|  | FARANEWSISSN 15908585
 MENSILE DIINFORMAZIONE CULTURALE
 a cura di Fara Editore
 
 1. Gennaio 2000
 Uno strumento
 
 2. Febbraio 2000
 Alla scoperta dell'Africa
 
 3. Marzo 2000
 Il nuovo millennio ha bisogno di idee
 4. Aprile 2000Se esiste un Dio giusto, perché il male?
 5. Maggio 2000Il viaggio...
 
 6. Giugno 2000
 La realtà della realtà
 7. Luglio 2000La "pace" dell'intelletuale
 8. Agosto 2000Progetti di pace
 9. Settembre 2000Il racconto fantastico
 10. Ottobre 2000I pregi della sintesi
 11. Novembre 2000Il mese del ricordo
 12. Dicembre 2000La strada dell'anima
 13. Gennaio 2001Fare il punto
 14. Febbraio 2001Tessere storie
 15. Marzo 2001La densità della parola
 16. Aprile 2001Corpo e inchiostro
 17. Maggio 2001 Specchi senza volto?
 18. Giugno 2001Chi ha più fede?
 19. Luglio 2001Il silenzio
 20. Agosto 2001Sensi rivelati
 21. Settembre 2001Accenti trasferibili?
 22. Ottobre 2001Parole amicali
 23. Novembre 2001Concorso IIIM: vincitori I ed.
 24. Dicembre 2001Lettere e visioni
 25. Gennaio 2002Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
 26. Febbraio 2002L'etica dello scrivere
 27. Marzo 2002Le affinità elettive
 28. Aprile 2002I verbi del guardare
 29. Maggio 2002Le impronte delle parole
 30. Giugno 2002La forza discreta della mitezza
 31. Luglio 2002La terapia della scrittura
 32. Agosto 2002Concorso IIIM: vincitori II ed.
 33. Settembre 2002Parola e identità
 34. Ottobre 2002Tracce ed orme
 35. Novembre 2002I confini dell'Oceano
 36. Dicembre 2002Finis terrae
 37. Gennaio 2003Quodlibet?
 38. Febbraio 2003No man's land
 39. Marzo 2003Autori e amici
 40. Aprile 2003Futuro presente
 41. Maggio 2003Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
 42. Giugno 2003Poetica
 43. Luglio 2003Esistono nuovi romanzieri?
 44. Agosto 2003I vincitori del terzo Concorso IIIM
 45.Settembre 2003Per i lettori stanchi
 46. Ottobre 2003"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
 47. Novembre 2003Lettere vive
 48. Dicembre 2003Scelte di vita
 49-50. Gennaio-Febbraio 2004Pubblica con noi e altro
 51. Marzo 2004Fra prosa e poesia
 52. Aprile 2004Preghiere
 53. Maggio 2004La strada ascetica
 54. Giugno 2004Intercultura: un luogo comune?
 55. Luglio 2004Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
 56. Agosto 2004Una estate vaga di senso
 57. Settembre2004La politica non è solo economia
 58. Ottobre 2004Varia umanità
 59. Novembre 2004I vincitori del quarto Concorso IIIM
 60. Dicembre 2004Epiloghi iniziali
 61. Gennaio 2005Pubblica con noi 2004
 62. Febbraio 2005In questo tempo misurato
 63. Marzo 2005Concerto semplice
 64. Aprile 2005Stanze e passi
 65. Maggio 2005Il mare di Giona
 65.bis Maggio 2005Una presenza
 66. Giugno 2005Risultati del Concorso Prosapoetica
 67. Luglio 2005Risvolti vitali
 68. Agosto 2005Letteratura globale
 69. Settembre 2005Parole in volo
 70. Ottobre 2005Un tappo universale
 71. Novembre 2005Fratello da sempre nell'andare
 72. Dicembre 2005Noi siamo degli altri
 73. Gennario 2006Un anno ricco di sguardi
 Vincitori IV concorso Pubblica con noi
 74. Febbraio 2006I morti guarderanno la strada
 75. Marzo 2006L'ombra dietro le parole
 76. Aprile 2006Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
 77. Maggio 2006"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
 
 78. Giugno 2006
 Varco vitale
 79. Luglio 2006“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero 
  tempo, stabilità, “memoria”
 79.bisI vincitori del concorso Prosapoetica 2006
 80. Agosto 2006Personaggi o autori?
 81. Settembre 2006Lessico o sintassi?
 82. Ottobre 2006Rimescolando le forme del tempo
 83. Novembre 2006Questa sì è poesia domestica
 84. Dicembre 2006La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
 85. Gennaio 2007La parola mi ha scelto (e non viceversa)
 86. Febbraio 2007Abbiamo creduto senza più sperare
 87. Marzo 2007“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
 88. Aprile 2007La Bellezza del Sacrificio
 89. Maggio 2007I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
 90. Giugno 2007“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
 91. Luglio 2007La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
 92. Agosto 2007Versi accidentali
 93. Settembre 2007Vita senza emozioni?
 94. Ottobre 2007Ombre e radici, normalità e follia…
 95. Novembre 2007I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
 96. Dicembre 2007Il tragico del comico
 97. Gennaio 2008Open year
 98. Febbraio 2008 
  Si vive di formule / oltre che di tempo
 99. Marzo 2008Una croce trafitta d'amore
 
 
 |  | Numero 90Giugno 2007
 Editoriale: 
          “Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”Sono versi di Andrea Parato inseriti 
          una una sequenza poetico-filosofica di grande presa, come peraltro le 
          sussultanti poesie e le empatiche recensioni di Paola Castagna, 
          e la lettura di Duende che ci offre Maria Liana 
          Celli o le spiritualmente brulicanti poesie di Stefano 
          Cervini. E così il gustoso commento dantesco di Maria 
          Rosa Panté e il racconto storicamente inquieto di Mattia 
          Pari, la lettera alle monache di clausura di Bernardo 
          M. Gianni ci aprono squarci di vita e di anima (“in quell'anticipo 
          di eternità che è la liturgia”) che danno alle parole 
          forza, necessità e bellezza. Un numero davvero stimolante e coinvolgente 
          in molti sensi e direzioni. Buona lettura! Come 
          e perché Duende di Maria 
          Liana Celli I componimenti di Caterina, 
          alcuni nuovi, altri riproposti da sue precedenti raccolte, ci permettono 
          di accostarci al suo mondo poetico – che è poi il suo mondo 
          personale – se non di penetrarlo compiutamente.Perché per lei la poesia è vita, è effettuare un 
          percorso che restituisca alle cose quell’identità che a 
          loro appartiene; è riconoscere alla persona quello che di intimo 
          la costituisce; è “partecipare al respiro del mondo”, 
          lasciando tracce che non sempre si cancellano.
 Tutto questo è prerogativa della parola: questo potere apocalittico, 
          sconvolgente, che consente una dimensione altrove non riscontrabile 
          e non praticabile. Questa consapevolezza della parola diventata quasi 
          una scienza che si può esibire perché non solo non fa 
          male, non provoca danni, ma lenisce, addolcisce, conforta.
 L’urlo gridato, la voce pietrosa, quasi coltelli conficcati nelle 
          carni, sono terapeutici, parlano del male del mondo, di ciò che 
          accade nostro malgrado, di ciò che non accettiamo, di ciò 
          che vorremmo diverso.
 È prestare voce al silenzio.
 È ridare salute al dolore.
 E le parole si dispiegano, e le poesie si configurano nell’ombra 
          e prendono peso.
 Tanto che Caterina, 
          ad un certo punto, chiede di non essere seppellita di parole, se le 
          parole possono essere solo strumento per trattenerla.
 E poi, sempre le parole, vengono definite “fiumi che scorrono 
          e che quando l’acqua si è prosciugata, cominciano a parlare”.
 E ancora: “lo sguardo seduce, la parola dice”.
 Le parole sempre protagoniste sono “culle di parole”, sono 
          “parola promessa”, parole temute poi perdute”, “parole 
          che giocano nell’orgia dei suoni alludono eludono illudono”.
 E quando Caterina 
          afferma “babele di lingue ardenti vorticano” continua con 
          “rincorro la parola in bilico tra abissi, con un verso sigillo 
          la danza”, fino a trepidare con un “respirami parole”.
 Il rincorrersi delle immagini, a volte irruenti e scabre, a volte intiepidite 
          e riscaldate da un riferimento intimista che balugina speranza, non 
          permette al lettore di concedersi e di abbandonarsi alla riflessione: 
          troppo incalzanti si susseguono i pensieri, troppo affollati si disegnano 
          gli scenari.
 Piuttosto, tale riflessione ci viene restituita più avanti, quando 
          le scorie si sono depositate e la materia decantata ci viene restituita 
          nella sua purezza.
 Dicevamo della poesia che si traduce in linguaggio e del linguaggio 
          che è poesia.
 Immemori, ci lasciamo andare sull’onda di ciò che è 
          affermato, osservato, capito, tra detto e indovinato.
 Le pluralità di accenti, i giochi, le allitterazioni, ma anche 
          le pause del linguaggio di Caterina, 
          indicano un mondo fantasmagorico, ci introducono in un’aura di 
          vaticinio, suggeriscono scenari inesplorati.
 La realtà diventa altra realtà, diventa possibilità, 
          opzione, fantasia.
 Il tutto giocato sul segno del ripiegamento esistenziale che non si 
          risolve solo su un piano personale, ma diventa patrimonio di tutti, 
          perché tutti vi si possono ritrovare.
 Potrei ancora immergermi in questo liquido ancestrale, in queste rime 
          del pensiero e della scrittura, sicura di trovarvi altre istanze, altri 
          motivi: troppo ricco è l’humus al quale attingono.
 Lontana da intenzioni univoche, lascio a ciascuno la possibilità 
          o il piacere di praticare, con assoluta modernità di intenti, 
          un proprio percorso di lettura tra le poesie di “Duende” 
          affinché, liberi da impostazioni e imposizioni interpretative, 
          si realizzi ciò che nei suoi versi Caterina si auspica: “alla 
          quadratura del cerchio, preferisco la sinuosità appuntita del 
          poligono irregolare”.
 
 Torna all'inizio Opportunità 
          smarrite  di Stefano 
          Cervini  Ispirazioni Quest’interiore bulicareche troppo sempre pullula
 dentro, ci tracima a volte
 in analogie compulsive,
 e buttiamo cosìzucchero e sale
 in quella altrimenti
 bolla d’indifferenza,
 metafore a ritagliare.
 Carpe diem*  Ogni attenzione negata,ogni ritenuta dolcezza oppure
 qualsivoglia elusa battaglia,
 tutte opportunità smarrite
 di raddensare questa vita,
 impalpabile altrimenti,
 che disperante ne fanno
 il suo naturale epilogo.
  * Orazio, Carm. 1, 11, v.8 – l’accezione è personale; 
          non si ha qui nessuna pretesa critico/ermeneutica.
 Dignità Anima raminga,quando più non potrai
 camminare con passo sicuro,
 usa il bastone, non ti fermare,
 poiché se l’esito è certo,
 pure cambia il modo.
 
 Per noi maledetti Antica riecheggia una voce: “Con dolore partoriraie coltiverai la tua terra
 con il sudore della fronte.”
 Per noi maledettianche stare in piedi
 è sforzo di muscoli.
 Eppurenell’abilità delle mani
 e nella bocca
 che può gustare il vino,
 resta il riscatto nostro
 nelle vigne basse
 del Signore.
 
 
 Stefano Cervini 
          è già stato pubblicato in precedenti Faranews.- Primo classificato nella Sezione Poesia del Premio Nazionale “Brevis” 
          2006;
 - finalista del Premio Firenze 2005;
 - finalista del Premio Les Lyriques 2005;
 - segnalato nel concorso Pubblica 
          con Noi 2005.
 – vicnitore concorso letterario Les Lyriques 2006 - VIII edizione.
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 Tre atti 
          (poetici) e due recensioni (a Tomada e Fichera) di Paola 
          Castagna 
 UOMO
 L’uomo che c’èmi cura
 mi abbraccia
 si preoccupa
 l’animale si fa desiderare
 non mi caga
 si lascia cercare
 nel labirinto dell’emozione
 la scorciatoia
 non conduce al varco.
 Nel districarmi tra cioccolata e sale
 guardo il sole in faccia
 all’alba del giorno
 un aurora
 mi ricorda che son viva
 mentre lungi da me
 il tramonto
 che scova
 nella chiarezza della strada
 che guadando il corpo
 trova.
 
 ANIMALE Il caffè riscaldato ha un retrogusto che sa di piscio di gatto.Tanto è forte ciò tra il palato e lo stomaco si incastra.
 L’animale quando viene ferito vuole solo autorizzarmi sul poter 
          scopare con chi voglio.
 Il suo male ha il limite del tradimento e per grazia ricevuta, concede.
 Come se a me servisse un autorizzazione sul vivere.
 L’animale arriva nel profumo, lo laverei prima di amarlo, voglio 
          il suo odore non le essenze della vita di fuori.
 Mentre stamane la quiete inebria riempiendo quei bicchieri che ieri 
          sera scarseggiavano di nettare.
 Restare senza vino quando la parola è segnata da un No che deciso 
          affermo.
 No a prestazioni gratuite, tutto ha un prezzo.
 La mia generosità non ha valore monetario, il mio sapere sì.
 Persevero senza sapere il peso di lontananze minime.
 La leggerezza del sentire porta l’involucro a non trovare pace.
 Che sia quella dei sensi, ben venga nell’addomesticarmi verso 
          la castità.
 Solo la parola trasgredisce mentre il corpo pulsa e trattiene.
 Un fallo che ignora la mia esistenza si sofferma sulle labbra, mi zittisce 
          e taccio.
 Arriverà incazzato, lo sento e il turbamento è alto.
 Sarà una furia nel rivendicare un possesso dei giorni assenti.
 Lascerà l’appagamento totale, scenderà le scale 
          che qualcun altro pulisce.
 Uno, due, tre, quattro, cinque gli scalini che attendono la sosta, nel 
          voltarsi in questo estremo saluto, abbraccio il mondo.
 ANIMALE UOMO
 Una vocina dentro parla con voce briosa.Tienimi le mani sulla testa.
 Insegna alla camminata unica che ho, l’ondeggiare.
 Tienimi le mani sulla testa.
 La postura è sempre avanti, il baricentro del corpo proteso.
 Una vocina dentro ripete che vuole le mani sulla testa, solo lui sai 
          come, quando, dove.
 Sorrido mentre sto aspettando l’Uomo che mi ricorda che l’Animale 
          arriva domani.
 Avevo capito oggi, aveva detto oggi nel confermarmi il suo arrivo.
 Tieni una sola mano tra i capelli, afferra la ciocca più 
          ribelle, quieta la tempesta, se afferri con fermezza sento ciò 
          che sei.
 Dicono che le persone non si conoscono, falso.
 Siamo in tantissimi che si conoscono, il virtuale permette molto.
 Non conosciamo coloro che scegliamo nella vita, scelti di sicuro per 
          questo motivo.
 È l’incognita che muove l’uomo.
 Ritma la mia testa verso la tua, testa del sapere animale.
 Sono consapevole della nudità che porto, che attrae come il miele 
          l’orso.
 La tana produce un miele prelibato e lenitivo.
 L’orso è un animale dalle dimensioni importanti.
 Nuda striscio sul pavimento come una serpe che cerca la mela.
 Veloce striscio tra una stanza e l’altra scansando gli angoli, 
          insinuandomi dove nemmeno l’impossibile oserebbe andare.
 Una vocina dentro parla con voce briosa.
 Mi tiene le mani sulla testa e penetrandomi gl’occhi urla 
          alla vita.
 *** FRANCESCO TOMADA NELL’INFANZIA MAI SMARRITA 
 Un poeta capace che adopera la parola come verità.Nasconde il dolore a tutela dei suoi affetti.
 Mentre ci sbatte in faccia le risposte che trova.
 Mille interrogativi affliggono i suoi passi, ma sono passi scalzi e 
          non fanno alcun rumore.
 Felpato il passaggio che attraversa il nostro sentire.
 Tomada 
          scrive bene, ma di un bene disarmante, che ti cava il fiato.
 In quel sussurro di periferia che conosco.
 In quell’età che scivola via senza la tregua di aver guardato 
          a sufficienza un figlio negl’occhi.
 Qui il poeta è figlio della poetica, padre delle attese, madre 
          generatrice di parole.
 Orfano di sé stesso.
 È quel sé stesso che conosce lo scandire del 
          tempo che lo attraversa nel corpo della donna che desta la sua appartenenza.
 Francesco Tomada 
          lo leggi tutto d’un fiato, nel rimando di voler sapere.
 L’infanzia 
          vista da qui cerca quel bambino smarrito, nelle foto che appaiono 
          sbiadite dagl’anni.
 Fa tesoro di quest’ultimi lasciando nell’ombra la sua figura 
          di uomo, per quell infante che se ne impossessa.
 Il suo percorso è lungo, appare spesso impaziente nella crescita 
          che vuole darsi, fonte importante di sapere.
 La generazione ne fa da testimone plausibile che rilegge nella distanza.
 Nella vita segna i vari passaggi, non è un eremita la parola 
          maiuscola, ricerca sottile di ciò che ci appartiene.
 Di Francesco 
          Tomada potrei scrivere pagine e pagine senza la capacità 
          di capire come l’uomo sa amare.
 Potrei elencare le parole più forti, le più disarmanti, 
          le più esatte, quelle nascoste, quelle che giocano al gatto e 
          al topo, le parole subdole che la mia poetica conosce.
 Ma dovrei trascrivere l’intero libro del poeta, non vi è 
          nulla che non fila.
 Tutto perfettamente giusto e composto.
 L’Esatto tocca Francesco, già responsabile di suo nel portare 
          un nome importante.
 Il nome del poeta che appartiene ai nostri figli, ai nostri padri, all’amplesso 
          che ancora non ha trovato, quelle parole dedicate alla donna, che compensa 
          l’uomo che è.
 Trasforma ciò che siamo e ci rende volutamente coscienti e
 Importanti.
 MENTRE… DI PAOLO FICHERA, LE GESTA 
 Mentre la mia poetica raggiunge la parola come capacità di dire 
          senza celare ne i nomi ne i cognomi.Mentre sento di scrivere bene, il poeta desta la mia chiarezza.
 Innesti, 
          di Paolo 
          Fichera è un inno al padre, come fonte originario di ogni 
          respiro.
 La sua è una paternità letteraria che con la Parola attraversa 
          il sapere conscio e lucido.
 Il poeta cura la Parola come fosse malata o contagiosa.
 La medica rendendo l’essenziale.
 Nel padre che prende la sua mano per scrivere, porta un rigore ed una 
          disciplina esemplari.
 Il poeta scrive su fogli bianchi, non necessita di righe per stare in 
          linea.
 le parole vergini hanno lo stesso vento…
 Ritorno ad un pensiero sul ragionare nella forma tonda, non più 
          solo rette parallele che non si incontrano mai, bensì il pensiero 
          nel tondo delle cose con una chiusa finale.
 il cerchio non è tutto
 Fichera con Innesti 
          dà un senso al vagare dei pensieri.
 Li riordina collocandoli al loro posto.
 Così la parola con parsimonia viene adoperata, come fosse il 
          tocco ultimo su di un piatto prelibato.
 Una spolveratina di
 Nel servire un piatto di verità.
 Come una pugnalata nel basso ventre lacera le viscere e ne comprende 
          il male.
 Un poeta che infligge nel sapere.
 vergami il dolore…
 Un poeta che chiama il padre come primo vagito nel suo esistere.
 Il suo male si inceppa nel distogliere lo sguardo dalla mancata riga 
          del foglio, il male gli chiede un battesimo d’iniziazione per 
          proseguire nell’urlo del dolore.
 Un raccolta carica di vita, in parte feconda nello sperma che tende 
          a lasciare in giro, senza riguardo, mentre la parola diventa impenetrabile.
 Paolo Fichera sta cercando, 
          tornando alle origini, quel seme che lo generò nella natura incontaminata.
 Ricerca quella purezza tipica dei Grandi, uomini e animali che popolano 
          la nostra terra.
 L’animale in lui è docile, l’uomo radicato per 
          il pino che è quercia.
 Mentre al cielo si perdona tutto.
 Concludo rifacendomi alle parole iniziali, mentre la mia poetica scrive 
          i nomi e i cognomi, Paolo Fichera desta la mia chiarezza, mentre Innesti 
          si mescola col sangue ossigenandomi di buono.
 
 
 Paola 
          Castagna è nata a Mantova nel 1969. Solo all’inizio 
          del 2002 prende consapevolezza del suo fare poetico, ci crede e non 
          necessitando più un “salvataggio” trova la sua massima 
          ispirazione scrivendo in qualsiasi contesto: la poesia non è 
          più solo tormento, sofferenza o agonia, ma rapporto con sé 
          stessa, con gli altri, i figli, anche quelli degli altri. Figli 
          è infatti la sua raccolta di esordio (Fara 2005), mentre la plaquette 
          “Erateide… ne vorrei fare un giardino” entra in FaraPoesia 
          nello stesso anno. Sue poesie sono presenti in rete e in pubblicazioni 
          antologiche. Torna all'inizio La poesia è un 
          dono scarso
 di Andrea 
          Parato La poesia è un dono scarsoche costa ormai poco:
 la trovi al mercato
 la scambi per gioco
 Ogni amore sulla faccia della terraè tragico, perché ha come destino
 la morte degli amanti e degli amati.
 Solo facendo silenziocapisco
 le parole
 giuste.
 Nella sofferenza la rassegnazione
 è una grazia?
 Per andare avanti
 voltiamo la testa
 guardiamo indietro:
 chi ci precede lascia
 tracce difficili
 da decifrare.
 Succede che sfuggono i perché,
 danno dolore e lasciano vuoto.
 Sai la domanda, sai cosa dire (ti sei
 preparato una vita):
 ma non è la risposta giusta.
 
 Le cose ci sopravvivonoI tuoi occhiali, la tua penna
 giacciono sul comodino.
 E la sveglia, rotta,
 è rimasta tutta l’estate al negozio:
 ora funziona la molla, tu non la puoi caricare.
 Le cose ci resistono
 Oltre la vita
 restano poche e inutili
 ferme logore e spoglie
 e su di esse si stendono i segni:
 proliferano inutili
 Le cose ci avanzano
 Il foglio bianco.
 Il gatto piange alla porta.
 Il muro intontito.
 La tele tace.
 Mi venivo a rifugiare
 eravate conforto
 ora non più
 ora non più.
 
 Quando ogni metaforaogni suono
 ogni segno
 non avrà senso nel tempo
 allora saprò, finalmente, nell’incertezza
 dove mi porta confuso
 la marea del dovere
 e non voglio.
 
 Quella notte trovammo il pagliaio in fiammee urla dal granaio abbandonato
 di giovani ubriachi che correvano
 tra l’erba alta e il grano verde.
 Per spegnerlo ci volle
 sino all’alba.
 sulla terra dura di luglio, di tutto
 rimase solo una macchia nera
 di stoppie bruciate e una bottiglia,
 vuota.
 
 MANGA volti: sempre nettiocchi: sempre larghi
 mani: sempre dritte
 pugni: più potenti
 dita affusolate
 abiti attillati
 passi più veloci
 gesti intraprendenti
 Prigionieri dei margini di carta!La perfezione sta nel tratto
 come il pennello nell’inchiostro.
 TYPE
 Il carattere tipografico è importante.Il carattere tipografico è importante.
 Il carattere tipografico è importante.
 Il carattere tipografico è importante.
 IL CARATTERE TIPOGRAFICO È IMPORTANTE.
 IL CARATTERE TIPOGRAFICO È IMPORTANTE.
 IL CARATTERE TIPOGRAFICO È IMPORTANTE.
 RIMA BACIATA
 Non mi riuscirà mail la rima perfetta,perché in altri tempi è stata già detta.
 
 Andrea 
          ParatoAppassionato e studioso di comunicazione.
 Ha scritto di nuovi media e di semiotica.
 Lavora nel settore editoriale-organizzazione eventi.
 Con Fara Editore ha pubblicato le raccolte di poesie:
 Da 
          luoghi intravisti e Il 
          nostro esilio quotidiano.
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 Il comandante e 
          la Storia di Mattia 
          Pari  “Accanitevi contro il mio corpo, lupi affamati di 
          vendetta, assaporate la carne malata di un uomo corrotto dall’avidità 
          e dall’accidia… gustatevi le carni di un peccatore. Bevete 
          il sangue del vampiro, inneggiate alla mia sconfitta e brindate sulla 
          mia lapide. Non aspettate altro… schiavi della vita! Insignificanti 
          passeggeri di un treno che vi ha ripudiato sin dalla nascita abbandonandovi 
          alla prima stazione innanzi alle urla strazianti di quelle effimere 
          donne che hanno faticato per concedervi la vita. Festosi e 
          sudici alzate le mani, cantate e bevete sicuri di aver conquistato una 
          libertà duratura, ma la vostra gioia dimentica l’ambizione 
          umana… presto un altro uomo prenderà il mio posto e tutte 
          le pecore torneranno nel recinto.Godetevi la felicità passeggera, l’immortalità è 
          dei pastori…beata ignoranza!”
 La sua voce ferma mi intimorì, rimasi alcuni istanti 
          immobile, i nostri occhi si incrociarono per pochi interminabili secondi, 
          ordinai il fuoco ed ebbe termine la dittatura di Moduku, nell’Africa 
          Centrale.Le mie parole segnarono una svolta, la mia sentenza scrisse libri di 
          storia. Dove arrivava tale forza? quando ero diventato così “potente”?
 Le parole di Moduku gelarono il mio cuore di guerrigliero e quella notte 
          tra le urla eccitate delle truppe che festeggiavano la presa della capitale 
          e la caduta dell’ennesimo regime militare, mi domandai quale fosse 
          il mio futuro.
 Rifiutai le prostitute che i luogotenenti accompagnarono nella mia tenda, 
          rifiutai il vino e i sigari, nessuno comprese il mio stato d’animo. 
          Pretesi solitudine.
 Estrassi dalla sacca da viaggio un libro e la S&W, appoggiai entrambi 
          sul tavolino adibito a scrivania. Li osservai a lungo cercando di capire 
          quale delle due armi fosse la più potente, non trovai risposta.
 Pulii con cura la pistola e sfogliai con attenzione il libro, ma né 
          l’una né l’altra attività soddisfò 
          la mia curiosità. Eppure soluzione doveva esserci; cultura o 
          forza?
 Una delle due armi doveva essere più incisiva dell’altra, 
          lo sapevo, solo non focalizzavo quale. La cultura è arma raffinata, 
          trafigge il nemico senza ferita, uccide l’anima, ma la forza è 
          così straordinariamente definitiva ed è più accessibile 
          all’ignoranza delle masse.
 Osservai quei due oggetti per un paio d’ore, sconsolato li riposi 
          nella sacca.
 L’alcol aveva placato i festeggiamenti, uscii dalla tenda. Lo 
          scenario che si offriva inorridiva la mia mente, i corpi dei soldati 
          erano ammassati ovunque, le loro anime si erano allontanate da diverse 
          ore.
 Gli sguardi persi nel vuoto e rannicchiate nelle loro braccia generose 
          prostitute che per un paio d’ore gli avevano concesso di dimenticare 
          i crimini di cui erano stati partecipi.
 Nella desolazione mi accorsi di essere osservato.
 “Cosa guardi? I miei occhi, il mio corpo o la mia anima?!! Pensi 
          forse sia corrotta? avida?”
 Attesi risposta, ebbi silenzio.
 “Mi osservi e non rispondi alle domande sei un ottuso presuntuoso…io 
          scrivo la storia!”
 Il ragazzo continuava a guardarmi negli occhi senza proferire parola, 
          il suo sguardo era tenero e spaventoso, avevo paura e questo mi irritò 
          maggiormente.
 “Pretendo risposta…io scrivo la Storia!” ribadii.
 “…io sono la Storia” rispose.
 Tremai come un bambino, ero terrorizzato. Compresi la sua forza, ma 
          non potevo ritirarmi a tale affronto, ero un guerrigliero.
 “No ragazzo, tu sarai storia, se continui ad importunare il tuo 
          comandante!”
 “Ora sei tu il presuntuoso, governi solo uomini”
 “Chi sei?”
 Sorrise.
 “Sono la Storia…”
 Continuava a provocarmi.
 “Perché continui ad importunarmi?”
 “Perché la Storia non può scriverla chiunque”
 “Basta, un’altra parola e ti farò fucilare!”
 “… governi solo uomini…”
 Mi svegliai con il volto sulla scrivania e la cervicale a pezzi, gli 
          anni passano anche per i guerriglieri.
 I raggi del sole filtravano dagli angoli della tenda.
 L’eterna battaglia tra il giorno e la notte, mi ricordava la mia 
          vita e tutti i giorni quando mi svegliavo o quando andavo a dormire 
          riflettevo su quella guerra naturale senza vinti, né vincitori, 
          una guerra tra due ottusi, una guerra come tante altre.
 Il ricordo di quel ragazzo continuava a martoriare i miei pensieri, 
          forse avevo sognato tutto, forse anche i sogni hanno un significato. 
          Forse.
 Che parola inconsueta per uno abituato alla guerra; “forse” 
          nel conflitto non esiste, esiste solo la certezza, l’incertezza 
          è morte. Me l’ho insegnò il mio Maestro d’armi 
          e padre adottivo, molti anni prima.
 “… Certezza è vita, incertezza è morte…” 
          semplicemente.
 Le guerre iniziano con urla eccitate, continuano con urla disperate 
          e finiscono con urla eccitate o disperate. Le urla è sono l’unica 
          costante, si ripetono in ogni fase.
 Dunque guerra uguale ad urla.
 Dopo? Cosa c’era dopo una guerra, dopo le urla? Fino a quel momento 
          per me erano state solo altre guerre ed altre urla, ma questa volta 
          era diverso non potevo più scappare.
 Le parole di Mudoku erano macigni, la mia ambizione avrebbe rovinato 
          i loro sogni. Mi avrebbe soprafatto e la Storia sarebbe venuta a riprendersi 
          ciò che gli spettava e un guerrigliero per quanto abile è 
          solo un uomo che al massimo governa altri uomini, ma la Storia si impone 
          prepotentemente, non accetta ordini da nessuno.
 Non tutti possono scrivere la Storia, occorre chiedere il permesso, 
          ma a chi?
 Al Ragazzo! Ecco cosa dovevo fare, trovare il Ragazzo e domandargli 
          il permesso di scrivere, per diventare nero su bianco, per l’immortalità, 
          superare dunque il primo dei limiti dell’uomo.
 Ordinai il raduno di tutte le truppe, per un discorso celebrativo, dieci 
          minuti dopo ero davanti a un intero esercito, cercando le parole opportune.
 “Giustizia è compiuta!”
 Urla prima.
 “Libertà è raggiunta!”
 Urla dopo.
 Mi arruolai per soddisfare sogni rivoluzionari, sogni 
          di un mondo equo, mi arruolai per fame, per non fare il contadino, per 
          morire eroicamente e non in un mediocre letto di una cascina di periferia.Presto la guerra non mi parve oasi di eroi senza macchia, i confini 
          non erano i buoni e i cattivi e tutto si complicò.
 Mi ritrovai a combattere una guerra che non mi apparteneva, probabilmente 
          non apparteneva neanche ai miei commilitoni, apparteneva solo ai comandanti. 
          La trincea carne da macello.
 Decomposizione
 Decomposizione della carne, del cuore, della vita.
 Divenni presto un disertore, scappai e corsi. Venni raggiunto a pochi 
          chilometri dal confine, fui processato e fucilato.
 “Siamo padroni del nostro futuro, padroni della nostra vita, 
          padroni! Niente più servi, sudditi, solo Padroni!”Urla durante.
 “Ora costruiremo la terra della liberta!”
 Cercai con gli occhi quel ragazzo tra la folla; lo feci inutilmente.
 Urla infine.
 Quella voce un tempo procurava le mie urla euforiche, quella stessa 
          voce diede l’ordine di trucidare un povero contadino vestito da 
          soldato.Volevo solo coltivare patate! Vivere di nulla e morire in un polveroso 
          letto di campagna.
 Trovai la morte in quel deserto, inseguendo un sogno di potere che non 
          mi apparteneva, senza onore, senza gloria, senza voce, senza.
 Sapevo che mi stava cercando, sapevo che i suoi occhi volevano incrociare 
          i miei; mi temeva, ma era pur sempre un guerrigliero e la paura l’affrontava 
          con il coraggio.
 Le sue grida erano ricordi lontani.
 Urla, Urla, Urla, non altra risposta dalla massa senza pensiero, tutto 
          era sotto il suo controllo.
 Li guardavo esterrefatto, continuavano ad inneggiare il mio nome, il 
          nome di colui che li aveva trascinati nel sangue, che aveva macchiato 
          le loro anime condannandoli alla dannazione eterna.Non capivo, fin da piccolo il mio carisma aveva controllato ogni genere 
          di persona amici, nemici donne, commilitoni, tanti soggetti, tante vite 
          erano dipese dalle mie decisioni.
 La gente continuava a seguirmi, anche quando io stesso sarei voluto 
          scappare dal mio corpo e dalla mia vita, loro no, volevano farne parte. 
          Come era possibile voler far parte della morte e della desolazione?
 Eppure continuavano a gridare.
 Cercavo l’unica bocca chiusa in quella complessa massa umana.
 Avrei voluto ucciderlo, ma l’odio appartiene ai vivi, i morti 
          provano solo rancore. La sua voce continuava a martellarmi il cervello, mi ricordava la mia 
          condanna a morte, la disperazione del momento, la paura dell’ignoto 
          che mi attendeva; la sua voce che precedette i colpi dei fucili, fu 
          l’ultima cosa che le mie orecchie udirono. In quel momento in 
          quel interminabile momento mi parve di sentire nitidamente ogni colpo, 
          come se ognuno di essi uccidesse una piccola parte di me.
 Avevo assistito a decine di esecuzioni, ma quella volta, ne sono certo, 
          i colpi non furono solo un’orgia assordante, ma si divisero, ognuno 
          di essi si riconobbe nella propria individualità, come tanti 
          piccoli Caronte mi accompagnarono dalla parte opposta della riva.
 Mi distesi e fu allora che capii di essere capace di volare.Nessuna 
          bocca sigillata solo urla cariche di speranza. Una speranza che forse 
          avrei tradito, trasformandomi in quello che tutta la vita avevo combattuto.
 Era il mio terrore e il mio futuro, ad ogni grido della folla sentivo 
          crescere il mio potere, il mio controllo, avrei creato una democrazia, 
          certo, ma una democrazia controllata, avrei preso possesso dei mezzi 
          di comunicazione, avrei creato scuole che avrebbero insegnato quello 
          che avrei ritenuto opportuno e avrei creato automi.
 Avrei…
 Una democrazia moderna e fasulla.
 Avrei…
 Gli avrei rubato l’anima.
 Nessuna traccia del ragazzo. Riflettei, governo solo uomini….e 
          gli uomini stanno sulla terra, alzai lo sguardo e lo vidi.
 Sospeso sopra le nostre teste, lo sguardo assente, non mi stava ascoltando.
 Interruppi il discorso e rimasi immobile tutti alzarono lo sguardo convinti 
          che qualcosa di eccezionale stesse arrivando dal cielo, non videro niente 
          tranne il sole del giorno e la quiete dopo la battaglia. La quiete che 
          segue le tempeste e che si rifugia sempre nel cielo, lontano dagli esseri 
          umani, dai loro problemi e dalle loro frustrazioni.
 Mi osservavano e io restai pietrificato al cospetto di quella maestosa 
          presenza alata; volava, aveva enormi ali rosse sangue e volava, le ali 
          di un angelo, ma rosse… un rosso intenso scuro, sporco. Ero osservato 
          rientrai nella mente accantonando i pensieri e i ricordi, ci guardammo 
          negli occhi.
 Ebbi paura; “Comandante!” – disse un soldato – 
          mi voltai e ordinai di sparare sul ragazzo alato, tutti mi osservarono 
          confusi.
 Venni portato nella mia tenda e due ore dopo il mio primo luogotenente 
          preparò un comunicato che informava la truppa che avevo la febbre 
          molto alta ed ero soggetto a visioni.
 Nessuno vide angeli tranne me.
 Era il tempo di riorganizzare i pensieri e costruire il futuro, il mio 
          futuro!
 “Vedi Angeli?”
 seduto sulla scrivania vidi il ragazzo sdraiato sulla mia branda.
 “Stai cominciando a stancarmi, continuerai a perseguitarmi per 
          molto?”
 “Può darsi”
 “Perché non mi lasci in pace?”
 “Pace?, pronunciata da te suona molto strana… pace… 
          stai diventando vecchio!”
 “Cosa sei venuto a fare?”
 “A ricordarti che governi solo uomini, che la Storia non può 
          scriverla chiunque e a divertirmi disturbando la tua fragile mente.”
 Avrei voluto chiedergli il permesso di scrivere la Storia, ma un guerrigliero 
          anche vecchio malato e stanco, è un guerrigliero.
 “Ho uno Stato da organizzare, non ho tempo per la spavalderia 
          della gioventù.”
 “D’accordo, ti lascio riflettere, ma ricordati di creare 
          qualcosa di equo, qualcosa di corretto, accantona ambizioni personali, 
          altrimenti…”
 “Altrimenti cosa?”
 “… altrimenti la Storia verrà a riprendersi ciò 
          che ti ha concesso.”
 Scomparve, nuovamente solo;
 Avevo combattuto centinaia di guerre attendendo con ansia e preoccupazione 
          il mio momento, non lo avrei ceduto a nessuno; né angeli né 
          ragazzi.
 La stesura del progetto necessitava comunque di molta attenzione, dovevo 
          convincere di avere buoni propositi anche le truppe e i luogotenenti 
          altrimenti in breve avrei perso il controllo della situazione.
 Esaminai con cura tutte le forme di governo sperimentate nei secoli 
          di storia, quelle in essere ed in fine anche quelle solo teorizzare.
 La prima intuizione, come spesso accade era la migliore; avrei creato 
          una democrazia. Ora restava da definire come avrei potuto mantenere 
          dominio assoluto in una apparente equità.
 Riflettei a lungo e compresi che l’ignoranza era la chiave del 
          potere, la democrazia dell’ignoranza era l’arma pregiata 
          e raffinata che stavo cercando.Scolai birra e mi abbandonai a Morfeo, 
          il giorno successivo avrei fondato uno Stato.
 Convocai i miei generali per elencare il mio progetto.
 “Signori è venuto il tempo si riporre le armi ed avventurarci 
          nello sconosciuto mondo della pace!” temevo che l’angelo 
          apparisse ma non avevo scelta. “So che siete uomini a cui non 
          piace farcire discorsi di estetica senza sostanza, quindi vi elencherò 
          il nostro futuro.
 Creeremo uno Stato Democratico di facciata in cui noi attraverso svariati 
          mezzi che vi elencherò manterremo il popolo sotto regime.”
 “Comandante mi permetta, ma questi uomini non sono ingenui, ne 
          innocui, non sarà semplice attuare il suo progetto.”
 “Non ho né chiesto il Vostro parere, né ho parlato 
          di cose facili o difficili. La prossima interruzione verrà sanzionata, 
          chiaro per tutti?”
 “Si, signore!”
 “Bene, il controllo non sarà militare, ma d’intelletto 
          controlleremo l’istruzione, l’informazione, lo sport, la 
          cultura, il lavoro e persino la vita privata dei nostri cittadini.
 Unico limite al nostro controllo è l’apparenza, tutti dovranno 
          credere di vivere in assoluta libertà. Domande?”
 “Dunque, quale sarà il loro recinto? Ad esempio la libertà 
          di pensiero sarà tollerata?”
 “Non solo tollerata, ma tutelata, noi daremo loro una sorta di 
          foglio bianco in cui potranno scrivere senza però uscire dai 
          bordi. Rispondendo al Suo esempio; la fine dello spazio da disegnare 
          per la libertà di pensiero è la partecipazione, quella 
          è il vero pericolo.
 Ora vi distribuirò un testo di una centinaia di pagine in cui 
          è tutto elencato fino all’ultimo dettaglio, persino le 
          leggi che approveremo dopo le elezioni, ora andate.”
 Decisi di non interferire, attendere nell’ombra.
 Alla mattina mi svegliai a sulle carte riposte con cura sulla scrivania 
          c’era una piccola macchia di sangue.
 Impallidii. Bianco morte.
 Ne conoscevo la provenienza divina, sussurrai:
 “Vieni fuori brutto figlio di puttana… se hai un minimo 
          di palle fatti vedere! Cos’è i testicoli te li hanno mangiati 
          i vermi, cadavere alato?!”
 Apparve un pozzanghera di sangue al centro della tenda.
 Comincia ad urlare
 “Ti diverti a spaventarmi? Guardami sono terrorizzato, guardamiii!!!”
 Presi il bicchiere riposto sulla scrivania, mi chinai e lo riempii si 
          sangue.
 “Guardamiiii!!!!”
 Lo bevetti in un solo sorso, sporcandomi il volto e la maglia di quel 
          rosso intenso.
 “Allora? Non sono terrorizzato?!”
 Tirai il bicchiere al suolo frantumandolo.
 I miei segnali e il mio silenzio lo stavano innervosendo, un uomo dedito 
          all’azione come lui non poteva sopportare l’attesa senza 
          scontro.
 Uscii dalla tenda e dissi ai due uomini di guardia di pulirla con cura.
 Ero stanco di quella sudicia tenda, fortunatamente il restauro del palazzo 
          governativo era quasi compiuto.
 I giorni trascorrevano veloci e né angeli né uomini avrebbero 
          fermato il mio volere.
 Il venti di maggio ci furono elezioni fantoccio che portarono il mio 
          partito al comando della Nazione, tutto era compiuto.
 Continuai a lasciargli segni della mia presenza; macchie di sangue, 
          piume e cose del genere e lentamente logorai la sua mente.
 Poi decidetti di illuderlo di avere vinto, di aver sconfitto la Storia, 
          cinque anni di silenzio, nessun avvertimento, nessun segno della mia 
          presenza.
 Quel periodo lo trascorsi osservando i mutamenti del suo comportamento, 
          l’accrescersi della sua autostima, delle sue pretese, della sua 
          follia.
 Fucilava uomini quotidianamente, si cibava della fame del popolo, si 
          arricchiva di ricchezze terrene, persino il suo fisico era mutato cedendo 
          all’assedio dell’età.
 Una notte sterminò un intero villaggio accusando i suoi abitanti 
          di cospirare una rivolta.
 Quella notte piansi e quando gli angeli piangono e le loro lacrime entrano 
          in contatto con la superficie terrestre, in quello strano connubio di 
          fine ed infinito, si trasformano in diamanti.
 Continuai a disperarmi per giorni e notti ed inondai quella terra arida 
          e povera di ricchezza. Condannando il popolo di quei luoghi ad eterno 
          conflitto.
 “Comandante! Diamanti! Diamanti ovunque! Comandante!”
 “Parla!”
 “Diamanti, diamanti, tantissimi diam…”
 “Questa era l’unica cosa chiara, ragiona e spiegati; il 
          tutto molto velocemente.”
 “Questa mattina durante gli scavi a Nord, un operaio ha trovato 
          dei diamanti, una miniera di diamanti.”
 “Una miniera?”
 “Una miniera!”
 “Chi ha saputo della notizia?”
 “Tutti, gli operai hanno visto, la gente mormora…”
 “La gente mormora…”
 “Già, non è una notizia stupenda?”
 “La gente mormora…”
 “Bhè, sa come….”
 “La gente, la gente mormora… la gente non ragiona, sulla 
          gente ho costruito il mio successo, sulla gente ora…”
 “Non capisco, Comandante”
 “Fuori vattene da questa stanza.”
 Qualche giorno più tardi i boati della guerra, facevano sottofondo 
          ai miei pensieri.“La Storia è venuta a riprendersi ciò 
          che ti aveva concesso.”“Ti aspettavo, sapevo che non avresti tardato, sei venuto a goderti 
          lo spettacolo?”
 “Non c’è spettacolo nella morte, dovresti averlo 
          imparato.”
 “Non c’è spettacolo neanche nella vita”
 “Dipende cosa ti aspetti da essa.”
 Rispose con un sorriso isterico:
 “Quello che si aspettano tutti gli uomini, diamanti, stupidi diamanti!”
 “Li hai fabbricati tu. Possibile che nemmeno in questo momento 
          ricordi gli ideali che ti spinsero a diventare un guerrigliero? Possibile 
          che non ricordi il tempo in cui la tua forza era l’intelletto 
          e le tue armi le parole?”
 “Chi sei ragazzo?”
 “La Storia non ha nome perché è passato, non sforzarti 
          nel ricordo, falliresti. Concentrarti solo su te stesso, non evadere 
          la ragione.”
 “Che dovrei fare, pentirmi, pregare? andiamo, sono un guerrigliero 
          e morirò da guerrigliero.”
 “Lo so non è di questo ciò di cui stavo parlando, 
          e lo sai anche tu, non lo ammetterai mai, ma non esistono solo battaglie 
          di sangue.”
 Una voce fuori dalla porta interruppe la nostra conversazione. “Comandante! 
          Sono entrati nel palazzo! Cosa dobbiamo fare?!”
 “Per me è tempo di andare” senza il tempo di replica 
          me ne andai
 “Comandante!”
 Le grida e gli spari si intensificarono.
 Guardai sulla scrivania il libro e la S&W.
 “Comandante risponda!”
 Li osservai con nuovi occhi e un vecchio sguardo presi in mano il libro 
          e fu allora che mi ricordai di essere capace di volare.
 
 
 Mattia Pari, 
          classe 1983, lavora in una azienda del settore credito, è laureando 
          in Scienze Giuridiche e insegna diversi anni difesa personale. Torna all'inizio Piccolo contributo 
          alla lettura del canto XXXIII del Paradiso di Maria 
          Rosa Panté Il contenuto del canto XXXIII è paradossalmente 
          semplice: attraverso l’intercessione di Maria (La Madonna) Dante 
          può finalmente vedere Dio. Completamente appagato, Dante conclude 
          così il suo viaggio e la sua scrittura.Anche la sua vita giacché il Paradiso fu pubblicato postumo.
 In realtà come si può immaginare il canto, vertice di 
          poesia, come l’estrema e più ardua variazione musicale, 
          presenta molteplici livelli di lettura. Io ho individuato alcuni temi.
 1. LA POESIA Dunque il canto XXXIII del Paradiso è davvero vertice 
          della poesia, Dante porta la poesia alle sue estreme possibilità. 
          Se si considera che, a sua volta, la poesia già spinge al massimo 
          grado la possibilità della parola, si intuisce lo sforzo poetico 
          dell’autore. Vergine Madre, figlia del tuo figlio,umile e alta più che creatura,
 termine fisso d'etterno consiglio,
 tu se' colei che l'umana natura
 nobilitasti sì, che 'l suo fattore
 non disdegnò di farsi sua fattura.
 Bastino come esempio i primi versi della celeberrima preghiera 
          alla Vergine. La preghiera è rivolta da S. Bernardo di Chiaravalle, 
          perché la Vergine ottenga da Dio che Dante possa concludere il 
          suo viaggio, vedere Dio e non morire, cioè non perdere la ragione, 
          ma nemmeno tornare al peccato.La preghiera, che riprende e sublima tratti della liturgia, si apre 
          con una serie vertiginosa di figure retoriche, mai come in questo caso 
          poco retoriche, cioè non ornamenti, bensì sostanza stessa 
          del contenuto. Ecco un nudo, ma eloquente elenco:
 Vergine Madre (ossimoro) Figlia del tuo figlio (ossimoro)
 Umile e alta (ossimoro)
 L’ossimoro è qui espressione della misteriosa 
          natura ambivalente di Maria, ma anche della condizione di Dante vivo 
          nel regno dei morti… Termine fisso ecc. (chiasmo) fattore fattura (figura etimologica)
 Seguono poi anafore, metafore, un tripudio non più 
          da analizzare ma a cui abbandonarsi. In contrasto con questa arditezza poetica Dante (come 
          in tutto il Paradiso) più e più volte esprime l’ineffabilità 
          di quanto ha visto, l’incapacità della memoria e della 
          parole (sostanze prime della poesia) di dire l’indicibile. Per 
          quel poco che dirà dovrà implorare l’aiuto di Dio. Oh quanto è corto il dire e come fiocoal mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi,
 è tanto, che non basta a dicer 'poco'.
 Colpisce qui l’uso sinestetico dell’aggettivo 
          fioco per la voce e la parola che rimanda al canto primo dell’Inferno 
          e all’incontro con Virgilio, anche lui fioco! La preghiera rivela le doti meravigliose di Maria: essa 
          condensa in sé le virtù teologali, essa è luce, 
          calore, fonte di speranza (fontana vivace e così la 
          fontana non è più solo un simbolo, ma la vediamo davanti 
          a noi). Essa è la bontà per eccellenza.Alle preghiere di S. Bernardo si uniscono quelle di tutti i beati, un 
          anfiteatro di luce quasi insostenibile.
 Nulla dice la Madonna per lei parlano gli occhi (il che rimanda allo 
          Stil Novo), i quali, diletti e venerati, prima rispondono a 
          S. Bernardo poi parlano a Dio.
 Senza una parola (il dire ormai è inutile, insufficiente) la 
          Madonna ottiene la grazia da Dio (il meccanismo è lo stesso per 
          tutti coloro che la pregano). Ora Dante può guardare l’inguardabile!!!
 2. L’ESPERIENZA MISTICA Dante ora può vedere Dio. Il canto ha, a mio parere, 
          alcune fondamentali caratteristiche dell’esperienza mistica (così 
          com’è descritta certo già da S. Bernardo, ma in 
          seguito molto chiaramente da S. Teresa D’Avila, vissuta nel 1500); 
          aldilà del fatto che il poeta abbia avuto davvero o meno un’esperienza 
          del genere. a. ciò che si vede, si ode, si prova è TROPPO, 
          è SOVRABBONDANTE, sicuramente PERICOLOSO, perché l’incontro 
          tra finito e infinito, tra uomo e divino è sempre un’esperienza 
          terribile, devastante, ma meravigliosa (fin dal mondo antico: ad esempio 
          la tragica figura di Cassandra); b. infatti chi ha un’esperienza mistica vorrebbe 
          non finisse mai, dolorosissimo è il ritorno alla dimensione solo 
          umana, dopo essere stati “toccati” dal divino A quella luce cotal si diventa,che volgersi da lei per altro aspetto
 è impossibil che mai si consenta;
 però che 'l ben, ch'è del volere obietto,tutto s'accoglie in lei, e fuor di quella
 è defettivo ciò ch'è lì perfetto.
 La riluttanza, a lasciare la visione, secondo Dante, deriva 
          dal fatto che Dio è bene perfetto. c. Questa sovrabbondanza non si può descrivere 
          compiutamente, sono necessarie METAFORE e SIMILITUDINI. In questo caso, 
          Dante, genialmente e contro ogni aspettativa, usa molte immagini che, 
          per dire l’esperienza sovrumana, si rifanno non solo al mito, 
          ma alla quotidianità, a ciò che tutti possono sperimentare. Qual è colüi che sognando vede,che dopo 'l sogno la passione impressa
 rimane, e l'altro a la mente non riede,
 cotal son io, ché quasi tutta cessamia visïone, e ancor mi distilla
 nel core il dolce che nacque da essa.
 Così la neve al sol si disigilla;così al vento ne le foglie levi
 si perdea la sentenza di Sibilla.
 Chi infatti non ha mai sperimentato al risveglio la dolcezza 
          d’un sogno che non ricorda? O non ha visto la neve sciogliersi 
          al sole? d. La visione, inoltre, è sempre dinamica, ma non 
          è Dio che cambia, semplicemente chi vede Dio non può essere 
          com’era prima dell’incontro. Dante più osserva Dio, 
          più ne viene mutato, quindi vede di più, più in 
          profondità. Non perché più ch'un semplice 
          sembiantefosse nel vivo lume ch'io mirava,
 che tal è sempre qual s'era davante;
 ma per la vista che s'avvaloravain me guardando, una sola parvenza,
 mutandom' io, a me si travagliava.
 e. Infine ecco il culmine dell’esperienza mistica, 
          chi vede Dio vede finiti i suoi desideri. Non desidera più nulla 
          perché è riempito il vuoto che cerchiamo si colmare in 
          ogni modo, ma che solo Dio può colmare. Diversa è la proposta, ad esempio buddista, dove la fine dei 
          desideri è rinuncia a desiderare. In Dio non è un vuotarsi, 
          ma un riempirsi, un traboccare.
 3. IN SOSTANZA COSA VEDE DANTE? È la domanda fondamentale non solo dello studente 
          o del lettore, ma d’ogni essere umano, però nemmeno un 
          poeta può dirci com’è Dio, nemmeno un mistico… 
          facciamocene una ragione!Dante poeta, visionario, pellegrino, uomo, in sostanza … vede 
          Dio. Poiché la visione è dinamica Dante vede Dio “per 
          gradi”.
 a. Nella visione Dante prova solo emozioni POSITIVE: dolcezza 
          e godimento puro. Ancora con un’intuizione geniale il poeta ci 
          dice d’aver veduto lo scopo dell’universo, la chiave del 
          tutto e d’aver capito ciò per il grande godimento che prova 
          (non è un caso che tra le tante perifrasi usate da Dante per 
          indicare Dio, vi sia “sommo piacere”, cioè la fine 
          del desiderio, la gioia d’aver tutto compreso).NELLA SODDISFAZIONE DI TUTTI I DESIDERI (la gran fame della lupa) STA 
          LA BEATITUDINE.
 La forma universal di questo nodocredo ch'i' vidi, perché più di largo,
 dicendo questo, mi sento ch'i' godo.
 b. Ecco in ordine cosa vede Dante: – un vivo raggio che può fissare 
          solo perché questo è il volere di Dio. – il senso dell’esistenza: indicato 
          con la metafora del volume. In Dio l’universo è raccolto 
          in un volume, ordinato; sulla terra sono fogli sparsi. Nel suo profondo vidi che s'interna,legato con amore in un volume,
 ciò che per l'universo si squaderna:
 sustanze e accidenti e lor costumequasi conflati insieme, per tal modo
 che ciò ch'i' dico è un semplice lume.
 – il mistero della Trinità, rappresentata 
          simbolicamente da tre cerchi, due cerchi dei colori dell’arcobaleno 
          e uno (il Figlio) nasce dall’altro (il Padre), uno di fuoco che 
          li alimenta e tiene insieme cioè lo Spirito Santo. La sapienza, 
          la sophía greca, la rùah che, in ebraico, 
          è di genere femminile. Ne la profonda e chiara sussistenzade l'alto lume parvermi tre giri
 di tre colori e d'una contenenza;
 e l'un da l'altro come iri da iriparea reflesso, e 'l terzo parea foco
 che quinci e quindi igualmente si spiri.
 – nella Trinità D. scorge il mistero dell’incarnazione 
          di Cristo, nei cerchi (o meglio dipinta nel cerchio del Figlio 
          e degli stessi colori e dunque Dante vede, ma non attraverso il semplice 
          senso della vista) scorge la SUA immagine: di Dante in particolare, 
          dell’uomo in generale. Questa figura è quasi inscritta 
          nella Trinità, il che mi ha fatto pensare all’uomo vitruviano, 
          quello reso famoso da Leonardo. Forse dunque quell’uomo non solo 
          è misura di tutte le cose, ma è al centro del mistero 
          del divino (il cerchio). In ogni caso siamo fortunati perché 
          nella moneta da un euro noi Italiani abbiamo quest’uomo che tende 
          all’infinito. – infine il poeta vede un fulgore: tutto 
          è rivelato. Il fuoco, la folgore sono modi tipici della manifestazione 
          del divino (anche pagano). Ora però Dante è parte della “rota ch’igualmente 
          è mossa” come tutto “dall’amore che move il 
          sole e l’altre stelle”.
 Nella corrispondenza macrocosmo/microcosmo, l’anima di Dante, 
          nella perfetta beatitudine raggiunta, ruota intorno a Dio come i pianeti 
          dell’universo!
 Dio è amore, e questa è l’ultima grande intuizione 
          mistica. Una bella consolazione.
 4. IL CERCHIO a. Oltre alle metafore quotidiane o mitologiche, sono 
          frequenti nell’ultimo canto (ma presenti in tutta la Commedia) 
          le metafore che includono concetti matematici e geometrici… 
          come se a dire le cose estreme la poesia abbia bisogno d’una potente 
          alleata, cioè la matematica. (Platone scrove: non entri qui chi 
          non è geometra, cioè matematico) b. In particolare nel XXXIII canto del Paradiso ricorrente 
          è l’immagine del cerchio, della rota (il 
          cerchio, la circonferenza è infatti simbolo dell’infinito 
          per quel suo apparente non avere né inizio né fine), che 
          culmina nella similitudine finale tra il matematico che cerca la quadratura 
          del cerchio (fatto che nel dire comune indica qualcosa di impossibile) 
          e il poeta che vanamente cerca di dire quello che ha veduto. (Ci sono, 
          però, immagini, dipinti e mosaici in cui Dio col suo bel compasso 
          riesce a quadrare il cerchio, ma è Dio).E dunque ecco l’ultima similitudine dantesca che unisce due somme 
          manifestazioni umane: poesia e matematica e quindi veramente al cospetto 
          di Dio l’uomo è completo… poeta e scienziato.
 Qual è 'l geomètra che tutto 
          s'affigeper misurar lo cerchio, e non ritrova,
 pensando, quel principio ond' elli indige,
 tal era io a quella vista nova:veder voleva come si convenne
 l'imago al cerchio e come vi s'indova;
 ma non eran da ciò le proprie penne:se non che la mia mente fu percossa
 da un fulgore in che sua voglia venne.
 
 Maria Rosa Panté 
          è nata nel 1961 a Borgosesia, cittadina in provincia di Vercelli 
          dove vive. Insegnante di materie letterarie in istituti superiori, attualmente 
          si occupa della produzione di materiale multimediale e ipertesti per 
          la didattica. Ha pubblicato un libro di poesie e prose, L’amplesso 
          retorico. Voci femminili dal mito (2004) e nel 2006 un libro di 
          racconti: Noi che non fummo muse (Manni). Ha partecipato a 
          diversi concorsi di poesia e narrativa, conseguendo premi sia per la 
          produzione poetica, che per la prosa e la saggistica. Torna all'inizio Lettera 
          alle monache di clausura di S. Clemente in occasione della Festa del Transito di San Benedetto, 
          21 marzo '07 di Bernardo 
          Francesco Maria Gianni Reverendissima Madre Maria Gabriela,Reverendissima Madre Scolastica,
 Reverende e carissime sorelle tutte di San Clemente,
 Vi scrivo queste poche e confuse parole sette giorni dopo 
          la celebrazione, con Voi, del Transito del nostro Santo Padre Benedetto…Carissime sorelle nella medesima vocazione, sappiate che davvero per 
          me quell’indimenticabile pomeriggio è stata un’occasione 
          di grazia immensa! Ve ne sono profondamente grato. In mezzo a Voi ho 
          avuto anche la possibilità, ritornando sui luoghi dove è 
          germogliata la mia vocazione, di ripercorrere, in pochi istanti di tempo 
          e soprattutto in quell’anticipo di eternità che è 
          la liturgia, un arco significativo della mia vita, che fra le pareti 
          della Vostra splendida chiesetta ha sempre trovato un grembo accogliente 
          dove far rinascere in me una più forte confidenza col Signore. 
          Siete state voi, con la vostra silenziosa ma tenace testimonianza di 
          fedeltà e di speranza, di attesa e di pazienza, a stendere intorno 
          al mio cuore inquieto una tenda dove riposare e ascoltare la Voce del 
          Dio che chiama, cerca e attende l’uomo!
 Da voi ho imparato l’arte difficile ma necessaria della pazienza, 
          del desiderio (parola tanto cara a San Gregorio Magno!) e soprattutto 
          l’arte oggi rarissima della speranza…
 Come dimenticare? anni addietro ecco oltre la grata pochissime sorelle, 
          molte anziane, qualcuna malata, e tuttavia ogni giorno Voi non avete 
          mai fatto mancare nel cuore e nelle viscere della città il canto 
          tenue della vostra preghiera, della vostra gioiosa testimonianza di 
          amore, di perdono, di dedizione al lavoro e alla comunità, al 
          bisogno del prossimo, alla Chiesa intera…
 E ogni giorno avete lasciato aperta la porta del monastero in fiduciosa 
          attesa che lo Sposo arrivasse…
 E lo Sposo un giorno è arrivato, con la Sua gratuità che 
          è sempre imprevedibile e del tutto esorbitante i nostri calcoli 
          e le nostre attese… lo Sposo vi ha portato in dono volti e cuori 
          nuovi, sorelle tenaci che alla vostra scuola imparassero l’arte 
          difficile della conversione, sorelle pazienti che con la loro perseverante 
          obbedienza permettessero al monastero di continuare a vivere obbedendo 
          all’obbedienza del Figlio, che altro non è se non il suo 
          donarsi al Padre per noi e per la nostra salvezza, perché quell’emorragia 
          di amore dalla Croce Santa inondasse di bene e di speranza la nostra 
          storia altrimenti destinata alla consunzione.
 È dal vostro martirio di speranza che ho appreso la bellezza 
          essenziale di quella schola caritatis che è il monastero 
          benedettino: tanti o pochi che si sia, non c’è comunità 
          dove non si possano e non si debbano inaugurare logiche nuove di amore 
          e perdono, di lode e di gratuità, di speranza e di attesa che 
          solo trovano nel mistero pasquale la loro più vera autenticità 
          e consistenza.
 È per questo che nell’omelia fosse importante sottolineare 
          con voi il paradosso tutto pasquale di un uomo che attende e va incontro 
          alla morte in piedi! Si può dare un’esperienza 
          simile? Alla lettera no, ma nel piano della simbologia spirituale senza 
          dubbio sì e proprio questo San Gregorio ci ha voluto trasmettere 
          del Suo e del nostro Santo Benedetto: vivere pensando con austero realismo 
          alla morte che dovrebbe sempre essere sotto il nostro sguardo (RB 4, 
          47), ma al contempo ecco la necessità di un’intensificazione 
          tutta pasquale del desiderio: Vitam aeternam omni concupiscentia 
          spiritali desiderare (RB 4, 46)! Che bello, che stupore scoprire 
          assieme come esista per san Benedetto una concupiscenza che è 
          buona, quella che proietta nella vita eterna in Cristo ogni nostra esperienza 
          di gioia, di pienezza, di bene, di bello… alimentando una simile 
          concupiscentia della vita eterna è davvero possibile 
          osare la speranzosa attesa della morte in piedi!
 Nuovo Abramo, colui che spera contro ogni speranza (Romani 4,18), il 
          nostro Padre Benedetto, ergendosi in piedi, ci mostra il volto umanissimo 
          e divinissimo della speranza cristiana che riesce a rinvenire il segreto 
          pasquale anche al cospetto della morte, del limite, del peccato, anche 
          sotto la cenere grigia della nostra fragilità e del nostro peccato… 
          quella cenere con cui, a inizio di Quaresima, ci siamo lasciati coprire 
          ci ha infatti ricordato la temporaneità, l’impermanenza 
          della nostra struttura corporea, ma al contempo sappiamo, nello sguardo 
          della fede, che quella cenere è destinata a riprendere luce e 
          vita nel fuoco pasquale: da sigillo di umiltà penitente quella 
          cenere torna ad essere brace che accende la notte della nostra città 
          di fiamme altissime di vita e speranza: la vita e la speranza che il 
          Risorto con specialissima fiducia ha consegnato alle mani fragili ma 
          tenaci di voi tutte, carissime sorelle nascoste nel cuore della città 
          e della chiesa.
 E anche voi adesso, simili a brace coperta dalla cenere, nell’apparente 
          inutilità del silenzio e della clausura, offrite un supplemento 
          essenziale e decisivo, ricco di senso e di logica: il fuoco della fede, 
          della gratuità, della donazione, dell’amore, della speranza, 
          della perseveranza…
 Anche se cosparsa di cenere la brace che siete, la brace che custodite 
          qui nel gomitolo di strade cittadine, è lievito di vita per questa 
          nostra chiesa a Prato: è solo il suo calore che viene dall’ardore 
          del Santo Spirito a innalzare le nostre membra anche contro l’ultimo 
          nemico, la morte, per farci morire in piedi a ogni sterile 
          e oscuro egoismo e peccato.
 Possa il vento dello Spirito, che qui a Prato ha sovente la forza simbolica 
          e la direzione della tramontana, ossigenare la luce e il calore da voi 
          custodito in questo piccolo monastero, benedizione per una città 
          intera, esperienza di speranza per chi vi incontra, misterioso lievito 
          di fecondità apostolica per tutte le diverse membra della chiesa 
          sparse nel mondo! Possiate, con la forza che viene dalla Santissima 
          Trinità, sorgente e compimento di ogni esistenza, rallegrarvi 
          sempre nel Signore per l’umile consapevolezza del dono mirabile 
          ricevuto, la vocazione ad una vita marginale, apparentemente periferica, 
          ma in realtà inscritta nel cuore del cuore della Chiesa che vi 
          custodisce e vi ama come sorelle che quasi mimetizzate fra le case e 
          i palazzi della città, ma soprattutto “nascoste con Cristo 
          in Dio” (Colossesi 3,3), riecheggiano incessantemente la voce 
          della Sposa allo Sposo: “Vieni!”… (Apocalisse 22,17)
 
 
 Bernardo 
          Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia 
          di San Miniato al Monte:Monaci Benedettini di Monte Oliveto
 Le Porte Sante, 34
 50125 Firenze
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