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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 108
febbraio-maggio 2009

Editoriale: Ultimo numero

Oltre al sito, ai due litblog (farapoesia e narrabilando) e agli spazi su facebook potete trovare nostre news nel gruppo dedicato.
Questo Faraenews vi offre alcune poesie e versioni di Stefano Cervini, una poesia e un saggio sul siciliano di Marco Scalabrino e le sempre acute parole e meditazioni di Dom Bernardo Gianni. Vi ricordiamo che questi sono gli ultimi giorni per partecipare alla VIII edizione del concorso Pubblica con noi un concorso che grazie al competente lavoro dei giurati sa individuare voci poetiche e narrative intense e belle.

orme

foto con orme di uomo, cane e cavallo di Cecilia Caprettini

Versione da Lucrezio e poesia

di Stefano Cervini

Dal Proemio del De Rerum Natura, Libro I di Tito Lucrezio Caro

Madre degli Eneadi, diletto degli uomini e degli dèi,
Alma Venus, che sotto le fugaci stelle del cielo
pervadi i mari su cui scivolano le navi e le terre
che traboccano di messi, giacché grazie a te ogni vivente
è concepito e levatosi guarda la luce del sole, 5
te, dea, te fuggono i venti, te le nuvole del cielo
e l’avvento tuo, a te il suolo emette solerte
i fiori soavi, a te sorride l’acqua del mare
ed il cielo placato risplende di luce diffusa.
Ed in verità non appena appare il volto primaverile del giorno 10
e liberato si avviva l’alito fecondo del Favonio,
prima gli uccelli dell’aria annunciano te, o dea,
ed il tuo arrivo, colpiti al cuore dal tuo impeto.
Poi animali domestici e selvatici saltano per pascoli floridi
e guadano torrenti che travolgono; così compiaciuto 15
ognuno con desiderio ti segue dove insisti a condurlo.
Infine per mari e per monti e fiumi rapaci e dimore
di uccelli frondose e verdeggianti piani,
infondendo in tutti i petti le seduzioni d’amore,
fai sì che nel piacere ogni specie si perpetui. 20
E poiché tu sola guidi le geniture e senza di te
nulla sorge ai lidi divini della luce,
nulla diventa lieto, nulla piacevole,
ti cerco vicina nel comporre quei versi
che mi accingo a cantare sulla natura delle cose 25
per il Nostro che è della Memmia gente,
il quale tu, o diva, hai voluto eccellesse di ogni merito.
Dunque ancor più, dea, dà ai detti miei fascino eterno.
Non di meno fai in modo che per i mari e per le terre tutte
assopiti si acquietino i feroci uffici militari. 30
Tu sola infatti puoi giovare ai mortali con pace
tranquilla, giacché della guerra i feroci uffici
regge Marte, potente d’armi, che spesso, sconfitto
da una eterna ferita d’amore, si abbandona sul tuo seno
e così, reclinato il bel collo virile(1), levando la vista, 35
nutre d’amore gli avidi sguardi anelando a te, o dea,
e supino pende dalla tua bocca il suo sospiro.

nota (1) "Terex cervis" letteralmente significa una nuca ovvero un collo tornito, tondeggiante, ma ciò non rientra nei nostri abituali canoni percettivi ed espressivi; l'idea che mi suscita relativa al dio della guerra è quella di un collo robusto ma che resta aggraziato, per cui ho ritenuto opportuno tradurre a senso.

 

Quod nisi declinare solerent… (1)

(Quantistica Quanto Basta)

Il mondo un palcoscenico
su cui degli gnomi ignoti
giocano a dadi (2)
nel mentre scompiglia
Fata Morgana (3) le partiture
di un’orchestra impazzita
che suona a caso
tra finestre paradossali,
botole oscure
su voragini infinite,
giochi di specchi
in cui tutto è in potenza
di tra le onde di un cosmico mare
che ha varcato le ultime colonne.

Troviamo qui una qualche Alice (4)
che dietro ancora corre
al suo neutrino (5)
tra meravigliosi imbarazzi,
ed il leptone (6) è lo Stregatto
ed il Bianconiglio insieme
con il suo tempo capriccioso
che va al contrario.

L’Essere ultimo dunque
ha un processo suo primario (7),
straripante come nei folli per strada,
in cui la negazione afferma,
la parte è pure il tutto
ed il vuoto è così pieno
che sprizza la realtà a scintille
come da attriti misteriosi
dietro veli neri (8).

Il mondo fisico,
che pure calchiamo,
ha una base sua
che è stocastica!

Sicché noi si continua,
speranzosi, ingegnosi,
a fare il solletico ai piedi di Dio,
a tentare il sacro Logos
che il Caos scioglierà nel cantico
della danza cosmica di Shiva (9).

note
(1) Lucrezio, De rerum natura, Liber II, v.221, ovvero "Poiché se non fossero soliti declinare…"
(2) Albert Einstein, che non amava la fisica quantistica, avrebbe contestato ai suoi sostenitori che Dio non è solito giocare a dadi.
(3) Figura della mitologia celtica e fenomeno ottico illusorio dovuto a particolari condizioni atmosferiche.
(4) Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll di cui Alice, lo Stregatto ed il Bianconiglio sono dei personaggi con un diverso grado di eccentricità: in particolare qui Alice è simbolo dello scienziato.
(5) La ricerca relativa alla esistenza di massa o meno nel neutrino è uno dei temi più "caldi" della fisica contemporanea per le teorizzate conseguenze che ciò avrebbe sul destino ultimo dell’universo: espansione all’infinito o implosione.
(6) Quella dei “leptoni” è una famiglia di particelle subatomiche, tra cui anche il suddetto neutrino.
(7) Si fa specifico riferimento al concetto psicanalitico freudiano.
(8) Ho in mente le tracce lasciate dalle particelle subatomiche nelle cosiddette “camere a bolle”: Il Tao della fisica di Fritjof Capra, cap. 4.
(9) Sono debitore di questa immagine molto suggestiva della mitologia indù ancora a Il Tao della fisica di Fritjof Capra.

Stefano Cervini. Vincitore del Gran Prix franco-itaLIEN 2007, del premio Les Lyriques 2006, della sezione Poesia del premio Brevis 2006. Finalista nella edizione I e II del concorso Le Figure del Pensiero, sezione Aforismi, nonché del Premio Firenze 2005. Menzione d’onore nel premio N. Martucci-Città di Valenzano 2008. Segnalazione di merito nel concorso Pubblica Con Noi 2005 della Fara Editore.

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Virtuali e guardati – Del dialetto siciliano

di Marco Scalabrino

Siddu na vota
stabilisci tu e tu sulu
zoccu e comu e cu cui armari,
goditi ssa frevi.

Unni lu celu
fàgghia na scala di battista
e na sinfunia a ogni pidata,
ddocu è la to vasa.

Quannu lu roggiu
scurri nnavanti e nnarreri
e a crapicciu to si ferma e scumpari,
tannu poi vulari.

(Virtuale e guardati Se una volta / tu e solamente tu riuscissi a stabilire / cosa come chi della tua vita, / goditi quella febbre. Dove il cielo / libera una scala di batista / e una sinfonia ad ogni passo, / quella è la tua meta. Quando il tempo / schizza avanti e indietro / e a tuo piacimento si ferma e scompare, / allora potrai volare.)

 

DEL DIALETTO SICILIANO

La concezione del dialetto quale codice dei parlanti di un ristretto consesso sociale, un codice chiuso, non contaminato e/o contaminabile, un codice sinonimo di sottocultura, è tuttora diffusa. Concezione fondata sul luogo comune, sul pregiudizio, sulla sconoscenza di quanto invece c’era – c’è – di bello, di prezioso, di antico nel nostro dialetto. E allora, perché il Dialetto? E si può – si deve – scegliere fra l’uno, il Dialetto, o l’altro idioma, l’Italiano? E in relazione a che? All’argomento, al destinatario, al caso…? E dulcis in fundo, zumando sulla specificità che più da vicino ci coinvolge, l’annosa questione: il Siciliano è Dialetto o Lingua? Nessuno di noi ritengo si accosterebbe mai al Francese, all’Inglese, al Tedesco... senza conoscerne l’ortografia, la morfologia, la sintassi, la semantica... E dunque perché farlo col Siciliano? Non credo basti essere nati – e cresciuti – nell’Isola per scrivere il Siciliano! Noi tutti ne siamo sì, in virtù di ciò, naturaliter, dei parlanti. Per acquisire l’altra qualità, la qualità che ci qualifichi scriventi, occorre un praticantato, occorre un impegno diuturno volto all’apprendimento delle opere degli Autori siciliani e dei saggi inerenti agli stessi e al Dialetto, occorre la frequentazione di un preliminare, diligente esercizio di scrittura. In definitiva, bisogna amare, studiare, votarsi toto corde al Siciliano. All’interrogativo “il Siciliano è Dialetto o Lingua?” reputo opportuno abbinare – al fine di approfondire – quell’altro che viene posto, sovente, da taluni: “non esistendo un Siciliano nel quale scrivere, ha senso dannarsi sulla corretta trascrizione delle parole?”

Affrontiamo complessivamente le due domande, tramite le autorevoli valutazioni di Mario Sansone e di Salvatore Camilleri: 1) dal punto di vista glottologico ed espressivo non c’è alcuna differenza essendo la lingua letteraria un dialetto assurto a dignità nazionale e ad un ufficio unitario per complesse ragioni storiche;
2) il Siciliano, con la poesia alla corte di Federico II, è stato determinante per la nascita della poesia italiana;
3) il Siciliano è stato strumento letterario di poesia e di prosa: nella seconda metà del sec. XV diede vita alle Ottave o Canzuni, nel sec. XVIII a un autentico poeta come Giovanni Meli e nel XIX secolo a Nino Martoglio, ad Alessio Di Giovanni, al Premio Nobel Luigi Pirandello.
Riportiamo oltre a ciò l’avviso di Guido Barbina: «Tralasciamo, perché puramente accademico e fuorviante, il pretestuoso problema della differenziazione fra lingua e dialetto», e un passo tratto dal pezzo LE LINGUE MINORITARIE PARLATE NEL TERRITORIO DELLO STATO ITALIANO di Roberto Bolognesi. Bolognesi asserisce: «Tecnicamente i termini lingua e dialetto sono interscambiabili… il loro uso non implica nessuna precisa distinzione genetica e/o gerarchica. Tutti i cosiddetti dialetti italiani sono lingue distinte e non dialetti dell’Italiano».

«Il dialetto – assevera Salvatore Riolo – non è una corruzione né una degenerazione della lingua e non potrebbe mai esserlo, perché i dialetti non sono dialetti dell’italiano, non derivano cioè da esso ma dal latino e soltanto di questo potrebbero eventualmente essere considerati corruzione». Ulteriori considerazioni (appena ricordando peraltro che nella Sicilia del Cinquecento operavano già due Università: quella di Catania e quella di Messina, nonché la proposta del 1543, del siracusano Claudio Mario Arezzo, di istituire il siciliano come lingua nazionale) potrebbero passare attraverso la presenza di Vocabolari, di testi di Ortografia, di Grammatica, di Critica, eccetera. Questa incursione nel passato ci porge il destro per dei brevi cenni di etimologia. Se oggi io inframmezzassi il mio intervento con termini quali: LIPPU, OGGIALLANNU, TABBUTU, RACINA, TRUPPICARI, SPARAGNARI, nessuno di noi – credo – si allarmerebbe, si lamenterebbe di non comprendere, si riterrebbe escluso. Tutti, piuttosto, troveremmo palese conferma a una nostra sensazione che uno studio del Centro Ethnologue di Dallas ha compiutamente così fissato: «Il Siciliano è differente dall’Italiano standard in modo abbastanza sufficiente per essere considerato una lingua separata; è inoltre una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di parlanti bilingui» in Siciliano e in Italiano standard. Quelli, LIPPU, OGGIALLANNU, TABBUTU, RACINA, TRUPPICARI, SPARAGNARI, sono termini che adoperiamo con naturalezza, con proprietà di significato, sono parole con le quali assolviamo egregiamente l’esigenza sociale della comunicazione. Ma la cosa più rilevante ai nostri fini è che tali, ed altri lemmi, fanno parte, a pieno titolo, del nostro odierno parlare, sono pregni di attualità. Ciò detto non ci rendiamo forse conto, perché magari mai ci siamo interrogati in tal senso, che sono antichi di secoli quando addirittura non di millenni. Il Siciliano, le cui radici diciamo così ufficiali affondano nel lontano 424 a. C. con la virtuale costituzione ad opera di Ermocrate della nazione siciliana, “Noi non siamo né Joni né Dori, ma Siculi”, è dunque un organismo vivo, palpitante. Un organismo capace di resistere alle influenze delle disparate altre culture con le quali si è “incontrato”, capace di acquisire da ognuna di esse quanto di volta in volta più utile al suo arricchimento e di stratificare tali conquiste sulle proprie, originarie fondamenta.
Ecco, si avvicendano nel tempo il greco-siculo, il latino-siculo, l’arabo-siculo, il franco-siculo, l’ispano-siculo, ma sostanzialmente sempre una lingua, una sola: il Siciliano. Ricordando per inciso che l’etimologia è la scienza che studia l’origine e la derivazione delle parole di una lingua, ci chiediamo: “Quali sono le origini del Siciliano?”
La risposta, in parte, è insita già nella premessa appena fatta, ma il quesito necessita comunque di una trattazione, impone una ancorché succinta esposizione. Lucio Apuleio, scrittore siciliano del II secolo d.C., asseriva che i Siciliani parlavano tre lingue: il Greco, il Punico e il Latino. Ma da allora, e fino al XIX secolo, ne sono passati di “ospiti”! Veniamo pertanto a rievocare le frequentazioni del Siciliano servendoci di alcuni esempi.
DAL GRECO, VIII secolo a.C.: Bastaz - Vastasu; Kerasos - Cirasa; Babazein - Babbiari; Lipos - Lippu; Baukalis - Bucali; Keiro - Carusu; Rastra - Grasta; Bubulios - Bummulu; Apestiein - Pistiari. E in aggiunta: Naca, Cannata, Taddarita, Ammatula…
DAL LATINO, III secolo a.C.: Muscarium - Muscaloru; Crassus - Grasciu; Hodie est annus - Oggiallannu; Ante oram - Antura; et cetera et cetera.
DALL’ARABO, 827 d.C.: Zbib - Zibibbu; Qafiz - Cafisu; Suq - Zuccu; Tabut - Tabbutu; Qashatah - Cassata; Saut - Zotta; Giâbiah - Gebbia; Babaluci - Babbaluci; Giulgiulan - Giuggiulena; Sciarrah - Sciarra. E poi: Lemmu, Funnacu, Giarra, Margiu, Zagara, Burnia, Zimmili … Una curiosità: l’Etna è chiamato Mungibeddu, voce che assomma la radice latina di mons (monte) e quella araba di gebel (pure monte, incrociato con bello).
DALLA RADICE FRANCESE, in conseguenza della dominazione normanna e angioina, tra il 1060 e il 1282: Ache - Accia; Mucer - Ammucciuni; Boucherie - Vucciria; Couturie - Custureri; Trousser - Truscia; Raisin - Racina. E: Giugnettu, Accattari, Avanteri…
DALLO SPAGNOLO, che praticammo quasi ininterrottamente per cinque secoli dal 1412 al 1860: Abocar - Abbuccari; Lastima - Lastima; Encertar - Nzirtari; Scopeta - Scupetta; Esgarrar - Sgarrari; Alcanzar - Accanzari; Tropezar
- Truppicari. E quindi: Muschitta, Sarciri, Picata, Ammurrari ... DAL TEDESCO, tra il 1720 e il 1734 quando la Sicilia venne assegnata dagli Spagnoli all’impero austriaco: Hallabardier - Laparderi; Rank - Arrancari; Sparen - Sparagnari; Wastel - Guastedda; Nichts - Nixi.
E, per accuratezza di informazione e con la puntualizzazione dello stesso autore: «questo mio articolo vuole essere un invito a chiunque ha nel cuore la nostra Isola, per discutere sulla nostra lingua e collaborare con unità d’intenti perché essa venga riconosciuta de jure”, annotiamo altresì l’ipotesi di Giovanni Ragusa: «I Siculi erano un popolo indo-europeo. Dall’India essi vennero verso l’Europa e quelli che giunsero nella nostra Isola, guidati da Siculo, furono chiamati Siculi. La loro lingua pertanto doveva essere, se non la sanscrita, una che certamente ne derivava. Alcuni vocaboli: il nostro pùtra (puledro) nel sanscrito è pùtra che vuol dire figlio; il nostro màtri non deriva dal latino mater, ma dal sanscrito màtr; il nostro bària (balia) nel sanscrito è bhâryâ e vuol dire moglie, e Murika chiamavasi la sicula Modica.» E prosegue: «I Siculi, sottomessi dai Greci, furono costretti per necessità a far proprio il lessico dei dominatori, ma lo espressero con la fonetica che era ad essi congenita. Ciò avviene anche a noi che, dovendo parlare l’italiano, lo esprimiamo (foneticamente e sintatticamente) come ci è naturale; e ciò fa sì che veniamo riconosciuti “siciliani” in ogni luogo e da tutti. Sappiamo che la nostra lingua ha, come il sanscrito e le lingue semitiche (…) soltanto le vocali a, i, u. Sappiamo che la lingua siciliana rifiuta in modo assoluto la e e la o atone. Sappiamo anche che ha suoni cacuminali non esistenti nel latino (ggh, dd, tr, str, sdr) e che si esprime con regole diverse da quelle delle lingue latina e italiana. Di essa non dobbiamo vergognarci, perché non ci rivela, come dicono i concittadini del Nord Italia, terroni, ma gente di antica e nobile civiltà.»
Non possiamo chiudere il capitolo delle influenze senza fare una ulteriore brevissima allusione. Tra il secolo XI e il secolo XIII, schiere di militari, di cavalieri, di fanti, con a seguito le famiglie, dal Monferrato e dalla Gallia Cisalpina calarono in Sicilia. Le popolazioni delle località, tra le quali Piazza Armerina, Aidone, Nicosia, San Fratello, Sperlinga e Novara di Sicilia, ove costoro si stabilirono, mantengono tuttora nella loro parlata le connotazioni fonetiche, morfologiche e lessicali ben distinte da quelle del Siciliano, che hanno determinato il c.d. GALLO-ITALICO.
Ci siamo ovviamente limitati a pochi condivisi casi, ma le relazioni sono innumerevoli quante le parole stesse del dialetto siciliano e di certo ognuno di voi potrebbe immediatamente suggerire chissà quanti e quali altri vocaboli o locuzioni. Alla luce di quanto esposto, ritengo si possano sciogliere, entrambi positivamente, i quesiti che ci siamo posti e affermare:
A) il Siciliano può essere considerato, se proprio vogliamo impuntarci su questo termine, alla stregua di una Lingua; l’appellarlo però Dialetto nulla gli sottrae e niente affatto lo diminuisce –
B) ha senso, per chi vuol dare dignità al proprio dettato e a se stesso, perseguire la corretta trascrizione del Siciliano.
Rebus sic stantibus: “Perché il Siciliano? E quando?”
La questione, in realtà, è ben altra! La scelta del sistema di comunicazione non è, infatti, abito soggetto alla moda, al fine, all’ambiente. La scelta è dettata a priori: il “sentire siciliano”. Il che significa, ci soccorre daccapo Salvatore Camilleri, «esprimersi con forme, con spirito, con immagini profondamente siciliani e non già con scialbe traduzioni dall’Italiano», significa «liberarsi dal preconcetto che il dialetto debba solamente rivolgersi alle piccole cose, al folclore, al ricordo», giacché «il dialetto può esprimere tutte le complesse realtà: la storia, la filosofia, la sociologia, tutte le scienze, non in quanto tali ma come patrimonio culturale che chi scrive consuma nell’atto della creazione.»
E perciò quale Siciliano? Quello di Catania o quello di Palermo? Quello di Siracusa o quello di Trapani?
E perché non tutti assieme, il prodotto di tutti essi? L’Agrigentino, l’Ennese, il Messinese, il Nisseno, il Ragusano non sono pure essi Siciliano?

Notizie su Marco Scalabrino

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Parola & Immagine 8 Riflessioni su Luca 11, 29-36

di Bernardo Francesco Maria Gianni (v. anche qui)

«Facciamo un salto nel passato. Pausania afferma che si può dare il nome di ‘città’ ad un raggruppamento di costruzioni “che non possiede né edifici amministrativi, né ginnasio, né teatro, né piazza pubblica, né fontane alimentate da acqua corrente”. Così la definizione di città secondo Pausania, è anteriore alle costruzioni di edifici pubblici e risiede nel rapporto sociale che persone o gruppi riescono a determinare fra loro. Così, una città è tale prima ancora che sia costruita e non è tale soltanto perché sono sorti edifici pubblici. Una città è, o poteva essere, prima ancora che fosse posta la prima pietra».
Esiste dunque una vita, se ascoltiamo questa felice intuizione di Giovanni Michelucci, che anima la storia, l’oggi e il futuro di una città prima ancora della sua stessa vicenda urbanistica di strade, di alberi, di piazze e di mattoni. È la quotidiana esperienza integralmente civile che Giorgio La Pira aveva chiamato il «contesto organico» di una città, grembo vitale dove l’individuo si dovrebbe finalmente scoprire persona e quindi aprirsi, fra bisogno e gratuità, a spazi e occasioni di coralità «concorrenti e confluenti in un speranza comune» (Mario Luzi). Un esito radioso, quest’ultimo, per niente scontato e anzi sempre da invocare, se risuona ancora in noi l’antico avvertimento di Agostino: trama e ordito più autentici in qualsiasi planimetria urbana sono infatti quell’agonico e mai quiescente intreccio fra amor sui, l’amore ristretto agli invalicabili confini di sé, e l’amor che, nel dono di sé, spalanca invece il cuore al mistero sempre trascendente dell’alterità umana e divina. Quel mistero tuttavia ci è nitidamente rivelato ogni giorno da un volto che interpella le mani del nostro cuore per gesti operosi di accoglienza, di ascolto e di premura (Matteo 25, 31-46). Così si andrà edificando il di più e l’essenziale di ogni città, nella misura senza misura di un amore insonne che congiunga infine le nostre mani per invocare una biografia tutta nuova per noi e per tutto ciò che ci circonda: «La città esplode dall’animo, è una preghiera. La nascita di una città è una preghiera, una preghiera meravigliosa; a chi? Al mondo, al mondo che c’è d’attorno» (Giovanni Michelucci).

 

Riflessioni sul brano del Vangelo di Luca 11,29-36

Alla fine di ogni incontro c'è un di più, perché ci siamo incontrati e insieme abbiamo cercato il Signore. Lo abbiamo cercato per far rinascere prospettive e storie di speranza, laddòve la speranza sembra venir meno. L'esortazione di stasera è d'accorgersi di questa presenza come segno luminoso che trasforma in luce tutta la nostra corporeità: una immagine un pò misteriosa dei seguenti versetti: «La lucerna del tuo corpo è l'occhio. Se il tuo occhio è sano, anche il tuo corpo è tutto nella luce; ma se è malato, anche il tuo corpo è nelle tenebre.» (Lc 11,34). Dunque si ha una trasformazione psicologica e corporea col vedere l'occhio come la lucerna di un tetto, e così al versetto 10 del Salmo 35: «E' in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce». Gesù ci trasforma in profondità ed è nell'orizzonte della fede che sentiamo la parola di Dio essere un chicco di vita nascosto nel nostro cuore: un segno-insegnamento-simbolo più forte nell'eucaristia, che è principio di vita nuova con la preghiera che il sacerdote fa invocando lo Spirito Santo. A volte nelle nostre preghiere, quando si è nel dolore, nel non senso di certi eventi, chiediamo dei segni  che diano dimostrazione alla nostra inquieta fede. Però il percorso è rivolto verso un Dio generoso, che ha donato sè nel Figlio fino alla morte in croce. Allora è banale da parte della gente chiedere un segno che sia altro dalla presenza di Gesù: «Mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nesssun segno fuorché il segno di Giona.»
Per Luca il segno di Giona è la persona stessa di Cristo che ha una missione come quella di Giona. Le parole del Maestro  hanno un accento di condanna che deve far riflettere gli uomini di quella «generazione malvagia». Giona ha predicato la penitenza alla gente di Ninive ed è stato ascoltato; Gesù che ha annunziato il messaggio della salvezza, ha trovato ostilità negli uomini della sua generazione. «La regina del sud sorgerà nel giudizio...perché essa venne dalle estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone...» (Cfr Lc 11,31-32). La regina è colei che corrisponde ai Greci della lettera paolina e ai non Ebrei, che si mettono in cammino alla ricerca della sapienza di Salomone, perché si sono accorti che c'è un di più in questa tradizione. La regina del sud addirittura si mette in cammino da lontano e gli abitanti di Ninive si accorgono della presenza di Giona che cammina in mezzo alla città, invitando alla conversione ed a manifestare un segno di presenza dell'amore di Dio.
E' importante perciò ricordarsi il contesto del versetto 16 del capitolo 11 di Luca: «Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo». Gesù opera il miracolo, e come Dio creatore separara il male dal bene scacciando un demonio, nonostante la supposizione malvagia dei farisei che dicono: se lui ha questa confidenza col male vuol dire che fa parte del male, mentre Gesù dimostra che quando guarisce fa un'opera di ricreazione della persona malata. Ma il Signore fa questo gesto di guarigione non per garantirsi un accesso a Gerusalemme come grande guaritore, ma per chiedere un gesto di fede totale e radicale, e di seguirlo in questo viaggio dove si misura con tutto ciò che vuole ostacolare la gratuità del bene, dell'amore e della speranza nel nostro vivere quotidiano. Chiede un tipo di obbedienza a una parola dinamica di conversione: è l'antica parola dei profeti che chiedevano di essere creduti in base a una testimonianza di vita radicale e di obbedienza all'amore di Dio.
Alcuni riferimenti biblici ci potranno aiutare a comprendere in quale ambito si situano questi versi evangelici. Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi dice: «E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani;» (1 Cor 1,22-23). I segni, il prodigioso che prospetta Paolo è il Cristo crocifisso, che è la radicale smentita dell' umana onnipotenza di Dio. Il Signore ci educa ad accorgerci che in quella crocifissione per la prima volta l'umanità conosce la follia dell'amore di Dio. Gesù fa i miracoli allo scopo di metterci in cammino e nella logica della fede ci accorgiamo che veramente lì è la potenza di Dio e la sua sapienza.   C'è un momento della Lettera a Tito in cui l'autore dice: «E' apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini,...» (Tt 2,11). In pochi versi mirabili è riassunto tuttto il mistero dell'incarnazione e in questo apparire si ha il senso della manifestazione di Dio come segno, cioè visibilità, che ha in sè un significato: il segno è il volto del Signore Gesù. Preghiamo guardando il volto di Gesù. Se noi cristiani non ci rieduchiamo a una prassi elementare di preghiera, la nostra fede diventa sempre più debole. Diceva Lutero: «chi non prega alla fine perde la fede».

 
(Notizie dalla Lectio Comunicato n. 56)

Dom Bernardo Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia di San Miniato al Monte
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