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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 98
Febbraio 2008

Editoriale: Si vive di formule / oltre che di tempo

Iniziamo questo numero con i versi icastici di Vincenzo Celli (suo il distico qui sopra, che amiamo interpretare come una domanda implicita), approdiamo poi alla s/co(i)nvolgente recensione di Daniele Assereto a La Merca, proseguiamo con la sempre intensa vox poetica di Raffale Ibba per giungere alla narrazione realisticamente ipnotica di Subhaga Gaetano Failla, alla lectio lucana di padre Bernardo e ai bei versi poematici di Domenico Lombardini. La foto di Rimini è di Corrado Giamboni che ringraziamo per la gentile disponibilità.

Vi ricordiamo il nostro concorso Prosapoetica 2008 e la kermesse di Francavilla il 16 febbraio.


Scrivere è fuggire?

di Vincenzo Celli

nato postumo

nato postumo
forse nemmeno

rimango imbalsamato
al vetro invalicabile
di un silenzio nervoso

il cane con tre zampe
mi fissa poi riprende
a litigare con la strada

porto i segni
del tempo che frusta
lasciando tacche sulle braccia

e tu che non sapevi
che non hai mai saputo
delle cose che fa la neve per non morire
delle cose che ho fatto io
per sentirne il sapore sulla punta della lingua

***

ipotesi

neve dappertutto
senza che nessuno l'abbia comperata

mani che aspettano
l'acqua calda sotto al rubinetto

si vive di formule
oltre che di tempo

per i luoghi
si passa oltre
riempendo gli spazi

si fanno code in ferramenta
per Rimini è già primavera

***

scrivere è fuggire?

un leccio
un pino
un faggio

un volo

che volare è impossibile
per chi non ha pianto un uomo

ma tu avrai il coraggio
di lasciarmi andare?

mi scrollo l'acqua di dosso
prima di entrare nel tuo corpo da accudire

acclamo il diritto della fuga
o almeno della resurrezione

lancio un osso da un cavalcavia

sono un cielo che abbaia
dietro un manicomio di nuvole

***

cado

cado, dai tuoi occhi
ancora una volta
come cenere

ho accanto, nascosta
la maggioranza dell'iceberg
il gesto che mi manca

si, lo ammetto
qualche volta ci ho pensato
come si pensa alla morte
credendo di non esistere

sono io lo scheletro
rinchiuso nel mio armadio

Vincenzo Celli nasce a Rimini il 2 luglio 1960, città in cui vive. Dopo avere conseguito il diploma di maturità tecnica e dopo una breve parentesi, come dipendente, entra nel mondo del commercio, attività che svolge ancora oggi. Nell'ottobre 2005, scopre alcuni siti di scrittura su internet ed inizia, prima, a leggere le poesie degli altri autori, poi, a cimentarsi nello scrivere le proprie..

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Su La Merca

recensione di Daniele Assereto

I libri sono come le persone. Sono esattamente come gli individui. Alcuni riesci ad identificarli e catalogarli chiaramente fin dal primo sguardo. Da come sono vestiti, da come gesticolano, da come si muovono. Alcuni di questi sono calmi, pacati, quasi repressi, altri sono furenti, furiosi, agitati e iperattivi. Alcuni sono belli, altri brutti. Vi sono quelli che affascinano, e quelli che trasmettono ribrezzo dopo meno di cinque minuti. Qualcuno ti tiene compagnia per qualche settimana ma poi finisce in un buio scantinato della nostra memoria, e altri invece rimarranno per sempre nel nostro cuore, come vecchi amici d'infanzia, destinati ad essere qualcosa di più di semplici individui comuni. Lo stesso vale per i libri, che ancora di più si prestano ad essere conosciuti, vissuti, catalogati ed infine schierati in file immaginarie di librerie mentali. Ma a volte, magicamente, si incontra lo sconosciuto. L'ignoto. Il nuovo.
A volte capita tra le nostre mani un libro che non ci aspettavamo, un libro che forse non era destinato a noi, un libro il cui fato s'è incrociato al nostro, solo grazie al caos primordiale che comanda i fili delle nostre menti intorpidite dalle abitudini quotidiane. Un libro tanto affascinante quanto difficile. Un libro che non è possibile canonizzare all'interno dell'esperienza vissuta, e quindi riesce ad aprire la mente a nuovi pensieri, a nuove emozioni. A nuove realtà. Un libro da scoprire. Un libro da amare. Un libro da vivere.
Incondizionatamente.
Non lasciatevi ingannare dalle dimensioni de La Merca, perchè dentro quelle piccole pagine c'è molto più di quello che si potrebbe pensare, e la lettura non scivola via affatto leggera e leggiadra come uno potrebbe aspettarsi. Ogni lettera al suo interno ha un ben preciso significato, ogni punto diventa verbo, ogni frase è pensiero. La sua autrice, Chiara Daino, riesce a imprimere in ciascuna pagina la gioia della scrittura e l'estetica della lettura, al punto che giunti al termine ci si rende conto di essere diventati dipendenti di una nuova forma di droga, una di quelle più sottili e pericolose. Ma il viaggio mentale fino a quell'ultima pagina è un percorso che non si può cercare di narrare o confinare in una semplice e scarna recensione. Sarebbe come voler riassumere la Divina Commedia in una qualcosa tipo "Dante non muore ma va in paradiso". Inutile, e decisamente riduttivo. Sono però presuntuosamente convinto che se Chiara Daino avesse dovuto descrivere il suo libro a qualcun altro, ci sarebbe ovviamente riuscita. E forse, avrebbe fatto un qualcosa che sarebbe suonato pressapoco così.
Estetica la scrittura, estatica la lettura, invernale nel suo incedere, infernale nel suo creare dipendenza. Uno stile enigmistico e vero per una storia enigmatica e sincera, nera fin dall'inizio all'afona e sinfonica fine. Dichiarano a Chiara Daino: "chi darà a noi la crema?" La Merca le marca. Chiara, dai, no. Marcale, c'è l'amor. O carina, chi è la dama?

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Tempo

di Raffaele Ibba

Sentire sapori, duri e di tagliate aspre;
sorbire spazi, schiusi e coi fianchi aperti;
trovare vuoti, lenti di polsi ottusi;
stare silenzi; finalmente; gli occhi accesi.

Talvolta manca aria al muovere del caldo
che giunge anche al mio inverno
in vagoni di cielo aperti di nugoli
lembi molli di azul e di bruno,
spalancati in lenti cerchi aerei
dominio di voli d’aria calda e fredda
a sostenenti, a farti alto nell’alto dei cieli.
E non c’è da lamentarsi di deserti
o di parti del mondo dove avanza la parte
anche alla lingua del mio cane,
e ci manca un crocchiare d’anime
in questo slogarsi dei cuori
dentro campeggi di danze guerre, scheletre.

Perché oggi è assente un vento di carne,
è non presente una qualche brezza di corpi,
oggi, che non siamo più assetati di Dio,
così pare, oggi,
ed abbiamo vagoni di neolatte empirico
pronti ad ogni sbronza, per ogni osceno vituperio.

Oggi. Quando Dio ha guardato ironico
alla nostra cena missionaria
ed ha sorriso soltanto ai dolci sardi
certi antichi al suo gusto inizio, semplice
di tutto latte miele e mandorle di gioia.
Oggi, che una carezza m’è giunta improvvisa
– perfetta di suoni piacere –

E sento una voce che alza pioggia e sole.
E prego il fuoco di Dio nel tuo cuore.
E finalmente arrendo il mio tempo
alle sue risate, le felici d’amore
pure nei secchi delle idee metropolitane,
le nostre, carsiche di carni umane.

Raffaele Ibba è nato nel 1950 a Cagliari, città dove vive e lavora come insegnante di storia e filosofia nei licei. Si dedica alla poesia in modo intenso dal 2000, per una sua neccessità intima di vita e di cuore. Ha pubblicato due libri di poesia con le Edizioni della Meridiana di Firenze: Il disonore dei canti nel 2003 e La verità bugiarda nel 2006.

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Theatre e Succede

di Subhaga Gaetano Failla

THEATRE

Era fuggito davanti all’immagine del mio doppio – un’immagine distorta, non una mia esatta replica, ma un riflesso di me stesso che mi somigliava e al contempo da me differiva in modo strabiliante, in una maniera così incredibile da inquietarlo e infine spaventarlo, costringendolo alla fuga. Tuttavia egli non aveva visto affatto un altro etereo me, una mia tremolante sembianza: aveva visto soltanto mio fratello, in carne e ossa, e di quell’immagine non ne aveva sopportato la nitida allucinazione che coincideva con la realtà.
Ogni persona è, in qualche modo, il nostro doppio. Adesso vado a visitare mio fratello a Londra. Le metropoli contengono gigantesche moltiplicazioni di noi stessi, replicate per qualche milione di persone, viste d’un tratto, in pochi giorni. L’incontro con mio fratello mi avvicina a un doppio che differisce dunque da me in grado molto minore da quasi tutta la gente che vive nell’immensa città.
Non potrei vivere a Londra. È una metropoli che mi piace, ha qualcosa di austero e silenzioso, di nascosto e introspettivo che mi attrae – città di esuli, luogo di innumerevoli evocazioni letterarie – tuttavia non potrei mai abitare qui, sotto cieli grigi perfino d’estate, e il 31 agosto, oggi per me, i suoi grandi alberi pensierosi hanno già molte foglie gialle a terra. Non potrei vivere senza l’estate mediterranea. L’autobus che mi sta portando per la partenza all’aeroporto di Stansted ha il riscaldamento acceso ed io tra poche ore troverò in Italia circa 30 gradi di temperatura.
Gli ospedali inglesi sono più asettici di quelli italiani. Anche le persone lì sembrano più asettiche, viste attraverso le lenti dello stereotipo. Le case, le cucine domestiche, i luoghi pubblici dove si mangia, le abitudini quotidiane sono invece molto meno asettici di quelli italiani. Il senso dello sporco e del pulito si compensa nelle varie culture in modi diversi, sia per quel che riguarda la pulizia intesa fisicamente sia essa contemplata moralmente.
Ho visto l’ospedale – il Tavistock Centre – dove circa mezzo secolo fa lavorò Laing. Mi è apparso d’improvviso, mentre cercavo la fermata dell’autobus. Sottili fili collegano in modo sempre sorprendente le nostre esistenze. In questi ultimi mesi, in questi ultimi due anni, Ronnie Laing torna spesso nella mia vita. E inoltre, proprio in questi giorni, parlando di ciò che viene distrattamente chiamato un “evento casuale”, la mia amica Anna torna dall’Ungheria, il giorno dopo trovo sul tavolo d’un mio amico le poesie del poeta ungherese Radnoti e il giorno successivo parlo di questi due fatti con un compositore ungherese, seduto per caso accanto a me sull’aereo che mi porta a Londra.
Specialmente in viaggio, mi colpiscono le mani delle donne. Vedo ora la mano destra d’una giovane ragazza seduta a mezzo metro da me. La mia mano e la sua sono divise dal minimo spazio del corridoio dell’autobus. La sua mano cade rilassata oltre il bracciolo del sedile. Essa ha dita lunghe, piuttosto affusolate, ma il dorso è robusto, esprime una forza inattesa. Le mani sembrano suggerire una loro propria vita, una vita autonoma, diversa dalla vita della persona a cui appartengono. O forse, esse rivelano ciò che il viso e la postura – quel che in genere osserviamo d’un corpo – tentano di nascondere. Che gli occhi siano lo specchio dell’anima sarà anche vero, ma essi, probabilmente a causa di tale nota trasparenza, sono pronti a sfuggire, ad essere camaleontici. Le mani, invece, nonostante raffinate cure e cosmetici, sono nude.
Adesso sono in cielo, sull’aereo verso casa (a casa dove?). Il giovane seduto accanto a me mangia un panino imbottito e ha sulle gambe un grande libro con i racconti di Cortázar; un buon compagno, penso, lo scrittore argentino, abile guida verso ulteriori mimetismi. Parlavo poco fa di camaleonti. Sarà quel che si dice “un altro caso”?
Dopo questo mondo al di sopra delle nuvole – un microcosmo racchiuso in un grosso tubo pressurizzato – mi attendono altri mondi a contatto con la terra. Mondi densi di zolle di cemento e di metallo, di angeli caduti.
Mio fratello è in un ospedale a Londra e forse a quest’ora sarà di nuovo nella sala operatoria per un ulteriore intervento. In inglese la sala operatoria si chiama familiarmente, abbreviando l’intero nome, “teatro”, theatre. Si scherzava ieri con mio fratello su questo termine, sugli spettacoli che si rappresentano in questo teatro. Sul suo palcoscenico, tra i protagonisti, appare talvolta Dio, col suo enorme occhio sbarrato, sperso tra gente squarciata, immersa in sonni senza sogni, tra persone camuffate con camici, mascherine e guanti di lattice. Le chiacchiere che si fanno lì riguardano le solite cose: il tempo atmosferico, il sesso, il volo d’una mosca, e stanchi pettegolezzi sul destino e l’eternità, sulla morte e sulla vita.

Sopra le nuvole, da Londra verso Roma, 31 agosto 2007

SUCCEDE

“Che mi è accaduto?” pensò. Non era un sogno.
(F. Kafka, La metamorfosi)

Gesualdo si svegliò dopo un sonno notturno spezzato, breve. Aveva sognato un sogno grigio. Provò ad alzarsi. Ma il corpo era più pesante, molto più pesante del corpo che si muoveva nel sogno. Sentì dolore dappertutto. Si alzò. Fece una sosta seduto sul bordo del letto. Rimase per un po’ piegato a cercare con i piedi nudi le pantofole vicine. Niente luce alla finestra. Forse le sei. Gennaio. Si mise in piedi con gran fatica. Sentì freddo. Qualcosa di orribile era accaduto al suo corpo.
Giunse lentamente allo specchio. Nel breve percorso tra la sua camera da letto e il bagno emise gemiti sommessi di dolore e di paura. Guardò il suo volto alla luce della lampadina nuda che lo abbagliava. Vide nello specchio un volto sconosciuto, orribile. Due occhi grandi e sfatti lo osservavano, tumefatti, sottili fessure lasciavano intravedere le pupille smorte. Una bocca bianca e socchiusa, cascante, era impastata di bava rappresa tra denti scuri e sradicati. Le guance avevano il pallore d’una luna malata e la lampadina elettrica illuminava troppi particolari di quel volto osceno.
“Cosa mi è accaduto?” pensò Gesualdo. “In quale corpo mi sono destato?”
Pensò, con la mente ancora invischiata nei brandelli svolazzanti dell’ultimo sogno. Pensò, per decifrare quel maleficio del suo risveglio. Poi, infine, comprese. Ricordò.
Era passato oltre mezzo secolo dai suoi vent’anni. Era un vecchio.

Subhaga Gaetano Failla è nato a Scalea in Calabria nel 1955. Laureato in Sociologia a Urbino, si è occupato di saggistica sociologica pubblicando con altri i risultati d’una inchiesta e collaborando con una rivista. Suoi racconti e poesie sono stati pubblicati su numerose riviste cartacee, sul quotidiano «Il Messaggero», attraverso RAI Radio 3, e su riviste e siti on-line italiani ed esteri. Ha pubblicato le raccolte di racconti: Logorare i sandali (Aletti, 2002, vincitore del concorso Alla ricerca dell’autore), Il coltello e il pane (Aletti, 2003), La signora Irma e le nuvole (Fara, 2007). È presente con propri racconti nelle antologie I porti sepolti vol. 3 (Aletti, 2002), Racconti sotto l’ombrellone (Perrone, 2007), Vite sportive (Perrone, 2007). Il lungo racconto Il seminario di Vinastra, risultato tra i vincitori del concorso Pubblica con noi, è stato pubblicato nel volume 3x2 (Fara, 2006). Suoi haiku sono presenti, in lingua inglese, nelle antologie, tradotte in tedesco e francese: Zen poems (Londra, 2002), Haiku for lovers (Londra, 2003). Ha collaborato con la rivista «Orizzonti» e con la rivista londinese «Hazy Moon». Vive a Massa Marittima (GR).

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Riflessione sul brano del Vangelo di Luca 9,1-26
la lectio divina settimanale all’Abbazia di San Miniato al Monte

di Bernardo Francesco Maria Gianni (v. anche qui)

La liturgia della messa è la fonte abituale cui attingere la Scrittura, anche se questo comporta una lettura frammentaria della Parola, per cui venire a contatto con il vangelo di Luca con una certa continuità, è un'occasione importante che ci permette di seguire, in maniera sistematica, la vicenda di Gesù e dei suoi discepoli. Nel brano sono inseriti episodi importanti, come la missione dei Dodici e la professione di fede di Pietro. Dopo tutta una serie di grandi eventi di salvezza mostrati da Gesù nei precedenti capitoli – l'ultimo è la rianimazione del figlia di Giàiro, capo della sinagoga – l'aspetto da sottolineare è il cammino di scoperta della realtà che si cela dietro questro maestro di Galilea, che conduce i suoi discepoli a fare esperienza della grande novità che è la sua venuta nel mondo. «Egli allora chiamò a sé i Dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demòni e di curare le malattie» (Lc 9,1) e affidò loro la missione di annunciare il regno di Dio, di guarire gli infermi e preparare gli animi a ricevere la predicazione evangelica. «Disse loro: Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche per ciascuno» (cfr Lc 9,3). In Luca questo versetto accentua lo spogliamento delle cose più necessarie per far risaltare la dedizione alla causa del vangelo. «E allora essi partirono...annunziando dovunque la buona novella e operando guarigioni.» (cfr Lc 9,6).

«Intanto il tetrarca Erode sentì parlare di tutti questi avvenimenti…» (cfr Lc 9,7-9) e cercava di vedere Gesù. È da rilevare un aspetto molto significativo: il Signore Gesù dà a tutti l'oppurtunità d'incontrarlo! Erode sollecitato da ciò che la gente diceva, ha una certa curiosità di vederlo. Ma quando in seguito Pilato scopre che Gesù è un nazzareno della Galilea e lo manda da Erode stesso, questi non è pronto ad accoglierlo perché è ancora chiuso nelle sue logiche di potere. L'esperienza viva della fede ci mostra come il Signore vuole incontrare l'uomo, e quando l'uomo entra in questa dimensione arriva il momento in cui l'incontro avviene davvero. L'evangelista prosegue narrando l'episodio della moltiplicazione dei pani, avvenuto nei pressi della città di Bethsaida, e ricorda che in quella circostanza Gesù accolse le folle e «prese a parlar loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.» (cfr Lc 9,11).

«Un giorno, mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui… domandò: Ma voi chi dite che io sia? (prima di prendere delle decisioni o fare delle verifiche che servono al suo progetto, Gesù si ritira in luoghi appartati per pregare e mettersi in relazione col Padre, e questa è una grande scuola anche per noi perché nella preghiera constatiamo la nostra povertà, il nostro senso di insufficienza e di fragilità di fronte a Dio, di fronte agli altri e di fronte a noi stessi) Pietro, prendendo la parola, rispose: Il Cristo di Dio» (cfr Lc 9,18-20). Per Pietro il Messia è colui che è inviato da Dio, è colui che viene a salvare e ridare speranza al suo popolo! Ma Gesù ha anche un'altra missione da compiere, ed è per questo che ordina ai discepoli di non riferire la professione di fede di Pietro, l'apostolo che parla a nome di tutti. Il divieto di diffondere la notizia che Gesù è il Messia, deriva dal fatto che la folla non è preparata a comprendere le ragioni spirituali della sua venuta, e quindi potrebbe compromettere l'esito della sua missione. «Il Figlio dell'uomo, disse, deve soffrire molto… essere messo a morte e risorgere il terzo giorno» (cfr Lc 9,22). Pietro con la sua confessione aveva inconsapevolmente visto giusto, come è dato rilevare nel vangelo di Matteo che adotta una formula meno sintetica di quella di Luca: «Disse loro: Voi chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E Gesù: Beato te, Simone… perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16, 15-17). La conferma dell'iniziativa del Padre la troviamo anche più avanti nell'episodio della trasfigurazione: «E dalla nube uscì una voce, che diceva: Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo» (Lc 9,35), dove l'evangelista sviluppa la profezia della passione: «E, mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosé ed Elia… e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme», con la sua morte di croce (cfr Lc 9,29-31).

I versetti che seguono ci mostrano l'orizzonte ultimo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (cfr Lc 9,23-26). Queste parole esprimono la convinzione della primitiva comunità cristiana per la quale seguire Gesù implicava imitare la vita del Maestro, anche negli aspetti più dolorosi. Per cogliere il mistero di Gesù sarebbe ingenuo pensare ad un annuncio evangelico, cioè ad una buona novella, che ci presentasse un Signore che entra nella storia e porta la pace, il benessere per tutti, mentre, dopo duemila anni, dobbiamo ogni giorno fare esperienza di tutto quando è l'opposto della pace e del benessere per tutti. Se il Signore Gesù non assumesse questo lato oscuro della realtà, lo coglieremmo in fallo e non potremmo assolutamente accettarlo. Di fatto però noi facciamo tutta la fatica che fanno i discepoli per scoprire, attraverso la rivelazione, che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, che ha assunto fino in fondo la fragilità dell'uomo e vive ed è presente in mezzo a noi fino alla fine del mondo.

Bernardo Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia di San Miniato al Monte:
Monaci Benedettini di Monte Oliveto
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze

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Il discrimine è sfumato

di Domenico Lombardini

i figli crescono alla luce delle vetrine,
[il principio del piacere: basta solo additare]. una vetrina?
no: scandali e sfaceli, un mondo ruinante.
vedi un muro, l’intonaco nuovo: no, solo crepe e fil di ferro
sporgenti, come ossa da corpi sfatti.

l’aria non si fa abbracciare, con schiocco
le mie braccia chiudono circonvoluzioni
ridicole. solo ora mi accorgo: a loro basta
questo, la via sicura, il corso illumitato, il nodo
scorsoio del consumo, l’incurgitamento
stralunato d’immondenzza e fango. sono solo.


Si dice epifania, non il soggetto dell’apparire. Qui è l’ambiguo: cosa appare,
e cosa non è? Mi apparve e disse: vai al mondo e porta la tua verità con voce fiera,
non arresa al dolore. mi sentii amato da quella voce; in me, figlio, con la voglia di essere padre, e con l’orrore di esserlo – un’esplosione: quindi è tutto qui?
accettare la lotta, l’ho sognato: una donna piangeva, mia amica, e io al primo scoppio,
alla prima lacrima, cara, accetta la lotta, non avere paura: abbiamo solo questo.

perché,
se non hai sulla pelle segni, un dolore
che ha istoriato il suo passaggio, nulla di pietà è dato?
per pregare pregherei una pietà orfana, che non cede
il passo ad antichi torti, subìti e mai emendati, una pietà
liberata dal nulla, increata

ognuno vorrebbe per sé e i suoi cari
un alveo di eternità. accogliere un corpo
si può, purché si adagi con cura
su una giusta lettiera di foglie. prego
al di fuori del senso, solo pietà invera
il mio dire. alcuni, per difetto,
costruiscono monumenti e dicono:
ecco, questa è la mia pietà, la croce
e l’altare, il salmo e la parola.
ma poco attechisce di ciò che s’innesta; si finge questo.
ai confini della mia pietà, nessuna parola,
solo gesti, ostensione, mimesi; è questo, s’impara.
vai – ti dicono, con la voce fiera,
al mondo battuto da altre pietà,
con il cuore impietrato da certa attesa.
e mani tese, quando sono, e certi occhi,
passi che si alternano, interpunzione, sorrisi.

resterà qualcosa di noi,
poi che le serate spente
di furore veleranno
per sempre l’antevedere
del giorno? mai più
le nostre voci viziate
annoieranno i vecchi, mai più
le nostre voci squisite
glorificheranno Dio, mai più
la nostra febbre e il balenìo
di coscienza, che di noi
hanno fatto grumo e poltiglia di sangue,
dissigilleranno un segreto nel vuoto


nel piccolo, nella brevità di passi
e gesti che per stanchezza e prassi
perdono levità, per code di facce
e scapole, lo sguardo fisso al muro,
l’incoscienza fatta regola – sul muro
scrostato di edifici del dopostoria
una falena nera a dirmi,
con alterità d'occhi, che questa vita è persa,
scappa, sentimi, scappa, vìa da questa farsa.

Organizzar per transumanar

un corpo, piccolo, ristretto come fosse contratto post-mortem da altra forza, e non è vita
che lo stringe, come morsa. povere spalle, povere braccia, opere sembrano di miniatore
che con certosino lavoro creò ed espose. tutto immoto presentimento di disfatto, di corpo
che butta gas. lo porto in grembo per le esequie nel silenzioso paesaggio
con la stessa pietà con cui deposero Cristo, avvolto tutto bianco soffice pesante pupazzo.
inutile, ad oggi, solo sentire la pesantezza del suo passaggio. sbianco dalla fatica al vederlo
così avvolto, per meandri e cunicoli e catacombe trascinato penzoloni, per adagiarlo
sfinito su un letto di pietrisco.. e l'eco dei passi sull'adito ai recessi, cui
mi volsi stupefatto, mi disse monotona: nevermore, nevermore.

Guardando alla vita appare possibile
una forma, la giusta. vano sembra
un conteggio di morti e ricerca di senso.
cose da fare: accettare il meschino,
il negletto putrescibile del corpo.
eppure vorrei abbracciare, in una casa
proteggere gli affetti – uno a uno –
e i corpi, preservandoli dal tempo,
da questa ottusa abitudine a consumarci

poche cose, semplici: luce netta
in spazio che non adombra, non getta
domande al di là delle cose. nostalgia
di quella luce, ora solo ombre. e come
tornare alla luce, se l'ombra intride
corpo e mani, se ribellarmi
vorrebbe dire rinunciare alla dignità
di questa sciagurata libertà?

Bastarono al mantice e all'aria
quattro piastrelle, forse linoleum.
sì, al mantice e all'aria del ventre,
pochi figli, uno o due, agli angoli
di una casa spoglia, il lavoro, la fatica:
al sudore proposero consumo. Solo questo.

da questa eco altri riverberi,
e altri. mai che l'onda murata
si adagi e con spire avviluppi,
e dica qualcosa di conchiuso, netto.

il discrimine è sfumato; tutto stante
in apparente docilità. eppure spuma
il fermento. il più delle volte
sconosciuto o non visto, ci basti
vedere questo e questo, la casa
e il lavoro, il desiderio non ben saziato anche.

sei tu? - sì, e qui, oltre lo sguardo:
mi rivedo, e vorrei dirti, così è, vorrei il tuo bene.
solo una preghiera, certo, e solo quella.
non sfiora braccia o bacia con pudore la pelle
l'amico, e nulla dice, e allora cos'è? quanta
inutile buona educazione! reo è l'amore taciuto,
colpevole quanto l’indifferenza.

spiando, come dietro paraventi,
stupirsi che ancora come regalo
l'umanità è data, come naturale cosa,
rendersi conto che la violenza
è immanente, come monade,
come se ad ogni carezza, data e ricevuta,
si sentisse: guai a te, non credere sia banalità.


in scena di Deisis
non trovo che mani aperte
cui mi getto - odore di latte.
una corona a protezione, e certo
non frammentata dovrà essere questa cuna.
poche lacune, terribili inezie-semi
radicheranno rivendicando tracce rilevanti - forse.
sazio, la voce, la-la, lalla-lalla, in serico-sterco tatto,
carezzevole addio, in petel: ma è terribile, non andare, ti prego!
ché odore e pelle e areola non sentirò non vedrò, ma luce e suoni,
l'eco… e solo per evitare il pianto, una
musica una voce, e io sarò salvato!


stratificato, l'unghia va avanti, e il dito,
scarificando la superficie incrostata, in giù, e oltre.
strati su strati, i primi estesici, tattili e archetipici - gli odori -
esperisono l'ascendenza animale preverbale.
dopo, l'ontogenesi è filogenesi, pieghe su pieghe
in cumulo, cingolanti, arborizzanti sulla corteccia,
spinti i legami da una forza taciuta, terribile,
che rende tutto nella sua forma, giusta e bella, in evoluzione:
poi, in verbo.

A cuor leggero con te ho fatto tutto,
ed erano le cose peggio agli occhi
di un figlio senza padri. Cercavo sorellanza,
ho trovato maternità.

Incluso, ed è mio. Nessuno distrattamente
come chi tocca distratto potrà intuire sottotraccia.
Per questo si è soli, e non fa niente.
Anzi, pesa.

Questo avvolgerci: con mattoni, con braccia, con altro.
A difesa strenua, certo; che non sia,
e Dio non voglia, però, esclusione:
i reprobi di là. Dio non voglia
concentrazione, i corpi implosi e
soffocati dal peso di noi. Ci spero.

[Solo chi porta una carne segnata può gridare civilmente]

Genova – morendo il giorno
anche qui, in alto, una bava di vento
marino. rincasi, e quel vento con te,
per le scapole, oltre l'uscio della porta.
tutto con ordine, l'amore e il gioco, la casa
e il fuori, la fronte alta di questo fare. è fatto
giorno, un sorriso rinnova nascendo,
come abitudine, la speranza: l'angoscia, e perché?
si chiede chi non vede: l'apparenza contundere
si deve, ché sono i quattro aspetti inermi della vita,
la casa, il lavoro, la voce, il fare - che mancano.
la voce, urlo inghiottito, allo specchio gli occhi stanchi
il naso, lo sguardo mi vedo, e mi dico mi obbligo
alla speranza. alla fine accetto, mi persuado.

una manciata di rena: correndo
tra le dita rivoli di sabbia. inutile
stringere, la stretta teme la caduta,
la provoca. presto, un po’ di acqua,
ché s’ingrassa la sabbia, si deve,
le dita si acqueteranno, poi.
la presa indulge ancora, si allenta infine.
e alla pace, nel precordio umido
di ciò che valse, quando mani e piedi
nel liquido viscoso informavano, corrispose
l’occhio stupefatto, poi il presentimento
di disfatto - la mano vuota.
Per obbligo parrebbe il sorriso smodato
dei giorni di festa, bocche troppo larghe
si aprono, pochi i sorrisi dimessi che,
di moto in moto di timidezza, una nuova speranza
lasciano al cielo. Spero, sarebbe bello dire
senza il senso di colpa di un credo zoppo; spero
che tu stia bene, per il mio e tuo bene,
senza fingimenti, con il giusto egoismo.
Spero che nuova vita riversi il cielo, ché
questa poco somiglia a un’immagine: agape
di amici, attorno al giusto pasto, per condivisione contenta.

per un sospiro, trattenuto come fiato
da mantice, risucchio e sospensione,
occhi di stupore, attesa per
un’apocalisse da nulla – crolli, dolci,
onde sonore murate, grida
sfiatate… la morte, sentenzia il mondo.

[quel fanciullo divino soppresso in culla… nulla di buono
sarebbe venuto, disse la madre. in lui il futuro e la forza di un dio, la debolezza
di un fuscello sul seno.] con madri si discorre di padre,
matrice la lingua, estraneo l’oggetto. mani corrose, battute
dal tempo, venate di vento, con rivoli viola aceto. e cerco pietà
di madre in mondi di padri, vizze le radici sinuose in terra secca,
mani nodose, pomice e zigrino, e la schiena
e i passi d’addio, l'attesa. l'assenza fatta attenzione, oggetto di presenza,
ossimoro, ricerca. e cerco madri in mondo di padri,
madri stanche, dagli uteri esausti, svuotati di ogni ubertà. e cerco padri in lingua di madri,
nulla trovando se non l’eco, la non presenza oggettuale, ma l’anelito sì, il divenire ancora,
di questa ricerca inesausta, per dirimere il frattale lingua-padre. e la ribellione e l’obbedienza? dove collocare il solco d’integrità? dove? per somigliarmi allo specchio, per non sentire l’esistenza
violentata da ribellione e obbedienza, da una tradizione che ci vorrebbe o devoti o eretici, sempre
e sempre in suo ossequio: perché lei esiste, e in positivo e negativo noi fingiamo.
ricordo che nel mentre il travaso di vita profondevo su carta, passeggiando
sulla Via Sacra, immerso in un continuum di tempo, mi volsi e vidi un altare di pietra:
mollemente giaceva una fanciulla divina, bianca e bagnata di sensualità,
sacra di sesso. la riconobbi, e non l'ebbi mai vista; volli baciarla sulle labbra,
su seni piccoli, in boccio; stava su un fianco, il capo con grazia poggiato
sul palmo. avvicinai le mie labbra alle sue; si ritrasse non disgustata, come
per farsi desiderare ancora e ancora; capì e non insistetti, feci due passi indietro
per apprezzare la figura intera. la contemplai per un secolo,
e stimai questo tempo giusta mercede di amore. mi avvicinai, di nuovo volli baciarla, e
lei si concedette sul marmo gelido. sentii la sua febbre.

Domenico Lombardini è nato ad Alberga nel 1980. Si è trasferito a Genova per motivi di studio. Ha stampato, a sue spese, una silloge poetica e alcune sue poesie sono presenti nel web e in antologie. Si è laureato in scienze biologiche nel 2006 e lavora come traduttore di brevetti.

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