, non è plausibile. È plausibile che nulla gli importasse più del suo corpo, è plausibile che si scelse per il sacrificio dionisiaco dello smembramento come ultima vittima sacrificale per placare Dioniso e ingiungergli protezione per la Tracia, per i traci che si trovavano in balia della strega che anche a lui aveva tolto ogni bene. Non c’erano da radunare eserciti, disse ai sacerdoti all’oscuro dei suoi propositi, sarebbe andato egli stesso a parlare coi re rivoltosi e se necessario con Aglaonice. Avrebbe loro spiegato la sua dottrina, avrebbe forse in quell’occasione trovato la forza, per nuovamente crederci. Che non temessero, la sua eloquenza malgrado tutto, non gli faceva ancora difetto. Scese di notte a valle, perché al culmine di riti che ben conosceva, li avrebbe trovati tutti. Discendendo nel bosco senza luna capì che le baccanti l’attendevano, che già l’avevano fiutato, avvertite da Dioniso, ma non così doveva morire Orfeo. Gli consentirono di arrivare agli accampamenti sull’Ebro, gli consentirono di chiamare a convegno tutti i re e gli uomini pronti a muovere guerra e le baccanti, loro amanti rituali. Quella torma di gente imbestialita gli consentì intorno il silenzio. Quello fu il segno che Dioniso ancora l’amava e ancora l’avrebbe amato perché Orfeo stava consentendo al suo proprio destino di compiersi, così come aveva acconsentito al proprio destino Dioniso, tutte le volte che era morto. Dioniso capì che Orfeo solo del destino dell’amata non poteva consentire il compimento fatale. Come Dioniso stesso non acconsentì mai al destino di morte di sua madre; madre che a Dioniso fu comunque restituita a differenza che ad Orfeo, e per la cui morte, nonostante questo, Dioniso cercò vendetta e non poesia, come il suo diletto. Che ora cantava e ammansiva anche quella gente facinorosa, anche le baccanti che sembravano finalmente donne sedute all’ascolto e non più bestie. Cantava di Euridice che avrebbe presto raggiunto, cantava dell’orrore che gliel’aveva strappata con una mansuetudine struggente, la raggiunta mansuetudine della bestia umana che insegna finalmente l’estasi poter essere cosa dello spirito. A quel canto si convertirono le baccanti, si convertirono i re ma non si convertì Aglaonice, che doveva come Giuda (24) consentire l’omicidio, per amore del suo dio più che di se stessa, ordendo il rito dimostrativo del sacrificio. Rito che potesse essere tanto emblematicamente ingiusto, come ogni morte lo è all’occhio umano; tanto ingiusto da rendere il fatto indelebile nella memoria dei presenti e la fede nell’essere di contro giusto, l’agnello sacrificale, indiscutibile per posteri. Così compì ella da sola tra il pubblico esterrefatto lo smembramento rituale di Orfeo. Con che animo non si sa. Con quale mano neppure: se con mano prestata all’odio per colui che Euridice scelse anziché lei o se prestata dallo stesso Dioniso che tremante compì sul proprio pupillo lo smembramento rituale che tuttora è condannato a infliggere a coloro che sopra agli altri preferisce.

Cantare il gergo

Chi infatti parla con il dono delle lingue, non parla agli uomini,
ma a Dio, giacché nessuno comprende,
mentre egli dice per ispirazione cose misterio
se.
(1 Cor, 14,2)

Parlare in-glossa, significa cioè far l’esperienza in sé stessi,
di una parola barbara,
che non si sa; esperienza di un parlare “infantile”
(…) in cui l’intelletto resta “senza frutto”.

(Giorgio Agaben) (25)

“La narrazione di Orfeo è necessariamente apparenza, ma la sua sapienzialità consiste appunto nel fatto di definirsi come espressione dell’indicibile, del divino, del mistero. È racconto sapienziale perché istituisce un legame tra l’estasi misterica e le parole: che sono parole folli, oscure, infinitamente azzardate, e conservano il contenuto divino nella loro natura inevitabilmente umana” (26). La maturazione in canto della sua esperienza umana sancisce il legame tra l’estasi misterica e la parola che finalmente rende la poesia di Orfeo l’espressione della medianità della natura innata del poeta, la possibilità di gemellaggio del sé col suo doppio diseguale; parola che finalmente renda l’espressione degli opposti che nel quotidiano si sovrappongono come fenomeni apparentemente inconciliabili ma che il poeta vive su di sé con la facoltà di captarne le polarità senza spavento. Polarità per niente sfumate che gli si esprimono per prima cosa dalla nascita, nel corpo. È uno strano suono, un suono straniero, questa alchimia di captazioni ibride che la divinità presta all’uomo come possibile legame tra la propria condizione umana e la sua provenienza inconoscibile, ed è un accenno che deve essere inteso subitaneamente e senza incertezze, così come dall’uomo viene pretesa la fede, senza che ne sia concessa alcuna prova. E’ di questo gemellaggio di cui sente una nostalgia inspiegabile che Orfeo non può scientemente studiare la conciliazione ma deve rendere il suo corpo, cioè il suo esistere umano, come Tobia capace di questa conciliazione estemporanea e deve farlo con la fede necessaria a credere che davvero questa si possa realizzare stabilmente anche se senza preavviso. Per, forse, alla fine trovare sé stesso nel senso plurimo del quotidiano come fenomeno dell’oscura coralità dei gerghi, più che del proprio intelletto. Questo, Orfeo, tenta da uomo mediante l’ascolto. L’ascolto del suo nome come prima cosa, la pronuncia di sé stesso in gergo, nel suo gergo e non nella lingua condivisa. La prima pronuncia del corpo che rimane segreta perché così precoce e pregnante da non trovare nel bimbo un corpo adatto a sostenerne le immagini, e così creando l’assurdo pericolo che rimanga segreta per sempre anche al latore. Segreta o sottesa in una vita che non ne concepisca neanche l’espressione come possibilità.
Ritrovare la memoria di quel nome è iniziare la grammatica del proprio gergo, è iniziarsi all’auscultazione del gergo del creato, ma di un creato soggettivo che passa per la coscienza del poeta, che gli nasce dall’incapacità iniziale di appartenere ad una coscienza collettiva, tanto è intenso il clamore che viene ai suoi sensi come un assalto che all’inizio scoordina e che il poeta dovrà imparare forse a rendere, mutuando un gergo che sappia del ricordo di tutta l’antichità da cui proviene la sua età nuova. Imparare a gemellare nel tempo presente la strana e remota parola, col gergo che gli impongono le cose. Le cose tacciono, non ci palesano la loro voce, come ci palesano la loro forma (27), è in questo vuoto e non altrove che il poeta apprende la sua possibilità di inaudita risonanza. È nel suo azzeramento, nel suo parificarsi per inclusione, in tutto quello che lo circonda, che si ricrea nel corpo quella dubbia, quella risibile pontificazione che per assurdo arriva a verità che solo la poesia nei tempi ha dimostrato di sapere approdare.
Se la lingua è una maschera, maschera di una maschera è la lingua straniera (28). Lo straniero, Dioniso, il dio, pone la maschera sul volto di Orfeo. La pone sul volto del poeta perché Orfeo è colui che in modo innato si pone in relazione con l’incomprensibilità dello straniero a partire dal suo stesso gergo, all’esordio incomprensibile a colui che ne è la fonte. Il poeta è colui che per pura necessità di relazione cerca lo straniero; lo cerca per il bisogno dato dal suo nascere e vivere in un corpo che è uno spazio limbico e che invece di riprodurre per imitazione il mondo che lo circonda, riproduce all’infinito la sospensione del tempo condiviso. Così come Dioniso riproduce, al di là del tempo lineare, all’infinito l’atto di smembrarsi, l’atto di smembrare fermando una realtà che invece diviene, chiamandosene fuori. È per questo che all’inizio Orfeo collude col dio, ne diventa pontefice pensando il suo isolamento naturale, con lo studio della religione, passibile di trascendenza. È per questo che da uomo coglie il suo limite invalicabile solo davanti alla prova limite che è la morte, la morte peggiore, quella dell’altro.
Secondo Ovidio, Orfeo come fosse una divinità o come fosse un uomo che lo divenne grazie ai suoi studi egiziani, non morì. Ma la sua testa e la sua lira, gettate nella acque del fiume, continuarono cantando la discesa lungo l’Ebro, fino a raggiungere il mare e poi approdate all’isola di Lesbo, furono difese dall’intervento di Febo, dalle fauci di un serpente, accorso per nutrirsene. Sempre secondo Ovidio questo transito canoro fino a Lesbo, riuscì a infiltrare l’ombra (29) di Orfeo sottoterra, fino a Euridice. L’ombra filtrò la terra, grazie al potenziale cangiante della luce, della vita che smorza la sua materia in altro. E forse proprio l’ombra, il doppio diseguale di quella luce che Orfeo in Egitto aveva appreso significasse il suo nome e valere come cura, finalmente gli fu non estranea al buio, non estranea alla pace.


Note

(1) Kirkegaard S., La ripetizione, a cura di Dario Borso, Rizzoli 1996, p. II. Tratto da Miglio C., Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, Quodlibet 2005.
(2) Ferrari A., Dizionario di mitologia I, Istituto Geografico De Agostini 2006.
(3) Schuré, I grandi iniziati, Mondolibri 2005, p. 162-165.
(4) Schuré, I grandi iniziati, Mondolibri 2005, p. 182.
(5) Inno primigenio da cantare con profumo di mirra, cit. da Zolla E., I mistici dell’occidente I, Adelphi 2003, p. 114.
(6) Rilke R.M., Lettera a G. Ouckama Knoop, cit. Commento, I Sonetti di Orfeo, Poesie 1907-1926, Einaudi 2000, p. 686.
(7) Calasso R., Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi 1992, p. 48.
(8) Calasso R., Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi 1992, p. 341-42.
(9) I cenni relativi alla storia politico religiosa dell’Egitto sono stati tratti da: Filoramo, Massenzio, Raveri, Scarpi, Manuale di storia delle religioni, Mondolibri 2003, p. 39-66 e Grimal N., Storia dell’antico Egitto, Edizioni CDE 1998, p. 50-56.
(10) Schurè, I grandi iniziati, Edizione Mondolibri 2005, p. 166.
(11) Plutarco, de Iside et Osiride, tratto da Filoramo, Massenzio, Raveri, Scarpi, Manuale di storia delle religioni, Mondolibri 2003, p. 39-66 e Ferrari A., Dizionario di mitologia I, Istituto Geografico De Agostini 2006.
(12) Filoramo, Massenzio, Raveri, Scarpi, Manuale di storia delle religioni, Mondolibri 2003, p. 39-66.
(13) Ovidio, Metamorfosi, Einaudi 1994, p.387.
(14) Ovidio, Metamorfosi, Einaudi 1994, p.387.
(15) Magli I., Il mulino di Ofelia, Bur 2007, p. 52.
(16) Magli I., Il mulino di Ofelia, Bur 2007, p. 54-55.
(17) Schuré, I grandi iniziati, Mondolibri 2005, p. 181-86.
(18) Schuré, I grandi iniziati, Mondolibri 2005, p. 181-86.
(19) Rilke R.M., Poesie 1907-1926, Einaudi 2000, p. 109.
(20) Citati P., La luce della notte, ed. CDE 1996, p. 36.
(21) Ovidio, Metamorfosi, Einaudi 1994, p. 389.
(22) Rilke R.M., Poesie 1907-1926, Einaudi 2000, p. 109.
(23) Rilke R.M., Lettera a Caroline Schenk von Stauffenberg, cit. Commento, I Sonetti di Orfeo, Poesie 1907-1926, Einaudi 2000, p. 685.
(24) Lc 22,47-49.
(25) Agaben G., Pascoli e il pensiero della voce, cit. Cortellessa A., La fisica del senso, Fazi Editore 2006, p. XXXIII.
(26) Rilke R.M., cit. Commento, I Sonetti di Orfeo, Poesie 1907-1926, Einaudi 2000, p. 692.
(27) Rilke R.M., cit. Commento, I Sonetti di Orfeo, Poesie 1907-1926, Einaudi 2000, p. 695.
(28) Giudici G., Il male dei creditori, cit. Cortellessa A., La fisica del senso, Fazi Editore 2006.
(29) Ovidio, Metamorfosi, Einaudi 1994, p. 429

Viviana Scarinci è nata nel 1973. “La Nascita del poeta” è parte di un saggio tuttora in lavorazione. Il primo capitolo intitolato Nascita della Madre può essere letto sul sito web Liberinversi, inoltre è presente la totalità delle sillogi Diaria dell’Interezza e Teurgia Casalinga. Sul sito web Nazione Indiana  sono pubblicate Il Luogo Contrario dell’Osservanza e L’Epica del Posto. Sue poesie sono uscite per «Nuovi Argomenti», «Gradiva», «Atelier» ed «Il Segnale».

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Shemssi e Segreto

di Claudio Pagelli

Shemssi

a Chiara

“ciò ch’io adoro in te. è il
segreto, è la vita”
(Manuel Bandeira)

“terra d’aprile”

sei fatta d’aprile e di qualche
cielo lontano e ridi come ride
il vento fra gli aranci
quando tutto è caldo come sabbia,
quando tutto respira profumi
di terra buona

“bocche”

nella tua bocca
vive segreta la mia parola,
la domanda che importa – vela bianca sulla lingua –
brucia lo stesso mare
che ci succhia il fiato,
e una stella ci scruta curiosa
dai suoi occhi di sola luce
……………………………
nella mia bocca
scorre un fiume d’acqua buona,
alfa e omega
il mare bianco del tuo nome


“l’angelo”

colmi, lo sai, i miei abissi che
hanno radici, precipizi nel magma
inumano della terra.
arrivi, lo so, da un cielo lontano a
ripetere un canto di luce
anche alle orecchie delle notti più sorde

“come fiori”

siamo fatti per essere muti
come i fiori, a che serve, mi chiedi,
la parola
se un gesto già racchiude il mare,
se svapora ogni segreto
al sole buono di un abbraccio?
è nei tuoi occhi il seme d’acqua
che salva il sangue dal deserto,
che riprende fiato
la gola dell’universo

“nei tuoi occhi”

è nei tuoi occhi, non altrove
che indovino ori di città perdute,
terre riemerse chissà da quale mare…
che s’apre il grande fiore di magnolia
nel suo bianco senza indugi –
è nei tuoi occhi, non altrove
che scorre luce ancora calda di magma,
che porta la visione
del centro esatto delle cose, dove tutto ride
in un guscio di sole

“il pesce sognatore”

le tue parole sono brine, brividi
che mi salgono le carni,
canti che salvano
dal buio che divora.
e tu, sorriso del mio cuore,
del mio sangue
che ha incontrato abissi e murene,
sei lingua di luce
nella mia grotta segreta
dove guizza nell’acqua azzurra
il pesce dagli occhi d’oro
che sogna, lo sai, un solo sogno –
i volti nudi, le sillabe del tuo nome


“shemssi”

se ti apro le labbra
è per vederti fiorire
nel segreto che celi.
le dita sono draghi leggeri
che ti leggono la pelle
nel cammino del fuoco.
questa vampata bianca
è l’ultimo sorriso che ci rimane,
fra le mani si sbraca
la pesca del tuo amore –
cola a fiotti l’acqua della tua polpa
(è acqua sacra, mi lava la bocca)
e tutto vibra e riluce
nel canto dei tuoi occhi
ebbri di menta e di miele

Segreto

“e ubriacarmi dell’odore di legna
nel profondo del bosco”
(Fabio Pusterla)


“il bosco”

dove i fantasmi, i fuochi delle streghe
e le loro case segrete? nere
le pietre del sentiero non portano
orme certe, solo magri consigli,
mute tracce scavate negli artigli
dei tronchi, fra i sassi sparsi dal caso
o appena sotto la ruggine delle
foglie assopite. si cerca, s’annusa
l’aria buona, la resina che cola
lentissima dai rami. gli occhi gialli
della civetta ci scrutano dalla
quercia, vigili al fruscìo dei passi,
già la bruma sorveglia le nostre ombre,
il sangue brontola nello stomaco
la distanza del ritorno, il buio
che divora, lo strappo del bavaglio…
fra filari di ontano nero, ignaro
un riccio sogna nuove primavere.


“il gufo”

affilare i sensi
come lame di coltelli
credimi è l’unica guerra santa
contro la dittatura
della nebbia…
contare i passi,
ricominciare dagli inciampi
col sangue che ci sporca le mani.
voltare pagina a pagina
il grande libro del mistero
con la pazienza di un gufo
che attende fra i rami
l’occhio della luna.


“la volpe”

dirti, dirti
dovrei
parole di foce
parole d’acqua che consolino
la visione.
lasciar scorrere, passare oltre
l’inciampo della polvere
che strozza la gola delle vergini.
dirti dovrei, lo so,
dei segni segreti,
dell’abitudine
della luce
a resuscitare specchi antichi.
l’invenzione
è mille volte più astuta
di una volpe – fugge, si nasconde
tra le foglie dei versi, sotto i sassi
dai nomi illustri….
e vuota ancora
è la trappola
nel bosco della parola.

Claudio Pagelli (foto di Mauro Montini Bellosio) nasce a Como nel 1975. Autore de L'incerta specie (LietoColle, 2005, prefazione di Manrico Murzi) e Le visioni del trifoglio (Manni, 2007, prefazione di Fabiano Alborghetti). Sue poesie compaiono in riviste ed antologie, premiato in vari concorsi di interesse nazionale. Presidente dell'Associazione culturale Helianto, vive e lavora a Rovello Porro, nel Comasco.

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Variazioni

di Enrica Musio

IL TRENO DELLA NUOVA VITA
(27 gennaio 1945)

Traghetto come tanti in questo strano treno,
e mi porta solo verso un brutto campo di concentramento
dove oggi combatto la mia battaglia
per la nostra cara razza
gli ebrei
sibilano le ruote
verso i fari bui dei binari
le pallide ciminiere
nessuno ferma questi vagoni carichi di
bestie solo ratolanti
donne e bambini
e lamenti di storpi
il treno della nuova vita.

(a tutte le vittime dei campi di sterminio)

Poesia segnalata al concorso “ Borgo Ligure” – La Spezia.
Variazione poetica della poesia Train de vie del poeta Luca Ariano.

MI RACCONTI

La memoria è una cucitrice tanto capricciosa,
fa correre solo il suo ago qua e là
non sappiamo mai cosa
ne seguirà
la vita non è mai in ordine alfabetico
sono delle briciole e non sai come
raccoglierle
è un granello di sabbia
ogni essere è un
esistente irrepetibile
agli accidenti delle sue intenzioni
ai soli capricci del destino.

(Poesia ispirata da poesia di Virginia Wolf, da una poesia di Antonio Tabucchi, e da una poesia di Cavarero)


LUCI LONTANE

Innalzava le assurde parole,
un orologio singhiozzava
solo mare notte
e luci lontane
un dolore a muro
tangibile
stelle assenti.

(Poesia vincitrice di un decimo posto al concorso “Verso il futuro - Città di Avellino”)

D’INTESTINO E DI FEGATO

Solo il rospo di fogna mi covava dentro al fianco,
i nervi consumati
portami la spugna
e portami la geometria
stipiti di porte
bisturi
liquame verde-nero
le righe
la colla delle gengive
lo smalto
il vuoto della zolla.

(a mia sorella Ilaria operata per una occlusione intestinale)

***

Le vie delle nuove case difronte a me studio,
gli sguardi della gente
la mia mancanza di fiato
finestre sfuocate
il pensiero della parola che non vedo
le mie camminate nostrane
le mie dimenticanze
le mie orme
il poco spazio
che svela a te
solo lo stomaco
il cuore
e poche mie dita.

***

Quando solo tu non sei,
una descrizione di una immagine
una virgola
ne diviene una mia lacrima
sul foglio
così poco fragile
il colore sulla tela
buia.

(a paolo calissano, a elena ferretti)
 

Enrica Musio è nata a Santarcangelo nel 1966. La sua prima pubblicazione, la silloge “Sarà da poeti il futuro” è stata inserita in Antologia Pubblica (Fara 2005). Nel 2006 ha pubblicato con Fara Dediche sillabiche.

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Su Il gatto e la falena di Maria Pina Ciancio
(La Bottega della stampa, Potenza 2007)

recensione di Vincenzo D'Alessio

Alla mia gente / e ai miei luoghi / discreti e imperfetti che profumano a sera di malva e rosmarino sono le parole in epigrafe alla raccolta Il gatto e la falena della lucana Maria Pina Ciancio. Una raccolta poetica arricchita da perfetti disegni del pittore Cosimo Budetta già noto per altri volumi pubblicati con autori famosi – a noi piace ricordare La legge del cortile in collaborazione con Gianni Rodari.
Versi molto complessi, assordati da un silenzio che ruota vorticosamente come una falena, invisibile ma persistente, che chiede comprensione, dialogo intenso affidato più agli occhi che alla bocca.
Ho trovato impervia la strada che conduce alla forza della costruzione poetica, poiché il verso è contratto da una forza generatrice di sé stesso tanto forte da sembrare d'inciampo: “Una notte d'inchiostro /
non basta a cambiare la vita” (p. 7); “Ho gli occhi freddi / di parole riscritte / fino all'asrazione / dell'incomprensione” (p. 52).

Il titolo delle poesie, per la maggior parte, è esso stesso parte della composizione. Gli ossimori, le pause, le ripetizioni tematiche, formano uno spartito che “il gatto”, tanto amato dai poeti, contende alla “falena” piccola, leggera ed estremamente vivace, il solfeggio di un mutamento ancestrale della parola verso una formulazione più ampia, più corposa, desiderosa di superare “la notte”, “la sera”, “il buio”, “il tramonto”, insomma tutto quello che oggi sembra comporre il finito.
C'è l'aspirazione all'infinito enunciato nella epigrafe apposta alla raccolta e ripetuta in questi versi: “Portatemi via tutto / (i sogni, l'anima, la felicità) / ma lasciatemi in segreto / la parola per ricominciare” (p. 26).

Oggi tutto quanto appartiene alla poetessa Ciancio è “discreto”, saporoso come la malva e il rosmarino, piante dai forti sapori ed umori, tracce di un Mediterraneo che va scomparendo verso una sera che nessuno di noi, meridionale, vorrebbe si realizzasse. Ma le forze in campo non sono solo quelle della poesia.
Vorrei accostare questa poetica a quella di altre poetesse contemporanee ma l'originalità che persegue non mi consente facili accostamenti. Credo nell'originalità di questa ricerca del versificare avvicinandola a quella di poeti nazionali che hanno avviluppato le loro radici nel meridione: Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Teresa Armenti, Emilia Dente.
So che la critica ad una raccolta tanto significativa, come è un'opera prima, è veramente difficoltosa. Vorrei augurarmi di essere tra quelli che hanno fatto levare quel vento dolce del sud e fanno dire alla nostra autrice: “(…) Quando inciampo / all'ombra del mio cappello / e non so dirvi più chi sono // sono sempre io” (p. 59).

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Erba mobile

di Johan Pesaresi

erba mobile
ke lenta rotola
spinta dal vento dell'esistenza:
questo siamo

***

meglio avere un sasso nel petto piuttosto ke un cuore senza appigli

***

nn sono un poeta né uno scrittore
sn solo triste
conduco un'esistenza votata al grigio
vuota mescola d'emozioni
inutile farsa d vita
sperando ke qualcuno ricordi con dolore
la mia esistenza
nn rendendomi conto
nella normale ottusità dei viventi
d quanto sia decadente la situazione
nn rendendomi conto
della forza ke realmente si può dimostrare
quando si cancella la tristezza
quando si ha qualcosa x cui lottare
quando si ha qualcuno da proteggere
nn ideali
niente d'assurdamente astruso
niente d grigio
ma luce o tenebre da portare…
qualcosa d'arrogarsi
senza capire
ke quel momento d'egoismo
è forse
l'unico vero atto d'altruismo
senza capire
ke la verità ke tanto cerchiamo
è l'unica cosa ke ripudiamo
solo x egoismo
solo x debolezza
nn possiamo cambiare il mondo
nn possiamo osare le stelle
nn fa x noi…
x un semplice fatto materiale
x un semplice fatto d'idea
siamo solo puntolini nell'universo d vite ke c attorniano
ma un fuoco arde
nei recessi del nostro cuore
obbligandoci a marciare contro gli orrori
ke c attendono alle fine del viaggio…
orrori ke il più delle volte siamo noi a creare
orrori ke il più delle volte
attribuiamo ad altri…
perdendo via via
il discernimento d noi stessi
diventando via via
grigi e vacui
senza più nulla e nessuno in cui credere
senza più nulla e nessuno x cui combattere
in attesa
dell'inevitabile morte
credendo sia una liberazione
sperando porti giustizia
solo per il fatto ke nessuno è mai riuscito ad ammansire quel fuoco
solo per il fatto ke x evitare d bruciare gli altri
hai bruciato te stesso
quell'amore
quel dolore
quelle idee
quel fuoco
nn è grigio
nn è vuoto
fa paura
spesso t aliena dagli altri
spesso t fa scontrare con gli altri
spesso t esclude dagli altri
donandoti una solitudine
ke nn desideravi
ke odi
ma tuttavia…
nonostante s arrivi ad estraniare sé stessi dagli altri
e persino
ad estraniare sé stessi dalla propria vita
lui nn smette d bruciare
torna sotto forma d ricordi e sensazioni
e mai t abbandona
unico appiglio
d una vita senza apparente motivo d'essere
fiamma temuta
l'anima…

***

esistenze simili al nulla, noi siamo.
privi di sensi con cui effettivamente discernere.
nuove albe si levano
nuove speranze muoiono.
ciò ke ritenevi possibile si sbriciola
certezze in cui confidavi seguono la stessa via.
le cose ritenute importanti acquistano nuovi aspetti
e ne perdono altri ritenuti fondamentali in passato...
:)
reazioni molteplici
possibilità molteplici
tutto ciò diventa futile
tutto ciò diventa etereo.
azioni ke si comprendono ma nn si attuano
x stupidità
x orgoglio
praticamente sempre x un solo motivo…
continuando ad arrancare
qualcosa ke nn si comprende e a volte ripugna
continuando a lottare.
qualcosa ke quotidianamente sferza l'anima
riducendo sogni a speranze vacue
riducendo speranze a ricordi
nullificando col tempo
cose e sentimenti.
portando l'essere sull'orlo dell'alterazione.
assurda sensazione d frustrante vuoto
...
affanculo platone e il suo mito delle metà!
esse nn tengono conto d interazioni e d alcuni dei sentimenti trascendentali senza nome d cui è composto l'amore
o forse nn lo comprendo appieno… :)
tuttavia
mi limito ad esistere.
e nn mi basta più…

***

vuoto
paura
… la paura lo condurrà al lato oscuro.
yang.
altro nn si sa.
la luce acceca?
se no xké le si volgono le spalle?
x scrutare l'oscurità?
xké essa attira a sé la gente con la sua malia.
o è la luce a spingerci verso essa?
nel buio la vista si abitua e più nn si guarda la luce
xké il suo bagliore sarebbe ancor più insopportabile.
vuoto.
in entrambi i casi si è ciechi
cambia l'atmosfera.
e le sensazioni si acuiscono.
luce o oscurità?
da lontano la differenza è ovvia.
ciechi sordi a volte muti
uomini.
effimere esistenze inconsapevoli.
paura…
alcuno guida..
smarrirsi nella vacuità..
nessuno capisce..
nascondino..
null'altro è..
abiti di suoni..
aureole al neon..
uno specchio?
convinzione..
yin o yang?
dove mi trovo?
dove sto andando?
scontato.
controllo?
conoscenza?
convinzione!?
frustrazione.
azioni volte al nulla..
sempre torna..
nn c'e dove andare
nulla da fare restando.
convinzione?
vuoto.
paura.
motivazione.
pavido inutile.
sul buio crepaccio le convinzioni.
nulla a sostenerle.
continuano a cadere come le anime nell'ade.
xké?
scontato.
cosa spinge?
nulla forse.
o tutto
distinzioni.
luce ombra o oscurita?
tutto svanirà.
marciare sempre dritto senza esitare mai.
dove si marcia?
leghe
miglia
ruote
chilometri
parsec
eoni.. percorsi..
l'ambiente muta..
l'animo no..
giustizia..
giustizia?
bene e male
xké?
scontato?
forse no..
sensazioni.
vuoto risucchio..
vento..
foglie al vento volano..
dove cadranno?
alberi al vento
percossi
le lasciano cadere..
lacrime..
apatia..
la terra resiste e continua a nutrire
nulla xò puo evitare la loro caduta..
destino?
foglie alberi frutti..
cosa?
carne?
pesce?
come?
xké?
cognizione.
alberi abbattuti
frutti, lasciati muffire.
semi sui sassi.
spreco?
destino?
probabilità e caos..
interessamento e repulsione..
indifferenza..
nn c'è paura nell'indifferenza..
abiti di suoni
aureole al neon..
nn c'è paura nell'indifferenza??
nn c'è vuoto nell'indifferenza..
anke se fosse nn m'interessa..
nn c'è vuoto nell'indifferenza?
menzogne allo specchio.
pavido inutile..
rifrazione…
convinzione d giustizia
convinzione d luce
azioni..
l'animo corre lontano..
quando t accorgi ke si muove
esso è già all'orizzonte
guarda avanti..
e sorride..
ma nn a te..
nn d gioia..
cinismo
frustrazione
migliaia di azioni motivate
pochi risultati
motivate?
comunque risultati…
comunque aridità..
ma nn ho paura..
nn m'importa..
passerà..
guardo meglio l'immagine allo specchio
nn sono io..
sarò cambiato?
probabile..
forse..
forse no
vuoto..
nulla riflette lo specchio..
i suoni nn si riflettono..
vampiri bevono
dall'anima..
sussurrando parole ingannevoli..
andrà tutto bene..
nn serve preoccuparsi..
le sensazioni contrastano..
complimenti riflessi..
foreste d'io sono..
suoni..
vento tra gli alberi
sibila
via t conduce..
essere o nn essere?
essere e nn essere
essere è nn essere..
nn sono bravo
nn sono cattivo
nn sono giusto
nn sono iniquo
sono..
un sasso.
tedio..
mi costringo a guardare
e molto
realmente nn m'importa...
altri sono suoni..
ma lo specchio riflette
princìpi?
esso ride d me con il mio volto
basta cosi poco
x nn essere riflessi
l'apparenza
due specchi d fronte con te in mezzo
sempre più piccolo
si cerca d capire qual'è
quello in fondo..
ma ciò nn è nello specchio
quello in fondo
è fuori dallo specchio
nei risvolti della propria anima
allora mi accorgo d nn riflettermi..
risonanze dell'ego senza ragion d'essere
lo specchio nn riflette..
l'essenza rimane
la vedi e ti vedi
li
e nello specchio…
fatica..
fatica?
difficile trovare il coraggio x guardarsi in faccia
ancor d più il riuscire a vedersi..
fatica.
ciò ke nn sono
porta vuoto
ciò ke nn sono
porta paura..
ciò ke nn sono
nn accetta ciò ke sono
si è costretti a nn accettare l'essenza
dall'indifferenza..
odio
invidia
la tua immagine si riflette!!
xke la nostra no?
tanto nn m'importa…
la tua immagine è brutta..
meglio n essere riflessi piuttosto..
io sto bene nn riflesso vedi?
tu sembri stanco...
malato..
stai lontano essere definito..
nn vorrei ke mi contagiassi!
infinita tristezza…

***

la nostra è una generazione di foglie al vento!
appena il tempo inizia ad imbrunire
perdiamo speranza e ci lasciamo morire
non credendo nell'estate che verrà
riportando il sole.
così cm le foglie alla fine dell'estate iniziano a seccare
anche noi
appena le cose cambiano
lo avvertiamo
e dopo breve tempo
come foglie ingiallite investite dal vento
ci lasciamo trasportare via
staccandoci dall'albero che ci dava la vita
inevitabilmente morendo..
perché se il tempo è brutto ora..
non potrà migliorare di 'sti tempi
tanto vale perdere interesse
e morire
ignorando la verità
vuoi per debolezza
vuoi per colpa delle ferite subite
non vogliamo renderci conto
che non siamo foglie
che non è il vento a spostarci

siamo giovani piantine
in una fitta foresta
se vogliamo ricevere luce
dobbiamo spingerci più in alto
soffocando a volte
creature più deboli
arrancando alla cieca
verso ciò che crediamo sia calore
verso ciò che crediamo sia luce
verso ciò che crediamo necessario alla nostra vita
cercando di non crescere storti
spingendo le radici ben a fondo nel terreno
per fare in modo di non crollare sotto il nostro stesso peso
per fare in modo che le intemperie non ci trascinino via
per vivere
spietata competizione
la vita
odio la competizione
odio la vita
odio me stesso
odio l'odio
non posso fare a meno d'odiare
non posso fare a meno d'illudermi
che la speranza esista
odiando poi la triste verità
se il terreno in cui hai le radici è colmo di sassi
che ti feriscono
se l'acqua che ricevi dal cielo
è avvelenata
come puoi sapere
se al di sopra di tutti gli alberi ci sia davvero qualcosa
per cui vale la pena lottare?
di chi ti fiderai?
noi non siamo piante
noi veniamo al mondo soli
ce ne andiamo soli
e per tutta l'effimera durata della nostra vita
cerchiamo di scongiurare tale solitudine
mentendo a noi stessi
credendo
sperando
di trovare
una metà
che in realtà
è dentro di noi
e più cerchiamo d'amare
più odiamo
ritrovandoci infine
ad aver dimenticato
cosa significa amare
ritrovandosi infine ad essere
futili creature
incapaci persino di vivere
anche solo per se stessi
aspettando con timore reverenziale
la fine di questa follia
il termine delle emozioni
ingannando ancora sé stessi
con la speranza
l'unica speranza sicura
l'unica certezza
in questa esistenza dannata
la morte.

Johan Pesaresi è nato il 13/03/1984 a Forlì. Non ha studiato un cazzo di niente perché niente valeva la pena di essere studiato in maniera teorica, dato ke la vita è la più grande insegnante (seppur crudele e senza scrupoli) ed è riuscito a passare l'esame di terza media solo per la presenza. Anche se attualmente odia SE STESSO e ne dà la colpa all'umanità s'interroga insistentemente sul comune destino degli uomini cercando una via per la comprensione dell'essere nelle sue molteplici forme, ma, nonostante tutto, questo nn lo porta certo ad essere tollerante, anzi… in poche parole è un testa d cazzo ke si crede meglio d tutti solo xké spesso agisce in funzione dei suoi ideali.


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L'anello del re salomone

di Costantino Loprete

Quando modificava il gergo
quello era l'individuo
gli oggetti si sono creati
contemporanei e sol quando
ti gira trascorre il tempo
intorno a una gravità reale
che incorpora il vento da cui
sei fuori da tutto.
non è il fiore che non muore
e tutti cercano il nome
la panacea, che impedì il futuro
chiudendo una porta, il mio si
tagliava con una mano sbilenca
in testa, la destra come flag
ma guidavo io era la sinistra
era a destra era la destra
lavorare più o meno tutti
lavorare più o meno, un su
ricordo sbagliato per uccidere
uno sforzo del pensiero
per la vita di tutti.
custodire il comune patrimonio
della storia nelle cose
considerata anche la psicocinesi
è un dovere per dimenticare.

Costantino Loprete vive a Salerno dove è nato da lucani (padre camionista di lingua italo-albanese, madre casalinga). Docente di fisica nella pubblica scuola superiore. Fuma però non divaga sogni; fotografia, cinema. È stato inserito nella nostra Antologia Pubblica.

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Riflessione sul brano del Vangelo di Luca 6,12-39

di Bernardo Francesco Maria Gianni

Siamo alla vigilia della Pentecoste, la solennità in cui la Chiesa inizia il suo compito di rischiarare la storia del mondo, custodendo la rivelazione ricevuta dal Signore e trasmettendola a tutta l'umanità come evento che si ha e si rinnova quando le persone, i cuori, si stringono, si parlano nel nome della speranza che è il Signore Gesù. Luca ci fa seguire i movimenti di Gesù; i suoi gesti di azione che risanano con la parola; di scelta degli apostoli frutto di una nottata di preghiera: “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli…” (cf Lc 6,12-16). Una scelta che ci vuol tramandare, attraverso la successione apostolica, questo misterioso dialogo di pienezza che c'è tra il Figlio e il Padre. Le beatitudini che ci accingiamo a meditare, non sono una precettistica per farci ricadere nella schiavitù di chi guarda a un Dio esigentissimo, ma al contrario sono una prospettiva che parte dal dialogo del Padre con il Figlio e che ha come elemento cardine lo sguardo che il cristiano ha sul tempo, sulla nostra storia. Per capire questo, che è fondamentale, bisogna soffermarsi sul risvolto teologico delle cose che Luca ci ha narrato. Gesù nella sinagoga legge il rotolo di Isaia che dice: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione…” (cf Lc 4,18-19).
Luca, dunque, ci narra una novità; la Lettera agli Ebrei ci dà una lettura teologica di questa novità: “Dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni (che sono gli ultimi secondo una traduzione migliore), ha parlato a noi per mezzo del Figlio…” (cf Eb 1,1-2). Quindi la Lettera agli Ebrei ci dice che questi giorni che noi viviamo sono gli ultimi, nel senso che s'inaugura un tempo ultimo in Cristo con segni prodigiosi: la guarigione di sabato, il perdono e la guarigione del lebbroso, la guarigione del paralitico. Questa legge di carità, eccezionale e sconvolgente, implica che è entrata nella storia una forza nuova con l'incarnazione di Gesù che è inizio di un'età nuova nello Spirito Santo, ma anche il suo compimento.
Gesù con la sua venuta ha perdonato l'umanità e in forza di questo perdono gratuito possiamo leggere le beatitudini con fiducia, perché siamo stati visitati dall'amore di Cristo che ci ha introdotti in un tempo nuovo. Questa prospettiva delle beatitudini raggiunge una moltitudine che è già universale “C'era una gran folla di discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea… dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie…” (cf Lc 6,17-18). Ma anche dalle nostre malattie! È un Dio che sta provando ad entrare come fermento nuovo nella nostra interiorità, perché i nostri giorni sono gli ultimi come dice la Lettera agli Ebrei. Le persone intuiscono che c'è un amore all'opera: “Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti.” (Lc 6,19). Luca vuol darci la percezione che quest'uomo qualsiasi cosa dica, qualsiasi parte del suo corpo si lasci toccare è novità che guarisce. “Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva: Beati Voi poveri perché vostro è il regno di Dio.” (Lc 6,20). Guarisce e si rallegra con coloro che riconoscono come nella logica del Vangelo la povertà sia oggetto del compiacimento del Signore, che non vuol dire affatto che la povertà sia bella e augurabile! L'aspetto fondamentale di questi versetti sta nel cogliere come Gesù sia venuto a guarire tutti noi, ricchi e poveri, dalle nostre sicurezze con la sua forza risanante, perché tutti in realtà abbiamo fame, piangiamo, siamo persone nella dimensione della fragilità. Questo non significa disprezzare una lettura che Luca ha molto a cuore, e cioè del rispetto dei fratelli oggettivamente poveri, perché le comunità cristiane sono luoghi di condivisione. Siamo di fronte a una realtà che è inaugurata da Gesù ma non è ancora compiuta: “Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati.” (Lc 6, 21).
Gesù ci educa ad avere fiducia nella storia, fiducia nel tempo, che però non vuol dire rassegnazione perché più avanti ci indica il comportamento concreto da adottare nella vita di tutti i giorni, che è di amore, di condivisione, di gratuità, di perdono. Sono versetti impegnativi e complessi perché il Signore ci educa a restare con i piedi per terra ed a fare in modo che il minor numero possibile di persone abbia fame su questa terra, ma allo stesso tempo ci dice che non ci sarà mai pane sufficiente per saziare il nostro cuore. E così anche l'afflizione con cui Gesù ha seguito le tormentate vicende delle sua comunità, promettendo di essere a fianco di coloro che sono nella prova: “Beati voi… quando vi metteranno al bando… e respingeranno il vostro nome come scellerato…” (cf Lc 6, 22). Questo è un problema di un'attualità straordinaria, perché non può esistere una società, una cultura, un sistema politico capace di capire fino in fondo la novità di Cristo ed è un dramma quando si propone il cristianesimo come modello culturale del nostro Occidente: sembra una conquista ma in realtà è un impoverirlo, perché c'è sempre uno scarto! Quale legislazione civile potrebbe accogliere nella sua logica statuale una legge siffatta: “Amate… i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla…” (cf Lc 6, 35). E il cristianesimo in qualche modo è il sistema culturale del nostro Occidente, ma bisogna fare attenzione a non depauperare questa parola così irriducibile ad una legge puramente umana, perché in Gesù c'è un di più: “Da' a chiunque chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo.” (Lc 6, 30). Questi versetti ci stanno di fronte come uno sprone; una tensione per l'aspetto dinamico che lo Spirito Santo ci dona: perciò come cristiani dobbiamo introdurre la logica della testimonianza evangelica che non può non cozzare con l'ordine stabilito e con i potenti del nostro tempo che hanno bisogno della religione per legittimare le loro sicurezze. Oggi si ricorda un grandissimo Papa (Gregorio VII, 1073-1085, Ildebrando di Soana in Toscana), che davvero ha fondato la laicità della cultura dell'Occidente ricordando che c'è un dominio temporale, quello dell'Imperatore, cui va tutto il rispetto, ma c'è un piano spirituale che ha una logica che l'Imperatore non può avere. Quindi è bene distinguere questi ambiti per il bene e l'efficacia della nostra testimonianza cristiana, perché essere cristiani è un'impresa molto complessa e questi versetti ce lo ricordano.Tutti siamo chiamati alla logica dell'amore, e ognuno di noi saprà come e dove attuarla con la forza della preghiera, leggendo la parola del Signore e custodendola nel proprio cuore.

Bernardo Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia di San Miniato al Monte:
Monaci Benedettini di Monte Oliveto
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze

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