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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 82
Ottobre 2006

Editoriale: Rimescolando le forme del tempo

È un verso di Caterina Camporesi, l'autrice che apre questo Faranews, un verso che vorrei adottare come filo rosso di questo numero: cosa sono le parole se non forme, se non segni, con cui tentiamo di interpretare il nostro tempo? il nostro vivere come "complementi di oggi"? (altre parole di Camporesi). Ecco già da qui inizia il nostro viaggio di lettori. Ci aspettano le pregnanti poesie di Simone Lago, un'acuta recensione di Marco Scalabrino su un libro di Hédi Bouraoui; per continuare con la voce autentica di Luca Ariano, due note di lettura ai scintillanti microracconti di Bolivar e alla prima raccolta di Stefanini, i versi del (drammatico, a volte) vissuto quotidiano di Fabrizio Centofanti, Massimo Pasqualone e Giuseppe Callegari, la scrittura dirimente di Giovanni Tuzet, quella mitico-familiare di Maria Rosa Panté, il sapore mistico di Ivan Nicoletto e Bernardo Gianni, quello sapido e sarcastico di Vesna Andrejevic. Buona lettura fra queste forme che rivivranno in voi con echi e timbri unici, lasciando i nostri animi mutati (almeno un po'). Fara sarà presente a Farepace (Venezia 6-9 ottobre 2006). Ultimi giorni per partecipare al nostro concorso!

 

Varchi di verdi acque

di Caterina Camporesi

quando verbi di ieri accordano
complementi di oggi

verdi vene travolgono
ruscelli

sepolti suoni risalgono
in flessuosi toni

fantasmagorie danzano su creste
di ingorghi di straripanti alluvioni

una orchidea abbandona illusioni
per colorare di viola cieli

che si allagano
nell’accogliere le scorie della notte

***

il volto nostro
e quello della terra
perde ogni giorno sogni
in cambio di segni

per la legge dell’entropia
prima o poi scompariranno

eternerai divina arte
sogno e segno?

***

strati di silenzio risoluti guadano
varchi di verdi acque

in scie di venti cavalcano dense nuvole
catturando il sacro degli arcani

dee in semi di idee guizzano
ri-conoscendo l’antico martirio

impastano cielo e terra
rimescolando le forme del tempo

***

bufere di primavera imbiancano
colorate praterie

nell’eco dell’eterno ritorno
il duende agita acque di giada

Caterina Camporesi ha pubblicato quattro raccolte: Poesie di una psicologa, Sulla porta del tempo, Agli strali del silenzio e Duende, edito da Marsilio Collana elleffe, Venezia, 2003. È presente con La sorte risanata nell'antologia La coda della galassia. Collabora alla rivista on line Fili d’aquilone occupandosi di poeti boliviani.

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dalla silloge Eruzioni di Coscienza

di Simone Lago (vedi anche la poesia e lo spirito)

I - Mattino

È già un esperimento sadico svegliarsi
un mattino d'agosto, sui ventotto gradi in camera,
prendere le proprie membra come Proust e farle
aderire lungo i muri della stanza e misurare, capire
che c'è del margine ancora entro i limiti del mondo,
che insomma
con qualche nostra amputazione lo potremmo
ritenere dalla parte del design
una struttura piuttosto ergonomica (però
dalle fattezze alquanto postmoderne
tipo l'uomo vitruviano inscritto
con un taglio di stampo picassiano).

Ma il caldo è un'esegesi superficiale dello stare
in quanto asporta e sublima le paure
in qualche grammo d'acqua e minerali;
e pure è sciocco pensare di potersi
immaginare immersi nel tepore di un mattino di Combray
e trovare un filo d'ideazione che colleghi
i plausibili margini dei perché.

Perché la noia non guarda in faccia la stagione
e per birre e Havana-Cola fa smarrire
ogni proposito di studio e anagogia della Recherche:
così alla fine dell'estate mi ritrovo con lo stesso
vizio di filtrare tutto in soggettiva non giungendo
all'ideazione di alcunché,
scambiando nobili discorsi attorno al tempo
in sermoni sul concetto empirico di spazio.

Starci quindi è la parola, magari in una stanza
con bottiglie vuote al pavimento e alcool
nelle vene che sega e muta il corpo in membra lasse
inserite a forza in crepe di uno specchio frantumato
grande quanto il pavimento, le pareti, il mio paese incarognito.
Starci è pure la parola degli amori estemporanei
quando azzanni tutto in una volta e poi ne scordi pure il nome
e s'installano in testa emozioni mai provate
ma soltanto vagheggiate.
Starci è infine studiare e sopravvivere, prendere
30 gocce di ansiolitico, camminare a piedi nudi lungo
i binari dei distretti industriali, a capo chino pensando
ai libri, alle possibili risposte e al loro peso
francamente insostenibile.

E allora penso che per vie traverse
gli atenei giochino un ruolo chiave
nella formazione di mentalità piuttosto sagge
che osservi qualche volta passeggiare per paesaggi
suburbani con lo sguardo sollevato alle camere
di videosorveglianza.

***

Quanto sopra è germogliato dopo un sogno mal gestito
in cui Marcel faceva sesso assieme alla mia ex
e m'apparivano avvinghiati come koala, appesi
allo spigolo lungo della stanza.
E allora lì
mi son posto il problema delle membra,
della loro dimensione e del rapporto
con tutte le funzioni misurabili del mondo
in cui, come ribadito, stiamo dentro pur
con qualche insuperabile approssimazione.
Per quanto concerne invece il tempo, il sogno
ha intuito la ragione della fissa di Marcel
per l'idea di durata nel suo spazio psicologico
mostrando il volto di Desy (la mia ex) che appariva
piuttosto contrariato.

***

Ma è mattino ed è pur sempre tempo di novità.
Anche se in realtà è quasi mezzogiorno e il sonno
è la porta che permette l'accesso a un nuovo
livello di difficoltà;
a dirla tutta però si è ben lontani dalla cappa
di terrore e mistero di un videogioco tipo Doom:
qui no, al massimo è la bocca della Rex
che si azzanna qualche braga in jeans e il più
della tensione la si scioglie nel frugare fra le tasche
che per caso non ci resti qualche cent
o qualche carta buona per le cicche.

La prima mossa in questo ambiente alieno
è scegliere con quale piede scendere dal letto,
fosse anche
solo scaramanzia oppure il gesto responsabile
di un pazzo che con l'arnese preferito tasta
il suolo e coglie un cenno d'esistenza,
sua e della terra che lo sostiene.

(Credo pure Armstrong fosse in preda
ai medesimi spasmi d'incertezza; e poi d'un tratto -forse-
scorse l'ampolla col senno di Orlando
e piantò la bandiera americana.)

E così mi decido col sinistro, e fatto un passo,
indossate le ciabatte, mi accorgo come il giorno
presenti la medesima texture* del precedente:
qualche libro da diporto sul tappeto, una foto
-dentro un'orribile cornice tipo bomboniera-
che mi ritrae nell'atto sacro dell'ingoio
di un'ostia dal sapore di loacker, un PC
vecchio stampo con monitor marchiato Sampo
che benedice di elettroni bulbo e retina.

E a proposito di tecnologie vorrei tanto
si realizzasse un giorno uno strumento che non fosse
legato intimamente alle grandezze empiriche.
Per esempio al mio risveglio gradirei che il senso
di disagio fosse misurato e proiettato sul soffitto
a mo' di quelle sveglie dell'Oregon Scientific
in modo da potermi organizzare la giornata, tipo
prendere appuntamento da Brugnaro per il rinnovo
dell'EN nel caso fossi fortemente impanicato, oppure
viceversa, se m'apparisse bella tonda una faccina sorridente,
aver coscienza di poter passare la giornata al parco
dando granturco ai piccioni in accordo al sufficiente
livello di benessere.

***

Ma la somiglianza delle forme inganna e il primo
segno di una giornata tutta in salita sta
nella propria immagine che corre all'impazzata
dal più profondo dello specchio; qui
si prova il senso di Narciso in un mese di siccità
nella figura intorbidita dagli umori della notte.
E più s'accalcano le situazioni irrisolte più si sperde
il fenotipo, più mutano i geni e si moltiplicano
a dismisura i tratti di genesi sociale. E si fanno
sulla fronte, sullo slargo dei capelli, dentro ai solchi,
avanti le reclame di prodotti leviganti e vedo Ken
che mi sorride e fa sci nautico e mi propone
un dopobarba al botox capace di darmi
sorrisi a profusione.

In questi istanti di sconcerto vorrei chiamare chi m'ha fatto
nella forma dopante di mia madre e chiedere se
la sequenza Triangolo-Quadrato-X-Giù** funzioni ancora
come mossa speciale per far fronte ai momenti
di dubbio esistenziale.

---------------------------

* Il rivestimento grafico che ricopre -in un videogame- le superfici poligonali in modo da dare a queste un aspetto verosimile.

** Riferimento ai simboli riportati sui joypad della Playstation:

Simone Lago è nato a Cittadella (PD) il 24/12/1983. Vive in un
piccolo paese della provincia padovana, in una delle zone d'Italia col
più alto tasso di aziende e col più basso tasso di quotidiani letti. Studia lettere moderne. Le parole dovrebbero sempre essere pubbliche.

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Su Rosa delle sabbie di Hédi Bouraoui
Edizioni Casta Diva 2004
via dei Bruzi 8/5 – 00185 Roma tel. 06.44700704

di Marco Scalabrino

C’è una volta il Sahara, montagne di sabbia dal gusto di semolino, deserto che non ha mai chiesto la mano del mare. E il sole disco rosso che balbetta all’orizzonte, le carovane, i cammelli; e l’oasi, l’acqua, il profumo del tè.
E c’è Rosa, Rosa dal bel corpo rosa, Rosa coi fianchi brillanti.
E Tar, l’essere-miracolo, il figlio diletto.
E ancora Sterco, Corvo, Ofelia; e Luna-storta, un paese con il motto Liberté Egalité Fraternité inscritto nei cuori e nelle memorie e un altro alle rive dei grandi laghi.

Nato a Sfax nel 1932, Hédi Bouraoui ha compiuto gli studi universitari in Francia laureandosi in Lettere a Tolosa. Docente, è stato Decano del Collegio universitario di Stong e dal 1982 è professeur distingué all’Università York di Toronto, in Canada. Qui ha insegnato Letteratura francese e nordamericana e fondato e diretto il Dipartimento di Studi francesi.
Autore di numerosi volumi di poesia e narrativa è, altresì, critico letterario e traduttore.
Tunisino di madrelingua francese che vive nel continente americano da oltre trent’anni opera, afferma Giuseppina Igonetti, "una mescolanza etnoculturale tanto dal punto di vista della scrittura che da quello della vita privata". "Un miscuglio – commenta Marco Galiero – assolutamente positivo, sia dal punto di vista testuale che dal punto di vista dei contenuti."
La conoscenza combinata delle notazioni esposte ci consente di figurarci l’ambiente nel quale si dipana questo nuovo capitolo delle “mille e una notte”, ci introduce allo spirito “rivoluzionario nella penna e pacifista nelle idee” di Hédi Bouraoui, ci proietta, benché per sommi capi, in questa allegorica avventura. E tuttavia non vengono meno gli interrogativi più pregnanti: Che vicenda è questa? Chi/cosa ne è il protagonista?
Proviamo dunque a tracciare un itinerario tra i venti capitoli di questo “racconto” in versi.
Rosa delle sabbie, le creste capricciose e le curve sensuali, e Sterco, tondo come una focaccia, stringono amicizia. Un venerdì il cammelliere lascia cadere qualche goccia di sudore e Rosa è fecondata. Sterco decifra le linee della khamsa-destino: avrai una gemma, il tuo bocciolo. Un giorno nel dubbio della luce Corvo mormora: verrà al mondo un figlio, percorrerà il miraggio dei deserti e l’eco dei mari, dovrà smantellare il fuoco delle idee preconcette, ammazzare la vipera dell’odio. Rosa mette al mondo un verbebé, svezzato con pistacchi, sorgo d’oasi e halwa di Siria. Il piccolo impara il verbo degli antenati, l’arcobaleno del sogno, il mare del progresso. In questo preciso momento il dramma: un vento violento porta via il figlio di Rosa e lo deposita lontano. La gente che lo ho visto volare da quel giorno lo chiama TAR, che nella lingua del deserto significa: se n’è volato! TAR è incuriosito: perché ogni essere vivente porta sempre un’ombra che lo segue? porta con sé la morte iscritta nel soffio del vento che respira? Come un’ape che bottina diviene facchino delle lingue, spegne la sua sete alla sorgente viva delle parlate della differenza, assimila le varianze del mondo, le loro melodie, i loro accenti. Camaleonte che possiede il globo sotto la lingua, impara per essere libero di assumere il proprio destino. Oracolo dei mutamenti, vola di terra in terra, tenta di fondare uno spazio aperto alla pioggia che benedice tutte le razze, che non altera né le debolezze né i talenti. TAR s’innamora della bionda Ofelia e la sposa. Vive un momento di felicità. Una notte si perde nel sorriso di Monna Lisa: Ofelia gelosa e rabbiosa non tarda ad insultarlo ed è il divorzio. TAR, l’emigrato secolare partito per attraversare le frontiere e trasformarsi, perde tutto tranne la sua memoria. In un inverno severo atterra ad Oasi mosaico, nel regno del Nordir. I radicati gli dicono: che vieni a fare qui? a cercare da noialtri il Vello d’oro? non sei altro che un mercante di tappeti. E TAR ribadisce: so da dove vengo, so dove vado, ho scelto di vivere e di morire nel cuore d’alfabeti sconosciuti. TAR s’innamora di Luna-storta: nel fraseggio argentato dei nuovi giorni ebbero tre figli.
Si tratta allora, come superbamente asserisce Marco Galiero nella prefazione del volume, "di una allegoria autobiografica in cui il poeta parla anche di sé, delle sue migrazioni, del suo distacco fisico da origini che tornano nel testo come un continuo riflusso. Come non riconoscere nel percorso di Tar – che vola via di luogo in luogo confrontandosi ogni volta con una nuova realtà e con le sensazioni e riflessioni che questa gli suscita – il tragitto dello scrittore tunisino?"

Tutto qui? No, di certo!
Il passaggio “il poeta parla anche di sé” deliberatamente sottintende dell’altro.
Un dell’altro rispetto ai contenuti (l’amicizia, l’amore, la morte, il destino e, con precipua determinazione, l’anelito alla fratellanza e alla integrazione dei popoli e degli individui, la cui diversità – nel credo di Hédi Bouraoui ampiamente condivisibile – è piuttosto motivo di reciproco arricchimento) pure, per simboli, compiutamente espressi.
Un dell’altro che parimenti ci intrica, visceralmente ci coinvolge.
Scopriamo cosa, ancora grazie a Marco Galiero: "Potremmo definire Bouraoui come un vero e proprio nomade della cultura: così come i nomadi magrebini vagano nel deserto nordafricano senza preoccuparsi di superare frontiere inventate e imposte da stanziali, allo stesso modo egli, senza limiti spaziali, lascia libere le sue parole di infrangere le barriere linguistiche e quelle che separano un genere letterario dall’altro."
E infine gli squarci rivelatori: “L’avventura di Tar è l’avventura del Verbo-amore: il poeta narra della nascita della sua scrittura.”
Ecco si palesano, nella loro acconcia luce, le locuzioni: “lettere che si trasmutano in mano di destino, un berretto da marinaio per navigare nelle parole: parole-valigie, parole-collegamenti, parola-che- ammalia, -che-lega col filo di seta della grammatica”, e parecchie altre in cui i termini parola, lingua, scrittura, in molteplici formulazioni, scandiscono con vigore il testo.
La Parola quindi.
La Parola che diviene la lingua.
Il verbebé, il verbum bambino, che nella fiera lotta di sopravvivenza, d’un canto, trova occasione di consolidare le proprie recondite radici “per non rinnegare mai il sapore degli antenati”, d’altro canto, di crescere, di espandersi sull’esperienza acquisita allestendo non tanto “i segni di una rivincita nei confronti dell’ex colonizzatore” quanto “l’esigenza di esprimere, nelle forme e nei contenuti, un’adeguatezza ai tempi in cui viviamo, caratterizzati sempre più dalla mobilità degli uomini e delle lingue”.

La parola che, oltre la comune funzione della comunicazione, esercita l’emancipazione dei singoli “parlo la tua lingua non dovrei essere trattato alla pari?”, promuove la fratellanza tra i popoli “non ci sono stranieri ci sono uomini e ci sono donne”, definisce il mondo (I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mondo, Ludwig Wittgenstein).
La parola-creazione che “rompe il codice del linguaggio per arricchirlo, fa nascere una scrittura transculturale”, genera la magia della poesia (Non è con le idee che si fanno i versi: è con le parole, Stéphane Mallarmé).

Un grande esempio, Rosa delle sabbie, della concreta realizzazione dei principi che Hédi Bouraoui ha posto a fondamenta della sua vita e della sua opera.
Era scritto nella mano-destino di Tar, annunciato dal Corvo/Arcangelo: "dovrà ammazzare il cancro che corrode le parole."
È nella consapevolezza onirica di Hédi: "so da dove vengo, so dove vado, ho scelto di vivere e di morire nel cuore d’alfabeti sconosciuti."
Cappello, in chiusura, a Marco Galiero, il quale ha volto al meglio le immagini, gli esiti artistici ed estetici, la multiculturalità di Hédi Bouraoui.

Marco Scalabrino è nato a Trapani nel 1952. Poeta (Palori, 1977; Tempu , palori aschi e maravigghi, 2002), saggista, traduttore ha pubblicato anche commedie in siciliano. Per una più esaustiva presentazione si rimanda al sito www.vaidiqua.it/scalabrino

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È troppo secca la tua retina (poesie da Anno II, raccolta in fieri)

di Luca Ariano (v. anche la poesia e lo spirito


È giunto forse l’autunno
con le sue fresche sere
ma tu non te ne sei accorto,
ancora immerso nel tepore
dei raggi estivi.
Eppure le bacche sono lì
a rosseggiare i mattini,
le tue partite si giocano in B
e non vuoi sentire sulle spalle
quel maglioncino ormai consunto.
Nel suo italiano claudicante
davanti al profumo dell’erba
ti ricorda di volerti bene e cucinarti
un pranzo saporito, di riposarti colorandoti
un po’ le guance.
Quelle pagine non le hai mai sapute
scrivere, leggerle per un attimo
prima che il cristallo del tuo sguardo
si pietrifichi e il treno termini
la sua folle corsa.

***

La vespa avrebbe dovuto ronzare
salendo sulle colline
– magari con il motore arrancare
al primo vento.
Ci sarebbero stati copridivano
da stropicciare, carezze a un cane,
una stanza da riordinare,
sfogliando le pagine d’un classico
difficile da leggere.
Un colpo di spugna a raschiare il tavolo
ed eccoti lì in quei luoghi dove il piede
non calza più scarpe;
sorrisi di circostanza si sono spenti
come le stagioni, come i portici
macchiati a pioggia.
Dieci anni dopo quella casa non è più la stessa
festa e le barbe incolte fanno il paio
con le teste rasate: quel piatto non ha lo stesso
sapore e la birra brucia lo stomaco di acqua.
Ti sarebbe piaciuto si fosse ricordata
del tuo sguardo incespicato
prima che finissero i biglietti per la partita.

***

Lo hanno ucciso lì sul divano
o forse sul letto con tredici
pugnalate;
– così recitano le cronache.
Il coltello ancora sporco di sangue
non verrà più lavato.
La partita proseguirà in qualche circolo
da dopolavoro ferroviario
e sbaglierai sempre le solite carte,
confuso dal fumo e da un ‘cicchino’.
Lei s’arrossa di sorriso nel suo buffo
accento e si lascia corteggiare
nel fresco d’un negozio
prima di spazzare via l’estate,
di spolverare gli ultimi pulviscoli.
Sono ingiallite le tue foto nell’acqua
coi braccioli, lontano quel rimbombo
e il tuo impegno:
nei vicoli te la devi sbrigare tu,
rapido lo sguardo dei passanti
e troppo secca la tua retina
appanna i mattini.

***

Appena ti incontrò, dopo mesi, forse anni
- con la sua sciocca ironia,
ti ricordò della tua carnagione
di latte, dell’abbronzatura sua
sulla spiaggia coi soldi di papà.
Il copione di quella sceneggiatura
fu ben scritto, partendo
da un soggetto meraviglioso
ma la scena s’incrinò in quei dialoghi
finali, senza proferire sospiri.
Quella non è certo stata
la tua festa ma quelle sagre ormai
non hanno lasciato impronta
sulle tue suole.
Il vento ti seguirà con passo di cane
e a nulla servirà chiuder le finestre,
girare a doppia mandata la porta
o metterti sotto coperta,
perché è lì nelle tue stanze da sempre;
lo sai ci rimarrà fino a quando
non ti brillerà a bomba un sorriso.

***

La caccia al cinghiale

Marino te l’aveva detto,
– lì al rinfresco le api
che ronzavano attorno
alle fette di prosciutto,
ma tu dritto
come uno di quei cavalli
nella foto.
È rimasto uno dei tuoi libri
con il frontespizio da dedicare,
una raccolta di Yeats
e alcuni cd masterizzati.
Il rombo della vespa bianca
È restato un modellino
sulla mensola, prima che la polvere
ingrigisca.
Nell’inaspettato tepore settembrino
il gelato è un affresco di fine stagione,
un “magari…chissà”, un “quando o se”
e all’apertura della caccia grufola
il cinghiale e gli spari non li puoi
più sentire.

***

È già il secondo matrimonio
in meno d’un mese e te ne accorgi
quando nel vetro vedi brillare quei fili.
La ruota gira all’impazzata
e pedalando senti l’alba carezzare
la tua camicia bianca,
come se fosse la prima comunione.
Lei ti racconta che – mollata dopo sei anni –
si sbronza ogni fine settimana
per non sentire il rimbombo d’un click.
Quante volte ha piovuto sul bagnato
che le tue scarpe e il tuo giaccone
sanno ancora di umido ma bisogna abituarsi
in fretta a quei raggi.
La nebbia di quelle stagioni lascia
sempre un cattivo gusto
ma il primo tepore del mattino risveglia le ciglia.

***

Quella contrada – lo sai – per te
è rimasta lì immobile, come una fotografia
dove i colori sono tratteggiati
su una tavolozza crepata dal tempo.
Come quella tomba che non puoi vedere
o quella strada sbisciata tra le risaie.
C’era un posto vuoto a pranzo
e tu lì a spiegare l’imbarazzo del tuo volo,
del tuo passo troppo frettoloso
come quando tornavi da scuola.
C’è un porta foto da riempire e un fiore
di confetti che forse il caldo squaglierà.
Non è più per te – o forse non lo è mai stata,
la stagione delle danze,
di quello sgomitare sulle scale
e non ti resta da tenere il vestito
della domenica, un po’ largo e buono
per tutte le stagioni.

Luca Ariano è nato nel 1979 a Mortara (PV), vive tra Vigevano e Parma. Ha pubblicato nel 1999 la raccolta di poesie Bagliori crepuscolari nel buio presso Cardano di Pavia. Numerose sue poesie sono apparse su riviste e siti letterari tra cui Frontiere, Faranews e FuoriCasa.Poesia e su antologie tra cui Oltre il tempo/Undici poeti per una Metavanguardia, curata da Gian Ruggero Manzoni per le Edizioni Diabasis (2004) e La coda della galassia, a cura di Alessandro Ramberti, FaraEditore (2005). Collabora con il sito internet Pagina Zero, Il Foglio Clandestino e La Clessidra ed è tra i redattori della rivista Ciminiera. Nel 2005 è uscita la sua seconda raccolta di poesie Bitume, con la prefazione di Gian Ruggero Manzoni, per le Edizioni del Bradipo di Lugo di Romagna.

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Su 480 caratteri spazi inlcusi e Nell'ora bianca

note di lettura di AR

Nello spazio esatto di 3 sms Fabrizio Bolivar sa regalarci, in 480 caratteri spazi inclusi (Compagnia dei Librai, Genova 2006) un centinaio di microstorie caustiche, tragicomiche, assurde, esilaranti. Una maestria che viene elargita con leggerezza e con un pizzico di rabbia contro certe istituzioni e convenzioni sociali che possono rendere la vita una gabbia da cui si tenta una fuga impossibile. Il tono è generalmente divertito e pungente, alcuni racconti ti lasciano davvero a bocca aperta per la "sopresa" finale. Sceneggiatore di cortometraggi, Bolivar ha una capacità di mettere in piedi storie che possono essere anche episodi di un ciclo espandibile ad libitum. Vedi anche Il quaderno di Hans.

Nell'ora bianca, opera prima di Mariarita Stefanini (Marietti 1820, 2006), ha una musicalità neoclassica (l’autrice è anche pianista) e il fatto stesso di aver aggettivato l’ora del titolo con bianca, riporta alla mente le splendide sculture di Canova.
“Questo passo / non era nel giorno / spostava i capelli / come avessero tempo”: sono i versi che aprono la sezione L’ombra della piena e mi pare possano testimoniare la luminosità elegante di questa raccolta, ricca anche di immagini felicemente epressive: “Si fa scura l’acqua, le barche / addormentano la luce” (p. 19); “se sono pioggia saprò / quante volte morire”; “le rondini stringono i tetti” (p. 32), “il silenzio attende, ora / fermo come i lupi” (p. 41); “sull’erba viva delle parole” (p. 43); “Cade l’aria che i morti non respirano più” (p. 50); “disegno una cupola per non perderti” (p. 56); “Ho staccato una costola / per nasconderti…” (p. 63).
A volte la melodia si insinua mettendo forse la sordina alla vivace brillantezza di alcuni versi, quasi l’Autrice temesse un po’ la loro forza scabra, ma c’è una interpretazione che dà un timbro moderno (per ritmo e sintassi) a queste liriche, come ad esempio qui: “Non ci si supera, è solo / il grido della civetta, il filo / del tramvai, l’arco / che arretra la corda tesa / ma non lancia mai” (p. 54).

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II

di Fabrizio Centofanti

II

si perde un figlio, solo, nella notte
un colpo nella tempia, una ceramica
rotta di nascosto, senza mettere
i cocci sotto il letto.
suicidio, dicono, articolo di fondo
non chiedersi il perché del già confuso
col rosso dei capelli, i colori
di dentro, e gli abiti neri della madre
corpulenta e sudata
stilettata inutile
nell'ultima chiamata al cellulare.

Fabrizio Centofanti è laureato in Lettere moderne con una tesi su Italo Calvino. Sacerdote diocesano a Roma dal 1996, opera soprattutto nel campo della spiritualità e dell'approfondimento della Sacra Scrittura. Ha pubblicato due volumi su Calvino e Rebora, oltre a numerosi saggi e articoli di natura letteraria. Nel 2005 è uscito il volumetto Le parole della felicità (Laurus Robuffo).

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Incendio di fragorose batterie (ed altre varianti)

di Massimo Pasqualone

Incendio di fragorose batterie

Incendio di fragorose batterie
è il tuo sorriso,
collegato all’anima
da metafore barocche.

Dizionario dei sinonimi
e dei contrari
sono i tuoi occhi,
incastonati all’universo
da analogie romantiche.

Roventi silenzi d’agosto
sono le tue parole,
abbarbicate al tempo
da iperboli postmoderne.

Un Ragno,
che tesse il filo della tua vita,
districa la tela
di questo momento.

***

È certo

È certo
Che la spirale
Di ogni emozione
Origina dal silenzio
Alto
Di questa clessidra.
È chiaro
Che l’ondivaga altalena
Di rare passioni
Nasce dalla stella cadente
Di questi minuti.
Alla fine della battaglia
Saremo ancora qui
Pregni semanticamente
Di verità
Rigurgitate.

***

Cravatta appesa
Cravatta appesa
Al collo della vita
Si intuisce
Una felicità sottile,
quasi digrignata.

Ma questa morfina
Presto finisce
Il nodo si stringe
Con chi lo capisce.

***

Ottobre

Il mare
Che mai immaginavi
Schiumare tristezza
Sommerge
Le grida dei bimbi,
Il tum tum dei tamburelli,
L’asso di coppe
Calato
Sul tavolo
Di un’endiadi
D’agosto.
Solo un gabbiano
Tempesta ed uragano
Lotta tra le onde:
presto si stanca
sospira e arranca
si dissolve nella sera
tremenda chimera.

***

È da vedersi

È da vedersi
Se questo arcobaleno
Trasporta i colori del vento.
È da vedersi
Se questa vita,
voglia di una sera di maggio,
ci merita fino in fondo.

È da vedersi
Se questo giorno,
sospiro e lamento di una amore che nasce,
langue come una stella cadente.

È da vedersi,
ma non ho visto.

Finora…

***

La scuola del dolore

È la chemio
sospiravi quasi giustificandoti,
senza più capelli, senza più ciglia,
senza nemmeno la barba,
quella dei tempi migliori.

Siamo cresciuti alla scuola del dolore
mi dicevi sorridendo.

Pensavi al tuo ultimo viaggio.

Ma nessun viaggio è definitivo.
Nessuna speranza è vana.

Deposti gli affanni
non si interrompe il cammino:
la strada diventa luce
la vita...
salda dimora.

***

Ziklon B

Un abisso nero
Ci divide
Da quello che
Tu
Chiami olocausto.

Dove le vittime
Diventano carnefici
Rimangono solo
Sette
Tonnellate
Di capelli.

Un angelo biondo
Sussurra: Achtung, achtung.
Ma non ti preoccupare:
è solo Ziklon B
per un incredibile sempre possibile.

Massimo Pasqualone, ha pubblicato poesie in lingua e vernacolo, ha scritto sull'etica e la letteratura. Insegna Filosofia Morale all’Università G. D’Annunzio, Etica e Storia della Filosofia all’Istituto Superiore di Scienze religiose “S. Pio X” di Chieti.

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In commissione

di Giovanni Tuzet

Sono nella commissione che ammette un certo numero di studenti stranieri (si presentano in genere 8 albanesi, 1 israeliano, 1 marocchino). Sto anche facendo carriera – quest’anno mi fanno presidente. Sono lì per giudicare se hanno il livello minimo per accedere ai corsi della facoltà, attraverso due prove: cultura generale e lingua italiana. L’israeliano in genere se la cava bene, il marocchino se va bene è presentato da un imprenditore edile che garantisce per lui, 1 o al massimo 2 albanesi su 8 sono in grado di seguire i corsi.
In base allo scopo per cui siamo lì dovremmo bocciarne 8 su 10. Ma a questa considerazione se ne sovrappongono altre: innanzitutto, che questi arrivano in genere la sera prima, alcuni direttamente il mattino stesso dopo la notte in treno, proprio tipo albanesi. Se tu li bocci all’esame, questi non prendono il visto e se ne tornano a casa. D’altra parte (escluso quello che lavora in nero dall’imprenditore) occupano un buon numero di posti letto nei collegi universitari. La maggior parte di loro si rappresenta benissimo la situazione: utilizzano quell’anno per cercarsi un lavoro, con alloggio gratis e chi se ne frega. Ci sono poi quelli che ci credono veramente e sono i casi più angoscianti: credono davvero di venire in Italia, riuscire a studiare e inserirsi. Questi te li ritrovi nei corsi mentre parli di ermeneutica e sono una persecuzione, perché ti chiedi sempre: e questo, mioddio, che cavolo può capire? In realtà quell’uno che ce la fa diviene più brillante degli italiani, ma gli altri… te li ritrovi nel corso del primo anno e non ce la fanno proprio.
D’altro canto non sei mica lì per fare indagini di polizia e beccare uno spacciatore, tantomeno per fare indagini psicologiche sull’intenzione del candidato di fregare la struttura universitaria e avere l’alloggio. Non hai la fedina penale davanti e neppure puoi e devi giudicare la persona.
Hai dunque le seguenti possibilità di condotta (le vedi dalle facce dei commissari):
(1) sei un professore universitario e sei qui per giudicare la prova e non la persona: guardi alla funzione per cui sei qui e altro non ti interessa; dunque ne bocci 8 su 10;
(2) sei una persona dotata di senso civico e responsabile (magari anche un po’ di destra) dunque non puoi tollerare che siano addestrati a fregare lo Stato fin da subito: siamo una facoltà di Giurisprudenza, oltretutto! se non lo facciamo noi! e dunque promuovi chi lo merita, cioè ne bocci 9 su 10;
(3) sei un cattocomunista e favorisci i poveri albanesi a danno delle cattive istituzioni che sfruttano il terzo mondo; dunque promuovi tutti;
(4) ti arrabbi con chi ti ha nominato senza dirti niente e cerchi il prossimo anno di essere in vacanza;
(5) te ne freghi e leggi il giornale;
(6) cerchi disperatamente di capire qualcosa della personalità e delle possibilità concrete dello studente di riuscire nello studio; dopo che lo hai fatto ti rendi conto che dovresti bocciare quasi tutti e ti accorgi da come ti sta guardando il collega che lui – con il Preside – è convinto della soluzione (3) o (5);
(7) fai una profonda riflessione sull’ingiustizia della vita e ti vai a prendere un caffè;
(8) pensi al saggio che stai scrivendo;
(9) controlli se un’albanese è davvero carina;
(10) decidi di cambiare mestiere o andare a insegnare negli Stati Uniti dove queste cose non succedono;
(11) ti chiedi se sei masochista, perché sei lì per il terzo anno di fila e perché hai deciso di insegnare Filosofia del diritto e porti problemi stupidi invece di fare l’avvocato e guadagnare;
(12) osservi cosa fanno i colleghi e ti compiaci di non essere come loro;
(13) vai a chiedere al Preside come devi comportarti;
(14) denunci il marocchino;
(15) telefoni al tuo amico magistrato chiedendo se può oscurare le televisioni in Albania;
(16) capisci che hanno capito della vita più loro di te;
(17) ti fai prendere dal senso di colpa.
Di tutte queste possibilità fatico a trovare la migliore, o la meno peggio. Chissà se un collega matematico ha trovato un algoritmo da mettere al nostro posto, che risolva la cosa in modo automatico e giusto. Francamente, per ora e per quanto parziali, trovo più risposte leggendo sul serio la Bibbia. Sarà che sono portatore più o meno sano di cristianità.

Giovanni Tuzet è laureato in Giurisprudenza all’Università di Ferrara e dottore di ricerca dell’Università di Torino in Filosofia del diritto e dell’Università di Paris XII in Filosofia della conoscenza e Ontologia. Ha svolto attività di ricerca presso l’Università di Losanna e l’Università di Ferrara. Insegna Filosofia del diritto alla Bocconi di Milano. Ha pubblicato numerosi articoli e scritti su riviste di filosofia e letteratura e tre raccolte di poesia: Suggestioni di poesia (Officina Grafica S. Matteo, S. Matteo della Decima, 1993), 365-primo (Liberty House, Ferrara, 1999), 365-secondo (Liberty House, 2000). Ha pubblicato Logiche e mancine nell’antologia Nodo Sottile 4 (Crocetti, Milano, 2004) e un’altra silloge dallo stesso titolo nell’antologia La coda della galassia. Con A. Melillo e C. Sciaraffa ha pubblicato la plaquette San Giorgio e il Drago (LietoColle, Como, 2005). Ha curato il volume Simboli in versi (Editreg, Trieste, 2004). È redattore di Atelier.

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Poesie

di Maria Rosa Pantè

Cassandra, la voce

Sono io, parole senza voce, voce
senza parole, Cassandra. Nessuno
ascolta le mie profezie. Tutti
atterriti dall’urlo che mi squassa.
Nessuno ascolta la mia voce, avvinto
ognuno dal mistero preveggente.
Dono del dio, somma beffa! Chi ode
le sue parole non ode Cassandra.
Chi invoca il vaticinio crede a un dio
non a Cassandra. Duplice dilemma
il mio: delirio e ragione. Delirio
e follia, l’amore rifiutare
di Febo saettante, essere del dio
non amante, ma voce inascoltata,
perseverare nel dono tra i roghi.
Ragione, la profezia
che della mia bellezza percorre ogni
fibra, brucia feroce incendio, vibra
la voce fuori di me senza di me.
Nessuna delle figlie d’Ilio tanto
patì: già presentivo
la morte in me, nei figli bambini,
nell’uomo che mi possedette schiava
e amante. Già sapevo il sangue sparso,
già prima di salpare per la rocca
di Micene regina.
Condannata alla vita
condannata alla morte:
condannata al silenzio,
esausta di parole senza voce e
voce senza parole.

Giocasta, l’utero

Il miasma sono io, io il farmakòs
io la peste che uccide
Tebe intera. Il mio ventre l’ha portata
nell’innocente città. Quando il giovane
straniero varcò le porte di Tebe,
non pensai: sentii il laccio antico e arcano,
ma non pensai. Un figlio, dammi un figlio!
giovane eroe solutore di enigmi,
Chiama d’un frutto la dolcezza il mio
utero secco. Mi unii a lui,
rigerminò finalmente la vita:
non sapevo il morbo sparso nel ventre.
Proprio io sono il miasma, io disperata
assassina d’un figlio, io fattrice
di figli dal figlio assassinato da
Edipo, solutore di enigmi:
due volte ucciso dalla madre indegna.
Figlio, padre dei figli, non appenderti,
al corpo appeso: né madre, né moglie…
troppo tardi, perisco!

(le due poesie qui sopra sono tratte da L’amplesso retorico. Voci femminili dal mito, Campanotto 2004)

***

Dietro la croce

Dietro la croce di Cristo sta l’albero
di Giuda il corpo sgusciato: la sua anima
inchiodata alla disperazione.
Pietà, pietà per l’aguzzino orrendo.
e Cristo, nel dolore suo infinito,
nel suo dolore onnipotente,
dalla sua croce onnisciente,
avrà udito l’atroce richiamo!
Avrà subìto anche il patire estraneo
del carnefice. Oh, avrebbe voluto
che mai alcuno si lordasse
del sangue innocente!
Dietro ogni vittima c’è un aguzzino:
ognuno il suo inferno di sofferenza,
di atti indicibili,
di dolori inenarrabili.
Alla vittima sia concesso
un sollievo divino di pietà.

Nonostante tutto sento che rilutterò sempre a pensarmi causa – sia pure innocente – o anche soltanto occasionale della colpa altrui. Perfino sulla Croce, portando a compimento nell’angoscia la perfezione della sua santa Umanità, Nostro Signore non si dice vittima dell’ingiustizia: Non sciunt quid faciunt. (dal Diario di un curato di campagna di Bernanos)


Ultima cena

A mio padre

Sono seduto a capotavola
e non è la mia festa.
A braccia conserte, sorrido
a tutti. Non è la mia festa
ma io sono seduto a capotavola.
Sorrido tra la febbre
che mi rabbrividisce:
remotamente so che questa è
per me vecchio smemorato
l’ultima cena. Apro le braccia,
questa è l’ultima occasione:
dalla punta delle dita
come dalle foglie dell’albero
antico cui somiglio
esce la mia vita: sia vostra, figli,
moglie. Nutritevi della mia esigua
forza di vecchio smemorato.
Grazie per la bella serata:
mi sono tanto divertito.
Così, di giovedì, Gesù sedeva,
la voce suadente e il sorriso
pietoso. Allargò le braccia,
divenne pane e vino,
godette la compagnia dei suoi.
Pure ben sapeva che era
per lui l’ultima cena.
Allargò le braccia e si offrì,
sangue e carne, all’amore dei suoi.
Non suoni blasfemo il paragone:
chiunque ha diritto ad un’ultima cena.

Giovedì santo

Maria Rosa Panté è nata nel 1961 a Borgosesia, cittadina in provincia di Vercelli dove vive. Insegnante di materie letterarie in istituti superiori, attualmente si occupa della produzione di materiale multimediale e ipertesti per la didattica. Ha pubblicato un libro di poesie e prose, L’amplesso retorico. Voci femminili dal mito (2004) e nel 2006 un libro di racconti: Noi che non fummo muse (Manni). Ha partecipato a diversi concorsi di poesia e narrativa, conseguendo premi sia per la produzione poetica, che per la prosa e la saggistica.

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Esordio alla settimana misitca: L'intruso che inquieta e fa vivere
Camaldoli 27 agosto - 2 settembre 2006

di Ivan Nicoletto (monaco camaldolese)

A partire da Atti degli Apostoli 11…
Come Gesù di Nazareth, l’apostolo Pietro è in cammino. Figura singolare-plurale del credente e della chiesa, Pietro non possiede un luogo proprio se non uno Spirito che lo muove, lo inquieta e lo fa vivere.
In questo frangente della sua vicenda, a dire il vero, Pietro circuita presso i gruppi di credenti, suoi connazionali dei villaggi della Giudea, ai quali ha già annunciato il vangelo. Si avverte una sorta di stasi, al coperto di un’appartenenza identitaria senza iniziativa e senza rischio…
Un giorno, ospite di un credente di Giaffa, nello spazio di audizione che è la preghiera, egli sente fame, e nell’attesa della preparazione del cibo ha un’estasi, accade una divina intrusione.
Pietro, o il credente, fa l’esperienza di un’irruzione invasiva di cielo. I suoi sensi vengono aperti da/ad uno sconosciuto che si fa posto in lui. Un “aldilà”, o un “fuori” viene ad aprirsi nel qui.
Discende verso terra un oggetto non bene identificato, un ultracorpo con la forma di una grande tovaglia, in cui si trovano ogni specie di quadrupedi, di rettili della terra e di volatili del cielo.
La visione che si offre all’Apostolo non riguarda però solo la vista ma si accompagna ad una voce intimativa che urge ad un’azione: “Uccidi e mangia!”
Pietro, a quella vista e a quell’ingiunzione è preso da sgomento e da terrore. Si spaventa di fronte all’insinuazione, che sembra diabolica, di infrangere un divieto religioso: “Non sia mai! In vita mia non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo!”
Al suo diniego, la voce gli risponde: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo immondo.
Per rimarcare l’importanza dell’evento, per aprirsi un varco irreparabile nelle pareti della mente, la scena si ripete per ben tre volte. L’oggetto, poi, viene portato su, verso il cielo da dove è giunto.
Mentre Pietro medita perplesso, cercando di trovare un senso e un nesso a quanto ha vissuto, giungono degli uomini mandati dal centurione pagano Cornelio per invitarlo ad andare nella sua casa… Pietro inizia a connettere la visione che lo sollecitava a mangiare gli animali impuri, contenuti nella tovaglia, e l’occasione che gli si offre di entrare in relazione con l’estraneo, come egli dirà più tardi: “non è lecito per un giudeo legarsi a uno straniero o aver contatto con lui.”
Cibi e corpi da evitare, da escludere, per non contaminarsi, particolari di una più ampia strategia disgiuntiva e oppositiva fra sacro e profano…
“Ma”… Un “ma” interrompe e mette in discussione il suo comportamento programmato dal precetto, allargando la concezione dell’umano, innescando una nuova visione e prassi. Pietro aggiunge: “Ma a me Dio ha insegnato a non chiamare nessun uomo profano o immondo.
Pietro diventa un organismo geneticamente modificato dall’intrusione della voce divina! L’indomani egli partirà alla volta di Cesarea con questi estranei e stranieri per recarsi nell’abitazione di Cornelio. In quella casa avverrà un'altra irruzione da “fuori”, l’effusione dello Spirito sui pagani, con grande meraviglia per tutti i fedeli circoncisi che accompagnavano Pietro.

Cerchiamo di lasciarci sorprendere e istruire anche noi da questa scena, in cui accade un mutamento inaudito di prospettiva. Prestiamo attenzione alle tattiche operative, po(i)etiche dell’intruso… Non sarà forse una costante divina, questa dinamica intrusiva che mina gli equilibri e i confini entro i quali l’umano si definisce, e continua a creare cose nuove? Non sarà una storia di rinascite dall’alto/altro incessanti?
Tutto sembra iniziare con una visione e una voce estranee, che vengono da un altrove, dal cielo o dall’abisso dell’anima, e si insinuano nel corso della preghiera di Pietro interrompendolo, s’intrufolano nella sua carne affamata. Qualcosa di sconosciuto, che viene da altrove, da un altro mondo, si apre una breccia nel suo sentire e lo altera. Egli patisce l’invasione di un corpo estraneo come la figura rossa che s’incunea nella sfera blu del pieghevole di questa settimana…
Il mondo della vita non è mai un corpo chiuso in se stesso, ma spalanca attimi di cielo o di abisso. Ci sono spessori, strati eterogenei, flussi, regioni imprevedibili e improbabili che erompono, vengono alla superficie, alla pelle del cuore o del pensiero, un tremito che ci trasforma senza sosta… Non solo voce che risuona da altrove, persona straniera, ma anche tovaglia che contiene qualcosa di selvaggio, di animale, di disgustoso: quadrupedi, rettili, volatili…
Nello spazio delimitato ed escludente della religiosità o della mentalità di Pietro, costituita da frontiere invalicabili che differenziano e separano nettamente la sfera del credente da quella dell’incredulo, del sacro dal profano, del bene dal male, dell’eletto dal reprobo… irrompe ora una Voce che scompiglia un ordine, provoca una discontinuità, schiudendoci ad un altro modo di esistere, di vedere, di pensare...
Sembrerebbe che il divino, più che apparire come un’assicurazione sulla vita, appaia come una mobilità che minaccia i luoghi stabiliti, o mette in questione la proprietà di un luogo, della società di cui facciamo parte: ci disappropria o ci espropria.
Non sarà forse la Scrittura, come in-scrizione dei passaggi del “di più” e dell’”oltre”, più che una codificazione assicurativa di certezze una successione di toglimenti assicurativi, di invii provocanti e provocatori, di eccessi immaginativi?
Non sarà, la fede, un’assenza crescente di bisogno di sicurezza, il lasciarsi rivolgere dall’altro un appello sconcertante, che io stesso non conosco?
E la Scrittura sacra, palinsesto di scritture e di riscritture di eventi, non solleciterà forse le gratuite intrusioni, incursioni, forzature dei suoi ascoltatori, come la Cananea forzò il/ s’intromise nel disegno di Gesù (Mc 7,24-30)?
Intruso non sarà soprattutto il regno di Dio, che non è di questo mondo e tuttavia schiude in questo mondo un altro regno? Intrusione nel tempio (Mc 11,15) o nei templi che noi ereditiamo, edifichiamo, consolidiamo, invece che attendere al mutamento...
Circostanze estranee sovvertono la continuità dei nostri percorsi, linguaggi, abitudini ripetitive, mentre si forma qualcosa di estraneo al presente. Accadimenti legittimano l’attraversamento di confini stabiliti in precedenza. Provocano l’allargamento di un’area impensata.
La visione pietrina fa da battistrada per un incontro che sta per avvenire. Apre la porta su un’impresa in cui avventurarsi con fiducia. Si sviluppa un senso nuovo nell’umano. Un tatto accogliente per altro che si ospita e dal quale ci si fa ospitare…
Non è forse questa inquieta alterazione il cuore pulsante dell’in-carnazione, dell’Amore? Gesù dà carne ad un Dio che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi. Manifesta un’illimitatezza della premura che tutti abbraccia. Invia uno Spirito che soffia dove vuole e invita a rinascere incessantemente ad altro, grazie all’Altro…
Ciò che Dio ha purificato tu non chiamarlo immondo.
Si accenna qui ad un movimento inconcludibile del divino. Ogni volta che noi fisseremo dei luoghi, separeremo il lecito dall’illecito, escluderemo l’alieno che turba e profana… daremo un fondamento all’infondato, renderemo il possibile necessario e meritevole il gratuito
… Ma non sarà l’Emmanuele, il Dio-in-noi e il Dio-con-noi una permanente dinamica intrusiva e allargativa, sprone disorbitante, atto creativo, liberazione, dono…?
Quali sono gli animali, i corpi intrusi, gli eventi che scendono nella tovaglia del tempo che stiamo vivendo?
Quali sono i moti con i quali il divino sta scompigliando e plasmando le mappe dei nostri saperi, pratiche, pregiudizi e credenze…? Il desiderio, la laicità, il cyberspazio, lo straniero, le biotecnologie, la sensibilità ecologica, i flussi migratori, l’intelligenza artificiale, la pace, il genoma umano, il pluralismo religioso, la teoria del caos, le nanotecnologie, l’annuncio evangelico, la morte, la biopolitica, il godimento, le reti neuronali, lo spirito delle beatitudini…?
Non ci chiede, forse, la voce, una fiducia e un affidamento, un esercizio di ospitalità e di simpatia, un corrispondere creativo, responsabile e amante alle visitazioni trasformanti umano-divine?
Permetteremo che in questa settimana accada in noi e fra di noi uno spazio ospitale, animico, comunitario, spirituale? Di essere trasformati dagli eventi di discorso e di relazione che accadono?…

Ivan Nicoletto (Vò Euganeo - Padova, 1958), monaco all'Eremo di Camaldoli, si è laureato in filosofia all'Università di Padova e si è licenziato in teologia alla Pontificia università gregoriana di Roma. Accanto ai servizi che svolge nella propria comunità, si interessa principalmente dell'intreccio tra fede, pensiero ed espressione artistica.

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Sono io la star!

di Vesna Andrejevic

Ed io? Mi avete dimenticato?! Come mai nessuno si è ricordato di me nelle vostre dotte discussioni e polemiche? È una vergogna! Anzi, un’infamia! Ebbene, si dice che se Maometto non va alla montagna, allora sarà lei ad andare da Maometto! Senza di me, caro mio editore, non si fa nessun libro! Se lo ricordi bene! Sono io la vera e unica star di un libro! Chi trama l’intreccio? Ma quale scrittore, lettore, personaggi e altre quisquilie! Esisto solo io! Sì, io sono “una femmina” in carne e ossa, calda, seducente, pronta sempre a blandire l’animo del lettore solo perchè lui mi metta gli occhi addosso. Per me deve perdere la testa pure lo scrittore, anzi, è necessario che lui sia il mio schiavo, che mi segua dappertutto e in tutto, pure nelle piccole bugie e negli inganni perché si sa bene che “con arte e con inganno si vive mezzo anno; con inganno e con arte si vive l’altra parte”, e poi tutto questo fa parte di ogni gioco amoroso. Si tratta semplicemente di un buon affare: io regalo allo scrittore un po’ di fluidità di stile e un paio di trucchetti “da detective”, e lui mi procura sia la possibilità di civettare con chi e con cosa voglio che la libertà con cui solleticare la fantasia di ogni lettore. Già il Boccaccio mi riconobbe come regina delle novelle. Ah, come era divertente essere la sua attrice principale! Eh, quelli sì che erano bei tempi! Che godimento! Ma poi sono venuti quei disgraziati con la pretesa di insegnare al mondo a coltivare “ideali sublimi”, “imprese cavalleresche ed eroiche”, “giustizia, nobilità, amore, libertà” e le altre bazzecole. E il mondo ci è cascato, si è ispirato per secoli interi “agli esempi degli uomini illustri”. Quell’epoca certo non era fatta per me, ma io sapevo che il mio tempo stava per arrivare, anzi... hmm, quando ci penso, il mondo è stato, è e sarà sempre corruttibile e poco propenso ad applicare “gli ideali sublimi” che si trovano in un romanzo. Ecco perché ho elaborato una buona strategia, non mi sono persa d’animo e ho continuato a lottare! Ed ecco perchè io sono la prima femminista! Solo per farlo sapere a tutti! Sono stata la prima a sottopormi all’intervento con cui ho cambiato sesso diventando “il tema”! Ho dovuto cominciare a occuparmi “del principio e della filosofia maschile” per sopravvivere ai vari movimenti, romanzi e romanzacci, racconti e raccontaci, agli scrittori e scribacchini insomma, a tutto per farmi largo. E il mio tempo è arrivato! Eccolo, il nuovo millennio!

Come? Non mi ha ancora riconosciuto? Ossia non vuole riconoscermi? Ebbene, vuol dire che sarò io a rinfrescarLe la memoria sempre giocando a mosca cieca! Però tutto questo a Suo danno, dato che io sono una star galattica! Ma capisce che io ho venduto solo nella prima settimana della mia uscita un milione di copie?! E adesso Lei fa finta di non sapere chi sono! Per carità, Sig. Editore, vada a raccontarlo a qualcun’altro! Forse per Lei io non sono ancora abbastanza buona? Non ha ancora capito che nel mondo d’oggi io sono buona se vendo e se mi vendo bene? Allora non Le pare che questa cosa sia il migliore indicatore del mio successo? La mia campagna pubblicitaria ha dato gli ottimi risultati sul mercato! Ma che marketing! Sa, dapprincipio mi hanno stampato solo in diecimila copie mandandomi in anteprima a critici, giornalsti, ecc. Parlare di un il libro prima che arrivi in libreria! Desideriamo sempre maggiormente o la cosa altrui o quella che non c’è, no? Solo dopo tutto questo clamore io mi sono presentata in tutta la mia bellezza! Certo che sono andata a ruba solo perché mi ero fatta aspettare! La gente doveva avermi a ogni costo! È successo pure che le mie sorelle maggiori, che negli anni precedenti non erano di moda, sono state ristampate e sono andate a ruba con tirature triplicate! Ecco cosa vuol dire essere di una famiglia perbene, caro Editore! E mettersi in testa di fare dei bei progetti! Ma prima di tutto, si deve far chiasso! Inoltre, la stessa cosa che fa Madonna! Prima fa uno scandalo e poi esce subito un nuovo CD con l’annuncio del nuovo concerto! Va bene, se lei può fare così allora per quale santa ragione io non potrei fare la stessa cosa?!
Il successo, naturalmente, fa ammalare la gente e così sono subito sbucati i primi critici: moralisti che condannavano il fatto che attaccassi le fondamenta del cattolicesimo e di tutta la struttura ecclesiastica, cioè le fondamenta dell’intero mondo ecc.! Ma Le dico che si tratta solo di gelosia: loro non sono capaci di vendere nemmeno qualche migliaio dei propri capolavori. Poveracci! Dicono che i miei personaggi non siano riusciti bene! Ma se io non fossi tanto misteriosa, enigmatica, pronta come un buon detective a giocare a nascondino come potrei mantenere quegli inetti che guadagnano una bella percentuale su ogni vendita rimanendomi sulla groppa per sempre? Ma dico ha mai riflettuto, stimatissimo Editore, su chi sceglie l’argomento? Lo scrittore? Il personaggio? Oppure è esso stesso a imporsi per la sua forza e attualità? E perché si sceglie un tema anziché un altro? E come si sceglie il periodo adatto per la sua presentazione?
Oggi c’è una sola regola, caro Editore. Quanto più è scioccante e spinto, tanto meglio si vende! Se mi permette di onorarLa della mia opinione, tutti i dubbi gelosi e perfidi sul fatto se un tema sia vero o a “comando” per raggiungere scopi indegni per non dire politici, o se un tema possa avere una sua “metastoria” che colpisce di nascosto distruggendo una cultura, una civiltà e così via… tutto questi dubbi li lascio a Lei e ai miei critici perchè possiate occuparvene con calma nelle vostre stanzette o nei vostri studi illustri da cui escono tonnellate di ricerche scientifiche con cui stentate a assicurare ai vostri figli una vita decente. Quanto a me, io ho scelto di girare il mondo e i suoi palcoscenici e di raddoppiarmi, triplicarmi, decuplicarmi anche nei miei film, siti Internet, ecc. Non vede quanti sono i miei seguaci? Lo so, lo so, un buon cavallo solleva sempre grande polvere, no? Guardi un po’ solo i titoli dei libri di oggi: “L’ultima cena”, “L’ultimo templare”, “L’ultimo segreto” ecc.

E allora Le ha capito chi sono? Forse ha riconosciuto mia cugina che per fortuna non ha dovuto fare finta di essere qualcun altro per adattarsi ai vari ambienti e tempi come ho dovuto fare io. È sempre stata stimata e riconosciuta! La trama, ecco di chi sto parlando! Un buon intreccio veniva sempre stimato; però, si capisce, senza di me non c’è nemmeno un buon intreccio, è ovvio, no? Devo venire sempre prima io, eppure io sono sempre collegata a un intreccio interessante e divertente, ma solo perché esso mi fa risaltare meglio e poi io posso solo venire dopo il mio cuginetto, complicato e affascinante, condito con le cose “che non si toccano mai” magari cosparse di un po’ di polvere “criminosa”, tipo le teorie sul simbolismo e quelle del complotto globale perchè si possa dire di me che sono “una buona ossatura ad una trama avvincente”.
I mio sangue scorre nel “Codice Da Vinci”: non vede quanto ci amiamo Dan ed io? Quanto l’ho aiutato con la ricerca del Sacro Graal e del suo enigma, con la teoria del complotto degli elementi eretici che creano sempre i buoni “colpi di scena”? Il mio successo è tale che un “Library journal” mi considera “un capolavoro che bisogna inserire nell’elenco dei libri obbligati da leggere” mentre altri mi considerano un dileggio e un insulto intollerabile nei confronti del cattolicesimo, ma poi tutti hanno dovuto comprarmi e leggermi, no? Ecco perchè io sono l’unica vera star nella mischia letteraria! In breve, io sono il biglietto vincente. A chi può interessare la descrizione dettagliatissima di una modesta chiesa anglosassone mai nominata in una storia d’arte?! Glielo ho detto centomila volte, la cosa nuoce al mio fascino! L’ho avvertito che doveva conoscere tutti i dettagli della mia vita, per evitare che un pignolo scopra da qualche parte che “La Vergine della rocce” non è un olio su tela, ma un olio su tavola! La cosa mi ha fatto infuriare, eppure io, il mio Dan, lo adoro immensamente! Mi ha reso miss universo in una quarantina di lingue straniere! E gliel’ho detto di lasciare fare tutto a me dato che non importa se mi sputano addosso e non mi curo dell’effetto che la lettura di un romanzo può avere su persone non dotate di sufficiente spirito critico. Per carità! Chi se ne frega? Si sa benissimo che stiamo solo giocando! Siamo qui proprio per questo! Ecco perché oggi le mie amiche, anche se non con tanto di successo, stanno giocando sempre di piú con l’istinto basso della gente, con la fame di pettegolezzi: nessuno ha il tempo per lambiccarsi il cervello se Maria Maddalena si fosse sposata con Cristo o no. È solo un osso che ho gettato al pubblico perchè possa rosicchiarlo.

Come? Quali altre ossa potrebbero essere interessanti? Bravo, una bella domanda! Si vede che sta cominciando a pensare “da editore”! Bene, vediamo un po’... ecco, si immagini una mia amichetta che sostenga che il virus dell’aids è stato fatto in laboratorio, e che un’altra mia cuginetta che Le spieghi la teoria del complotto globale per cui tutto il nostro mondo è dominato da un centinaio di potenti che desiderano sterminare gli altri come orribili scarafaggi con guerre, malattie infettive, droghe e altri mezzi necessari… Mi scusi, ma sono decenni che tutto il mondo ne rumoreggia, ma sentirà parlare ancora, molto presto, ne sono sicura!
Come: “Forse non no sentirò parlarne”? Cosa vuol dire? Il ritorno dei guerrieri?! Ma come si permette? Questa è la mia epoca! Non ci sarà nessun ritorno “degli antichi ideali”! Non se ne parla nemmeno! Non vede che io sono presente dappertutto?! Film, teatro, mass media, pubblicità, tutto mi appartiene solo a me! Ho sputato il sangue per ottenere questa fama e non permetterò a nessuno di rubarmela! Sono solo io la vera star! L’unica! Io sono la trama non l’ordito! E mi lasci in pace con il suo Dostoevskij! Mi ci manca solo lui!

Vesna Andrejevic si occupa di traduzione multimediale a Belgrado. È professoressa di lingua e letteratura serba e di letteratura internazionale e fresca neolaureata in lingua e letteratura italiana. Fra i vari riconoscimenti: la segnalazione nel concorso Pubblica con noi (2005), il II posto al concorso Artistico Internazionale “Amico Rom” (2005) e il Premio ICON (2006). Scrive narrativa, traduce film e i libri e coltiva i suoi sogni e aspirazioni letterari.

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Riconoscere l'ombra e altre poesie

di Giuseppe Callegari

Riconoscere l’ombra

Corpo
Membra sezionate
Regalate
Acquistate
Rubate
Maciullate
Spalmate
Ricomposte

Corpo
Asincronico traffico di emozioni

Soffio non visibile
solo percettibile

Riconoscere l’ombra
che si dipana dalla carne


Preghiera

Fissità scandita
da movimenti impercettibili

Punto indefinibile dello spazio
Mani strette
Nulla vada perduto

Orecchie tese
Ingenua attesa di risposta

Onnipotente metafora
di un incerto presente
vestito di futuro immaginato

Figli (famiglia)

Famiglia
Corpo necrotizzato
Rivoli di sangue virtuale
rimasugli di set cinematografici

Famiglia
Responsabilità respinte
Fucina incapace di produrre
manufatti collaudati
Pezzi che si rompono in rodaggio

Figli
Passato non pervenuto
Futuro inconsistente
Tutto
Qui ed ora

Mancanza di divieti
Punizioni demonizzate

Ricerca disperata
di una voce di un volto, di uno sguardo

Straziante grido di aiuto
che affonda la lama

Violenza obbligata
per disvelare il presente
e sancire l’assenza

settembre 06

Giuseppe Callegari ha pubblicato con noi L'amore si sporca le mani e Messa a fuoco manuale. Sue poesie sono rintracciabili in diversi Faranews.

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La notte della fede e la luce eucarsitica (omelia per la XX ord.)

di Bernardo Francesco M. Gianni

Quella eterna sorgente sta nascosta / Ma so bene dove sgorga la sua onda
Anche se è notte / Il suo fulgore non resta mai offuscato
Ed ogni luce so che da lei proviene /Anche se è notte
E questa eterna sorgente sta nascosta / In questo pane vivo a darci vita,
Anche se è notte / Qui se ne sta, chiamando le creature
Perché di quest’acqua si dissetino, / in forma oscura,
anche se è notte. / Questa viva sorgente che desidero
In questo pane di vita già la vedo, / anche se è notte

Carissimi fratelli e sorelle,
abbiamo anche noi raccolto l’invito che la Sapienza ci ha rivolto con le sue ancelle dai punti più alti della nostra città: chi è inesperto accorra qui… siamo saliti quassù nella casa della Sapienza, dimora sicura e ospitale, perché anche noi ci sentiamo e vogliamo sentirci inesperti, bisognosi radicalmente di essere nutriti dal pane della sapienza, dal vino dell’intelligenza… il pane che nutre la fede, il vino che riscalda il sangue della speranza e il fuoco della carità… un invito che è comunione piena con la Sapienza del Signore, di un Dio che non abbandona la sua creazione, non dimentica il suo popolo, non ignora la nostra indigenza: chiede tuttavia e innanzitutto che anche noi ci riconosciamo indigenti, inesperti, affamati! Questo è il presupposto di ogni autentica esperienza di fede: non l’autosufficienza propria delle nostre rigide armature costruite su incrollabili certezze, ma la scoperta inquieta e al contempo liberante del nostro patire, del nostro desiderare, del nostro attendere e la scoperta di quanto la nostra più vera dignità consista anche e soprattutto nell’umile accoglienza di questo nostro ineliminabile, costitutivo ma anche provvidenziale limite… Ecco perché ho scelto di iniziare stamane questa breve riflessione su quell’infinita sorgente di vita e amore che sono il pane e il vino – la carne e il sangue di Gesù – con una intensa lirica di S. Giovanni della Croce, il grande mistico carmelitano, vissuto nel secolo XVI in Spagna, una lirica dove il poeta, mediante la fede, soltanto grazie alla fede, vede e riconosce la vera, nascosta sorgente di ogni dono divino e di ogni esperienza di grazia, vede e riconosce “anche se è notte”, come dice il ritornello, proprio perché la fede illumina pian piano l’oscura notte della nostra fede, della nostra speranza, della nostra carità… e ancora… l’oscura notte del nostro tempo inerte, delle nostre tediose giornate, dei nostri spazi reclusi… e d’altro canto il poeta ha il dono di una fede così capace di illuminare qualcosa dell’origine divina di ogni cosa in forza della sua personale, sofferta esperienza del limite, della notte, delle reclusione… il poeta, il mistico Giovanni della Croce ha infatti davvero conosciuto e toccato nella sua carne l’esperienza della privazione assoluta, potremmo dire – in una parola – della croce: “Il cantico dell’anima che si rallegra di conoscere Dio attraverso la fede”, così si intitola la lirica che abbiamo letto, fu scritta nei nove terribili mesi passati a Toledo in una cella tanto piccola da impedire al poeta di sdraiarsi, nell’oscurità più totale, nell’abbandono più radicale di confratelli e amici, senza una benché minima possibilità per lui di una vita liturgica e sacramentale…
In quella radicale privazione, in quella notte costante e totale, in quella assoluta assenza di segni visibili della grazia di Dio – i sacramenti – matura la fede di Giovanni della Croce, ormai divenuto lui stesso eucaristia vivente: una fede che è diventata sempre più incessante affinamento della sensibilità, dell’intelligenza, della volontà grazie al quale si arriva ad intuire come non vi sia privazione, non vi sia oscurità, non vi sia inferno né abisso, non vi sia deserto capace di spengere del tutto il nostro desiderio di pienezza e di senso - Così abbondanti son le sue correnti, che inferno, cielo irrigano e le genti, anche se è notte.
In quella situazione di radicale privazione – la prigione del santo poeta, ma anche la prigione delle nostre più tremende sofferenze – la fede non può più essere banale ricerca di certezze scontate e a basso prezzo, ma istanza severa, appello rigoroso, domanda incessante di amore che corrisponda, anzi sopravanzi il nostro bisogno di amore, il nostro non poterci accontentare dei nostri fragili orizzonti quotidiani: fratelli e sorelle carissime riconciliamoci – nonostante le pretese di onnipotenza della nostra cultura tecnologica – con questa parte scoperta di noi… S. Giovanni della Croce ha accolto questo limite e quella prigione è diventata per lui scuola ed occasione di grazia… anche se è notte, ha scoperto, affamato, che nel pane vivo di Gesù sta la sorgente nascosta, gratuita ed amorosa che ci dà la vita; assetato egli ha scoperto la sorgente che disseta chiunque; anche se è notte… anzi proprio perché è notte… il poeta riconosce la luce, la sua sorgente divina, la provvidenzialità della minima luce che nella notte è fiamma sicura che dice dell’amore della trinità che non ci abbandona mai… Giovanni della Croce ferito e guarito da questa fede così radicale perché maturata dalla sofferenza e dal limite riconosce il respiro divino nascosto nel pane offerto da Gesù: pane lievitato dall’amore del Padre che ci dona un figlio eternamente disponibile – potremmo dire, per usare la metafora del cibo, un Figlio eternamente assimilabile come si assimila il pane – un Figlio, dicevo, eternamente disponibile in forza di quella donazione suprema che è il mistero pasquale…
Fratelli e sorelle carissimi, S. Giovanni della Croce, che per nove mesi non ha mai potuto adorare e mangiare il pane consacrato, ha saputo riconoscere mediante la fede quel pane vivo, ma noi, talvolta, proprio come i sordi interlocutori di Gesù, abbiamo il Signore davanti ai nostri occhi, ma non lo sappiamo riconoscere… non abbiamo l’umiltà di riconoscerci affamati e bisognosi e non abbiamo più posto per Lui, per i suoi doni, per quel dono specialissimo che è l’eucaristia, il suo silenzioso ma obbligante magistero di donazione, comunione, apertura, servizio fraterno, fedeltà, speranza escatologica…magistero che apprendiamo e facciamo nostro solo se la nostra fede è capace di accogliere e custodire l’indecifrabilità di quel mistero, ma al contempo se rinunciamo a ridurre l’eucaristia a una sorta di magia di trasformazione del pane in essenza divina in forza di formule arcane che solo il sacerdote è deputato ad usare……il mistero a cui siamo invitati è molto più grande di un pur nobile problema teologico e filosofico e molto più fecondo e verace di un mero prodigio miracoloso: consiste -lo ripeto- nello scoprirci affamati della vera sazietà che solo il Signore Gesù può donare, nell’accettare che il suo pane dona ed esige di dimorare in lui e lui in noi, e che questa reciproca dimora significa per noi vivere per lui come lui vive per il padre, il che significa vivere per amore, nell’amore, grazie all’amore, gratuito, disinteressato, perseverante, fedele e capace di vincere la morte donando la vita… solo così riconosciamo la presenza del Signore in quel pane, il suo essere carne, pane di vita eterna: solo così viviamo eucaristicamente aprendoci con fiducia all’attesa della Pasqua eterna, quella dell’ultimo giorno e intanto, nell’eternità che pure è già iniziata, “rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo”, come ci ha detto Paolo, rendendo grazie “anche se è notte”, anzi proprio perché è notte, profittando del tempo presente – ancora Paolo – perché i giorni sono cattivi, vigilando, come coloro che nulla hanno di più caro che ascoltare la volontà di Dio… nella sobria ebbrezza dello spirito, quello del vino buono di Gesù, il vino che allieta il cuore, non droga la vita, dilata lo sguardo e vince il pallore della notte:

Quella eterna sorgente sta nascosta /Ma so bene dove sgorga la sua onda

Bernardo Francesco M. Gianni è nato a firenze il 28-xi-68. Laureato in Lettere antiche su un testo umanistico di Coluccio Salutati, entra in monastero nel 1996, a San Miniato al Monte. È monaco benedettino olivetano, professo perpetuo dal 2001, "prete" dal 2006. Per contatti:
Abbazia di San Miniato al Monte, Le Porte Sante, 34 – 50125 Firenze
tel. 055.234.27.31 - fax 055.234.53.54 - mail: sanminiato@tin.it

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