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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore





Numero 30
Giugno 2002

Editoriale: La forza discreta della mitezza

Giugno, estate, progetti per la vacanze che possono richiamare progetti di vita. La situazione "globale" richiede il coraggio di esporsi, di proporre visioni alternative: dove sono i miti (da intendersi come aggettivo)? Dove gli intellettuali engagés? Per essere costruttori di pace bisogna comunicare, dialogare, ascoltare, solidarizzare… insomma sporcarsi anche un po' le mani. Un modo particolarmente efficace di farlo è quello di chi è mite, che non significa essere remissivi, ma pazienti e inclini alla benevolenza, disposti a capire e ad agire con rispetto e senza aggressività.
La parabola della mia vita apre questo numero particolarmente corposo e ricco anche del tempo che vorrete dedicargli. svelandoci la storia di una scelta particolare. Continuiamo con un breve intervento di Chiara Lubich, con alcune massime di Confucio, con una poesia di Andrea Campanozzi e un racconto di Danzio Bonavia OPM. In Cinema…grafo si parla di Italiano per principianti.Chiudono Faranews la recensione a Esodo di Guglielmo Forni Rosa e la segnalazione di alcuni siti interessanti. Buona estate!

Rupert Brooke (poeta inglese 1887-1915)

 

La parabola della mia vita
(per comunicare con l'autore, che desidera restare anonimo, potete contattare Fara)

Eccomi finalmente a te con un bel pezzo della mia storia!
Ho pensato di scriverla come un racconto,una parabola, perché così è stata per me; ho voluto raccontare tutto (ciò che era possibile e "sinteticamente"), perché è un tutt'uno: tralasciare il passato e raccontare solo il momento della chiamata non sarebbe stato possibile. Senza la "conversione" prima, non si capirebbe la chiamata poi.
mi rendo conto che è una storia lunga (e ancora non è finita!), ma ho preferito trasmetterla così com'è: fare altrimenti non avrebbe avuto molto senso per me, e credo anche per gli altri.
Ti esprimo il desiderio di mantenere il riserbo riguardo ai miei dati personali (capirai meglio leggendo la premessa, ed anche la storia); sarei comunque molto contento e disponibile a colloquiare con chiunque lo desiderasse.


Il figlio perduto e ritrovato – il figlio fedele (cfr. Lc 15,11-32)

Carissimo,
il Signore ti dia Pace! Con questo saluto preso dal Vangelo, che Francesco d’Assisi ha fatto suo, desidero incontrarti. Non è mia l’iniziativa, io ho semplicemente risposto ad una "chiamata": un amico mi ha chiesto di raccontare la mia "storia vocazionale", come sono stato scelto da Dio a seguirlo più da vicino, fino a diventare frate francescano e quindi presbitero (volgarmente "sacerdote")… ed ora eccomi qui, a raccontarmi.
Ti confesso che non è facile; parlare di sé, specie di ciò che è più intimo e caro è sempre faticoso, è un rischio ed una responsabilità. Significa venire allo scoperto, mettersi a nudo davanti ad un "altro", non sapendo come egli accoglierà il tuo dono.
È ancora più difficile farlo quando davanti a te hai non una persona, un volto preciso, ma uno schermo, un volto "anonimo ed artificiale" (virtuale, appunto), poiché viene a mancare un elemento essenziale ed insostituibile della comunicazione, quella vera e profonda: un "tu" che ti stia di fronte visibilmente con cui comunicare!
Nonostante queste serie e reali difficoltà, credo comunque che valga la pena rispondere all’appello, perché quando qualcuno chiama, non si può non rispondere. E poi, se Dio mi ha scelto, non è perché io tenga questo tesoro gelosamente nascosto, ma piuttosto ne faccia parte ad altri, anche se sconosciuti, anche se non li vedrò mai di persona.
Mi presento, perciò, in questa "grande piazza" con molto timore e tremore, ma anche con animo lieto e riconoscente.
Ti racconterò la mia vita come una parabola. La parabola della mia vita, appunto; anche perché la mia storia ricalca un’altra storia molto antica, che risale ai tempi di Gesù. È conosciuta come la parabola del "figliol prodigo" (attenzione, prodigo non "prodigio", che è tutta un’altra cosa).

Un uomo aveva due figli (Lc 15,11)

Io sono Paolo, o meglio, fra Paolo Maria. Questo è il nuovo nome che ho ricevuto quando indossai per la prima volta l’abito francescano. Ho 37 anni e sono figlio unico, ma è come se avessi un altro fratello gemello, un altro "Paolo", che sembra tutto l’opposto del primo, come il suo contrario… Ma andiamo con ordine.
Mamma e papà erano già "avanti negli anni" quando mi hanno concepito, perciò non potevano "rischiare" di avere altri figli dopo di me. Comprenderai allora che mi hanno circondato di tutto l’affetto e l’attenzione di cui erano capaci (molto la mamma, molto meno papà!)… Insomma, ero proprio al centro dell’attenzione!
Mi piaceva un sacco giocare, come tutti i bambini, specialmente a calcio; mi piaceva molto stare con gli altri, ma giocavo spesso anche da solo. A scuola andavo piuttostto bene, anche se non ero un "secchione". Insomma… ero il classico "bravo ragazzo", tutto casa, chiesa e scuola! Ciò non significa, però, che non amassi stare con gli amici o non mi piacessero le ragazze, anzi!
Spesso, mamma e papà bisticciavano ed il clima in casa era piuttosto grigio; non si respirava un’aria tanto buona… In questo clima, mi capisci, non ci stavo un granché bene.
A questo aggiungi il fatto, che i miei genitori erano molto apprensivi e possessivi con me (ero l’unico!) e cercavano sempre di darmi il meglio e di proteggermi da tutto, col rischio di tenermi sotto una campana di vetro!
Non è un caso, infatti, che mi abbiano mandato in una scuola privata fin dalle Medie, presso il Seminario vescovile; non che volessero farmi diventare prete fin d’allora, volevano però che fossi educato in un ambiente e secondo principi sani e sicuri. E così mi sono trovato – senza che io lo sapessi e "contro" la mia volontà – iscritto alla scuola S. Vincenzo, dove la maggior parte dei prof. erano preti, poi una suora e pochi laici di un certo "spessore".
Devo dire, però, che mi sono trovato bene fin dall’inizio, specie con alcuni sacerdoti. Avevo molta stima di loro, erano per me dei veri punti di riferimento, come le stelle nel cielo. Si è creato un rapporto particolarmente bello, confidenziale, profondo, prima con don Luigi, poi – dopo che lui era partito per il Brasile (ora è vescovo là) – con don Giuseppe. Con loro potevo parlare liberamente delle mie cose più intime e delicate, senza il timore di essere giudicato o non capito (cosa che non potevo certo fare con i miei…); soprattutto sapevo di essere ascoltato davvero, preso sul serio e di poter trovare "consigli" validi per le mie domande o i miei problemi.
Ricordo che una volta, d. Luigi – dopo avermi conosciuto un po’ meglio e più in profondità – ad un "campeggio" estivo mi chiese a bruciapelo: "Paolino, non hai mai pensato di farti prete?". La domanda mi sorprese, ma non mi turbò; tant’è che risposi candidamente: "Sinceramente no, ma chissà, potrebbe anche essere…".
Nonostante stessi veramente bene in quell’ambiente e con quelle persone (e in fondo in fondo anche in famiglia), cominciavo però a sentirmi molto stretto in quei vestiti da "bravo bambino". E già, era proprio questo il problema: io non mi sentivo più un bambino, cominciavo a sentirmi "grande", ma sebrava che nessuno se ne accorgesse, specie i miei genitori. Mia mamma non perdeva occasione di chiamarmi "il mio bambino"!
Non sopportavo più di essere considerato e trattato così; non potevo più stare sotto una "campana di vetro". Basta con i divieti e le limitazioni, ormai ero grande abbastanza da scegliere per conto mio; volevo essere libero e autonomo. Avevo poco più di 15 anni…

Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. (Lc 15,12-13)

Così anch’io, come il fratello più giovane, decisi di andarmene di casa. Certo non fisicamente, ma affettivamente sì. Anch’io ho preteso la mia parte di "patrimonio", come se avessi potuto disporre liberamente della mia vita, come se mio padre fosse già morto. Perciò, rottura totale su tutti i fronti.
A scuola non volevo più andare; basta con quell’immagine del ragazzino con ottimi voti, sempre educato, stimato e apprezzato da tutti. Basta con i preti e le suore, e con i loro incontri… cose da bambini!
Così, finita la V ginnasio lasciai il liceo S. Vincenzo, tra le delusioni e deprecazioni di tutti: genitori, professori e soprattutto quei preti con cui ero più legato.
Ripiegai su un’altra scuola privata per non dare un dispiacere troppo grande ai miei, lasciando definitivamente lo studio, ma anche perhé lavorare era duro!
La parrocchia ormai non la frequentavo più; decisi di non andare nemmeno più a Messa e di abbandonare anche gli amici d’infanzia, troppo "bravi ragazzi" e troppo poco liberi.
Altri amici ed altri luoghi di ritrovo popolavano i miei sogni: le "uscite" in motorino, prima e in vespa, poi; le prime "avventure" o "storie serie"; la compagnia del bar; poter uscire tutti i pomeriggi, specie la sera; la discoteca…
Con mamma e papà il dialogo era sempre più inesistente, la distanza sempre più grande, il contrasto sempre più forte e crescente; la casa assomigliava sempre più ad un albergo ed il clima era spesso grigio e minaccioso.
In tutto questo non poteva mancare un’esperienza oltre i limiti del "lecito", trasgressiva, quella della droga. Nella mia corsa verso la libertà ho voluto arrivare fino in fondo, provare l’ebrezza del "proibito", dell’ "off limits", dello sballo… Io, che quando avevo cominciato a frequentare il bar dicevo: "Non fumerò mai, è da stupidi!", ho finito per fare dello sballo lo scopo delle mie serate e domeniche, dello stare in compagnia.
Ormai avevo abbracciato il motto "sesso, droga & rock n’ roll" ed il mito che inseguivo era "Vita spericolata" di Vasco Rossi.
Molte sono state le esperienze di trasgressione rincorse tra i 16 e i 18 anni; due, in paricolare possono racchiudere ed esprimere questa "corsa sfrenata".
La mia prima vacanza da solo, con un amico e un’amica, a Rimini e poi in giro per l’Italia, dalla Calabria alle Marche; il clou è stato nella discoteca riminese più "mitica" per quei tempi: "La Mecca"… avevo 16 anni.
La seconda, una vacanza in Spagna con due amici, da Barcellona ad Alicante, all’insegna del "tutto è lecito"… avevo 18 anni.
Dunque, avevo rincorso la felicità nella "libertà", ma in realtà non ero davvero felice e nemmeno libero. Nonostante avessi fatto tutto ciò che volevo, mi sentivo terribilmente vuoto, ancora in cerca di un senso pieno da dare alla mia vita.

Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci.
Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava
. (Lc 15,14-16)

Sì, il risultato di quella mia "corsa sfrenata" fu una "grande carestia"; a poco a poco vennero meno le cose o le persone su cui avevo puntato tutto: il cerchio dei veri amici si stringeva sempre più e mi chiedevo seriamente se a tenerci insieme ci fosse un altro motivo, oltre che lo stordimento della droga o della discoteca. La frequentazione di questi "giri" mi aveva procurato anche serie e gravi conseguenze sul piano della giustizia (ho subito un processo al Tribunale dei minori di Bologna); anche i miei genitori – ovviamente – furono "coinvolti" nella vicenda. Fino a quel momento ero sempre riuscito a tenerli all’oscuro di tutto (nonostante le loro preoccupazioni ed i loro sospetti), ma a quel punto, anche se fra tante menzogne, dovevo ammettere che qualcosa avevo fatto, che c’entravo anch’io. Senza dimenticare che alcuni amici erano già morti a causa della droga ed altri vi si trovavano invischiati fino al collo, incatenati senza più la capacità di sciogliersi. Che paradosso, cercando la "massima libertà" s’era incappati nella più triste e misera schiavitù!
E io, che cosa volevo fare? Volevo davvero continuare questa "corsa" fino in fondo? Ero pronto ad assumermi le conseguenze di queste scelte? Era proprio questo che volevo?
I risultati di queste esperienze non facevano altro che mettere in luce il vero e profondo bisogno in cui mi trovavo, la reale mancanza di ciò che è più essenziale alla vita: amicizia vera, rapporti sinceri e duraturi, serenità e gioia di vivere, un senso, un valore per cui spendere l’esistenza. Unitamente a questo, sentivo profondamente la necessità di un affetto "esclusivo", una ragazza che potesse colmare il mio "vuoto interiore" e con cui condividere la mia ricerca di senso per la vita.
Non trovai risposta ai miei desideri, finché nel mio cielo non apparve Cristiana, una piccola stella di appena 15 anni (io ne avevo 18), che segnò un vero cambiamento di rotta; fu l’inizio di una nuova tappa della mia esistenza.
Pur abitando di fronte al bar del solito ritrovo, lei non usciva con la mia compagnia; era troppo giovane ed oltre agli amici di scuola frequentava il gruppo scout della parrocchia.
Così ho incominciato a spostare tutta la mia attenzione ed i miei interessi su di lei: era diventata il mio "centro gravitazionale", il punto di riferimento della mia giornata e della mia vita.
In poco tempo ho smesso di uscire con gli amici del bar, di far uso di stupefacenti ed anche di fumare. Stavo un po’ più in casa, ho ripreso a dialogare con i miei e pure a scuola mi ero rimesso a studiare.
Soprattutto mi ero ritrovato a contatto – grazie a lei – con qualche vecchio compagno d’infanzia (di quei "bravi ragazzi" d’un tempo), con l’ambiente della parrocchia e con il Don che seguiva gli scout. Non mi sentivo più a disagio né un immaturo ad incontrare quegli ambienti e quelle persone.
Gl’interrogativi sulla mia vita e sul mio futuro, però, non si erano esauriti, anzi, erano sempre più profondi e stringenti: "Qual è la mia strada, il senso del mio esistere? È proprio questa la "scelta" della mia vita e la persona giusta per me?".
Un giorno, a scuola (ero in V superiore), accadde un fatto che segnò nuovamente e profondamente la mia vita: la prof. di religione aveva dovuto assentarsi per un certo periodo e come supplente fu mandato don Giuseppe, il mio confidente e confessore negli anni del Seminario! Semplicemente incredibile e sconvolgente. Perché proprio lui e proprio ora?! Un caso fortuito o un "segno"?
La gioia di rivederlo era tanta ed altrettanto grande il desiderio di incontrarmi con lui. Perciò, gli ho chiesto subito di poterlo andare a trovare. Avevo ritrovato una (direi "la") persona amica e significativa in un momento decisivo della mia vita. Avevo un gran bisogno di parlare di me, di Cristiana, di quello che mi succedeva dentro per capirci qualcosa.
Ricordo un altro fatto molto significativo: una Domenica, nella mia parrocchia, era stato invitato un sacerdote missionario in Brasile, mio insegnante al S. Vincenzo, che io conoscevo molto bene. Il mio parroco, ovviamente, non perse l’occasione d’invitarmi. Anche se non frequentavo la Messa mi sembrava brutto rifiutare l’invito. Così mi ritrovai ad ascoltare le sue parole nell’omelia; e più descriveva la situazione di disagio e d’inquietudine di molti giovani brasiliani, rivelatasi poi l’occasione di una seria domanda e chiamata vocazionale, più io mi rivedevo dipinto perfettamente in quelle parole.
Cominciai a pensare e a chiedermi: "Forse che Dio chiami anche me a farmi prete?".
Ne parlai subito con Cristiana, e anche con d. Giuseppe, naturalmente. Questi mi rassicurò, dicendomi che non dovevo preoccuparmi; se il Signore aveva in serbo qualcosa di diverso per me, avrebbe poi trovato il modo di farmelo capire. Io dovevo solo cercare di vivere al meglio, con responsabilità e pienezza la mia situazione attuale. Vivere il presente come fosse la strada giusta per me, facendo sul serio con me stesso e con la mia ragazza; e se quella non fosse stata la mia vocazione, certamente l’avrei scoperto.
Ho incominciato dunque a vivere con sempre maggior impegno e serietà il mio fidanzamento con Cristiana, a non fermarmi di fronte ai piccoli problemi o alle piccole difficoltà che incontravo con lei, ma cercando di andare a fondo, di analizzare le mie motivazioni senza nascondere né soffocare le domande che mi sorgevano dal profondo, e senza nasconderle neppure a lei, per quanto "strane" o insolite potessero essere. Doveva sembrare ben strano, infatti, che io a volte ipotizzassi anche solo a mo’ di scherzo la possibilità di farmi prete… Eppure erano pensieri che mi frullavano, di tanto in tanto, per la testa e che cercavano risposta senza trovarla.
Un giorno d. Giuseppe m’invitò ad una vacanza estiva organizzata dall’Azione cattolica, in Val d’Aosta. Non frequentavo più gl’incontri di A.C. da parecchi anni e non conoscevo nessuno dei giovani che avrebbero partecipato, ma decisi di andare comunque; era un’occasione propizia, forse unica, per trovare finalmente una risposta, per "ritrovare me stesso" (come dicevo allora), per scoprire la strada che Qualcuno aveva pensato per me.
Il periodo era tra luglio e agosto del 1985, avevo 20 anni… Decisi di andare da solo, anche senza Cristiana, che non poteva venire; era troppo importante per me non perdere quell’occasione, come fosse stato un treno prenotato, il viaggio che aspettavo da tanto tempo…
Così mi ritrovai a Resy, in alta Val d’Ayas, ai piedi del M. Rosa, in una baita-rifugio ad oltre 2000 metri, con altri giovani che con e come me desideravano fare una forte esperienza d’amicizia tra loro e con il Signore. Io ero forse l’unico, però, che quest’amicizia con Dio non l’aveva ancora trovata e – per certi aspetti – mi sentivo un po’ come un pesce fuor d’acqua.
Non fu certo un caso che mi ritrovassi in stanza con due ragazzi che – come me – avevano battuto strade molto tortuose; da qualche tempo avevano riscoperto la presenza e l’importanza del Signore nella loro vita e stavano percorrendo con slancio la via del ritorno. Si chiamavano Mauro e Maurizio.
Ti lascio immaginare quanto mi sentii subito e "naturalmente" legato a loro e quanto fu illuminante per me la loro esperienza e amicizia.
Attraverso il dialogo e il confronto con loro, la condivisione degli incontri e della preghiera, le stupende escursioni sui monti, avvenne l’impensabile e l’inaspettato, un vero "miracolo".

Allora rientrò in se stesso e disse:… Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te…
Partì e si incamminò verso suo padre.
(Lc 15, 17-20)

L’esperienza di quell’amicizia e di quei giorni condivisi fu l’occasione esteriore, lo strumento di cui Dio si è servito; ma il "miracolo" avveniva dentro di me ed era tutta opera sua, del Signore.
Come d’improvviso e per incanto la mia storia cominciava ad illuminarsi; i fatti nudi e crudi che la componevano non erano semplicemente "ammucchiati" l’uno accanto all’altro, come tanti pezzi senza senso, ma acquistavano una direzione, un perché. Cominciavo a vedere come un filo rosso che legava ogni avvenimento, ogni persona: i miei genitori, la mia fanciullezza, d. Luigi, la scuola in Seminario, la ribellione dell’adolescenza, Cristiana, d. Giuseppe, Resy, Mauro e Maurizio… Erano come tanti tasselli di un unico puzzle, incastonati perfettamente l’uno accanto all’altro.
Anche i periodi più bui, anche le esperienze più vuote e negative, acquistavano un senso inaspettato e prezioso.
La "chiave", il "filo rosso" che mi faceva comprendere tutto sotto una luce nuova era l’Amore di Dio per me. L’esperienza di Mauro e Maurizio mi riguardava da vicino; la parabola del "figiol prodigo" sembrava scritta proprio per me, vedevo chiaramente dispiegata in questa pagina del Vangelo la mia storia.
Ora comprendevo più chiaramente che dietro e dentro quel percorso, spesso oscuro e tortuoso, che avevo fatto sin lì si nascondeva un disegno meraviglioso, un progetto d’amore e di vera felicità.
Dio, come il padre paziente e misericordioso della parabola, mi aveva lasciato libero di andarmene di casa, di sbagliare, anche di grosso, ma non aveva mai smesso di amarmi e di aspettarmi; anzi, proprio nei momenti più bui mi era stato vicino come non mai, mi aveva sorretto, portato in braccio, pur senza impedirmi di cadere e di farmi male. Aveva permesso che io sbattessi la testa, che toccassi il fondo, perché mi rendessi conto di dove fossi finito e cosa volesse dire vivere senza di Lui. Mi aveva lasciato allontanare così tanto perché potessi sentire una profonda nostalgia di Lui.
Ormai lo sentivo e lo vedevo chiaramente: dietro le quinte e dentro le pieghe della mia esistenza c’era il Signore. Era vivo, era vero, potevo toccare con mano che Lui guidava la mia vita e che voleva entrarci pienamente, voleva "fare storia" con me!
La sua grazia mi aveva toccato nell’intimo, illuminando la mia mente affinché vedessi con occhi nuovi la mia storia ed infiammando il mio cuore del desiderio di Lui.
Grazie a Lui, potei rientrare in me stesso e rileggere la mia vita alla luce del suo amore. Grazie a Lui, potei vedere chiaramente e sentire amaramente il mio peccato.

(1. continua)

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Una solenne sterzata
(di Chiara Lubich)

Tutti ci accorgiamo che, non di rado, nel lavorare, nello scrivere, nel parlare, durante il riposo o in quant’altro facciamo, può infilarsi qualche attaccamento anche lieve a noi stessi, a cose, a persone... E questo è un grosso guaio per la vita spirituale. Dice san Giovanni della Croce: "Che importa che l’uccello sia legato a un filo o a una corda! Per quanto sottile sia il filo, l’uccello resterà legato come alla corda, finché non riuscirà a strapparlo per volare. Lo stesso vale - continua - per l’anima legata a qualche cosa: nonostante tutte le sue virtù non perverrà mai alla libertà dell’unione con Dio".
È necessario, perciò, in quelle circostanze, intervenire immediatamente, e niente aiuta di più - è una mia esperienza anche recente - che ridichiarare a Gesù che sulla croce ha vissuto il distacco più radicale sino a gridare l’abbandono del Padre: "Sei Tu, Signore, l’unico mio bene. L’unico. Non ne ho altri".
È una preghiera, penso, importantissima e assai gradita a Dio. Ci aiuta a non impolverarci con le cose terrene. E vivendola si resta impressionati - io lo sono stata e lo sono sempre - di come quell’aggettivo: "unico" ("Sei Tu, Signore, l’unico mio bene") dia una solenne sterzata alla nostra vita spirituale, come ci raddrizzi immediatamente, e sia sicuro ago della bussola del nostro cammino verso Dio.
Questo modo d’agire, poi, è molto conforme alla nostra spiritualità, in cui prevale l’aspetto positivo: si vive il bene e così se ne va il male. Non siamo tanto chiamati, infatti, a staccarci da qualcosa - noi stessi, le cose, le persone -, ma a riempirci di qualcosa: l’amore a Lui nostro tutto. A noi non piacciono tanto i no, ma i sì.
E questa preghiera, "Sei Tu, Signore, l’unico mio bene", è un modo meraviglioso per vivere da veri cristiani che amano Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e non a metà.
E’ una maniera sublime ancora per prepararci ad ogni incontro con Lui nelle sue ispirazioni quotidiane; così come al grande incontro con Lui quando, all’alba dell’eterno giorno, nel nostro cuore non varrà che l’amore a Dio e, per Lui, ai fratelli.
"Sei Tu, Signore, l’unico mio bene": quanta sapienza, quanta saggezza, quanta luce, quanta forza, quanto amore, quanta perfezione in queste brevi parole!
Il Signore ci dia di sperimentarne tutta la loro potenza

(fonte www.focolare.org/it/sif/2002/it20020301a.html)

Chiara Lubich a Rimini
Sabato 22 giugno 2002 dalle ore 15.30 alle 19.00 Chiara Lubich sarà al Palacongressi di via della Fiera a Rimini per parlare di “Fraternità e pace per l’unità dei popoli”.
Per info: www.focolare.org
051-309444/503493

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Alcune massime di Confucio
(dal Libro I dei Dialoghi)

1. Il Maestro disse: “Imparare e mettere costantemente in pratica, non è una soddisfazione? Avere amici che vengono da luoghi lontani, non è una gioia? Non esser tenuto in considerazione dagli uomini e non dispiacersene, non è da saggi?”

3. Il Maestro disse: “Le parole artificiose e le lusinghe sono la rovina dell'umanità.”

8. Il Maestro disse: “Se il sapiente non ha serietà, non viene rispettato; se impara, non lo fa con solidità. La fedeltà e la sincerità sono fondamentali! Non avere amici che non siano simili a te stesso; se sbagli, non aver paura di correggerti.”

16. Il Maestro disse: “Non mi dispiace di non essere conosciuto dagli uomini, mi dispiace di non conoscerli!”

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Ti siedi e non sai
(di Andrea Campanozzi)

Quando guarderete
qualche centimetro
sotto le vostre poltrone
l'aria sarà già stata
svegliata,
gli orizzonti di nuovo
massaggiati,
tutta la vostra giornata a filo di spiaggia.
Ero bambino che camminavo scalzo,
ora che cammino scalzo
e ho una pelle di foglie morte
sono adulto;
mi dareste una patente,
mi fareste laureare,
mi riconoscereste nome e cognome
all'ufficio matricola.
Non ho studiato,
non conosco - come dite, voi? - matematica;
ma i fiori sono già un'astrazione:
quando la bomba esploderà
abiterà di fiori il vostro pessimo sguardo
coricato sotto la poltrona.

Andreia

Qualcosa è dentro; non ancora sedata, non ancora controllata;
sa tutto di me, e si nasconde; ogni sforzo di parlarne è ancora doloroso.
Tutto è complicato da un figura, piuttosto alta, quasi nera, che resta con poche parole,
che s'agita e parte e mi annichilisce di ovvietà sconosciute.
Alla notte buia, che mi sia sorella.
Andrea

(Andrea Campanozzi si può definire non solo poeta, ma anche scrittore e intellettuale engagé)

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Writer
(di Danzio Bonavia OPM)

Conferenza stampa
Palazzo di Giustizia Torino
«...Il mio nome tecnico è "writer". Dipingo con delle bombolette, termine tecnico "spray". Vedete, per quanto vi possa sembrare strano, quello che io faccio abitualmente la considero un arte. Se ci pensate, il dipingere illegalmente per le strade, termine tecnico "writing", è la più pura delle forme d'arte che si possano riscontrare oggi. È un fenomeno sociale. Il disagio stesso della città. La rivolta ai suoi colori spenti, alle sue regole, al suo conformismo. Ma dicevo, la più pura delle forme d'arte, perché si tira fuori dal commercio. Non mi dicano cazzate quelli delle Gallerie d'arte. Le gallerie del mercato dell'arte. Della gente che passa là dentro, c'è n'è un casino che vende e da vendere, ma che verranno ricordati o che resisteranno ne rimarranno pochi. Io scrivo il mio nome, non faccio altro. Scrivo solo il mio nome, la mia firma. Ah, termine tecnico "tag". E io voglio diventare conosciuto per quella tag. Posso solo perderci, come vedete. Non ci guadagno nulla. Non voglio essere ricordato da nessuno. Però non mi piego al volere di nessuno. Rischio. Ma ho proprio un desiderio di diffondere e portare il mio nome ovunque, di farlo sempre più grande, sempre più speciale, sempre più mio, e in posti sempre più strani, perché la gente si ficchi in testa la mia tag. Ma non vado oltre. Non mi interessa si venga a sapere chi sono io, dietro a quella tag. Strano, vero?! Da un lato voler farsi conoscere e dall'altro voler rimanere sconosciuti. Quando sono buono e faccio il bravo bambino vado alle feste e dipingo su dei pannelli. Mi chiamano "giovane artista". Faccio tag, bombing, pezzi, puppets. Insomma murate legali. Sono buono se mi danno degli spazi dove dipingere. Se un privato mi paga, gli faccio un lavoro, o se mi danno un bel permesso con tanto di manleva per dipingere un muro in città che rimane in vista. Se magari mi pagano pure gli spray è meglio. Se no mi arrangio. Questa in fondo è la mia filosofia. Sono abituato e conosco come vanno le cose. Così se dipingo legale e non mi danno niente, mi rimborso da solo. E finisce che mi porto a casa più spray di quanti non ne abbia usati. Mi riempio lo zaino e via. Sempre meglio che finiscano in qualche magazzino dimenticati, o in mano a qualcuno che non ne saprebbe fare il miglior uso. Con gli altri ragazzi un giorno c'hanno chiamato a fare una dimostrazione per della gente. C'erano dei pannelli da dipingere e un sacco di belle scatole di colori. Ne sarebbero avanzati una sessantina alla fine. Così, per non abbandonarli e lasciarli lì in giro, abbiamo dato una mano. Li abbiamo levati da mezzo, ordinati nelle scatole e ci siamo riempiti il bagagliaio. Quando invece non ho spazi, se non mi danno sfogo, divento cattivo. Faccio i capricci e mi metto a fare i dispetti. Così la notte, quando dormite, esco e vengo sotto al portone vostro e vi faccio la mia firma sul muro, sulla saracinesca. Termine tecnico "tag". Che non è una robetta tipo quella che mettete sui vostri libretti di assegni. La faccio con gli spray, ed è lunga tanto quelle che vedete là in fondo, fuori. Uso un tappino particolare pure, termine tecnico "fat", che mi permette di fare una roba più veloce e grossa. I tappini sono di misure diverse, hanno un tratto più o meno largo, dipende da cosa si vuol fare. Così faccio la mia firma. Scrivo il mio nome. Ma di solito mi sa che manco la capite. Tutto quello che vedete al mattino, è uno scarabocchio indefinito di uno stronzo che v'ha sporcato il muro. Non è vero?! Vi incazzate e me la coprite, senza pensare come mai l'ho messa lì. Che magari si vede dall'entrata della metro, che ci passa tanta gente, o è lungo linea, cioè, lungo la linea ferroviaria. Ma voi a questo non ci pensate. Vi dà solo fastidio, perché ve l'ho fatta sotto il naso. E non potete sopportarla. Poi invece va bene se negli anni il colore della facciata non si distingue neanche più, perché il grigio dello smog l'ha coperto. Partendo dal basso e salendo. O se i cartelli pubblicitari mettono le radici sulle vostre facciate. Tanto portano grana. Comunque, vi svegliate e me la cancellate, termine tecnico "me la baffate"(1). Così mi metto a farne talmente tante che, se anche non le capite, le vedete in giro e siete costretti a riconoscerle. Tipo una reclam. Un cartellone per strada di una pubblicità. Ecco, diciamo che la mia firma è il mio logo. E quando mi incazzo ve lo imprimerei in testa. Solo che ci provo gusto a farlo così come uno scherzetto. Il termine tecnico credo sia "imbrattamento illegale". Ci provo gusto. Perché è come giocare a guardia e ladri. Così inizio e vi faccio una firma col pennarello, termine tecnico "marker". Li dico tutti sti termini tecnici, solo perché m'hanno detto che ci sono i giornalisti e voglio esser chiaro. La cosa più bella, è la sensazione che provo nel farlo. Mi riempio tutto di adrenalina e allora vado a mille. Beh, comincio a prenderci gusto a farlo sotto il vostro naso. Inizio col marker sui tram, in treno, in corriera, a scuola, nei locali, alle pensiline e poi vi faccio una firma a spray, termine tecnico "tag", sempre per la stampa. Poi magari la notte dopo che lo cancellano ritorno sul posto e faccio qualcosa di più grande. Tipo quello là in fondo, oltre la finestra quell'FL (2). Sputato con l'argento pure dentro e un contorno. Termine tecnico "bordino" o "out line". Come preferite. Ma io invece faccio quasi sempre Ots (3). Con un altro stile. Voi lo cancellate. E così via. Io lo rifaccio sempre più grosso. Non è che sono cattivo, un po' bastardello sì, ma mi diverto. Gioco a nascondino coi signori nelle macchine con la banda rossa a lato. Termine tecnico "i metro notte". E con quegl'altri con la macchina blu e bianca, o nera con la striscia rossa, che si sentono più cattivi ancora. Tipo quei due signori laggiù in fondo, vicino a quello con la banda dell'Italia, termine tecnico "sindaco".
Scusate l'umorismo. Per ora mi era andata bene. Poi ho scoperto una cosa ancora più divertente. Sono i trenini. Vedete. Io dipingo con sti spray che sono fatti apposta per il metallo. I muri me li assorbono. Do il colore e lo do e lo ridò. Perché il muro se lo beve. Ma il treno è di metallo. C'ha pure una bella mano di pittura sopra. Va giusto bene. Così liscio è perfetto. Ed è pure più divertente. Sembra di giocare con quei giochini della guerra dove bisogna usare i commandos per entrare nei campi nazisti. Così io mi studio i movimenti del deposito, termine tecnico "yard". Sto accucciato di notte, o nascosto di giorno. Imparo bene gli orari e poi rischio. Mi incastro fra i turni. Mi ci infilo, corro e mi nascondo fra i vagoni, e mi rendo conto che mi sento sicuro. Perché ho un piano! E poi entro quando so che i ferrovieri, le sentinelle, non ci stanno. Striscio, mi nascondo e zitto zitto poi faccio tutto. Ed è come se lo spedissi. Capite?! Il treno domani va a Roma? Allora è pure come se io ci mandassi una piccola parte di me. Come una cartolina. Solo che al posto di appiccicare il francobollo ci attacco il mio disegno. Ah! termine tecnico "pezzo". Una volta mi sono trovato in Olanda. Ho passato una notte con la tenda piantata fuori da un deposito in un parchetto, guardando i treni muoversi, e i ferrovieri lavorare. Poi ho provato. Mi sono infilato da un buco dove la rete era già tagliata. Quello mi confortava abbastanza. Era come un segnale. Mi faceva capire che quello era il punto giusto, non ero il primo a passarci. Sono entrato e in dieci minuti ho fatto un bell'Ots in argento e bianco, di quattro finestre. Sì, perché fra di noi la grandezza dei pezzi si misura a finestre del treno. C'ho messo dieci minuti, con dietro al mio vagone i ferrovieri olandesi che lavoravano. Pensate: se ne stavano a semicerchio e a turno tiravano, girati di spalle, dei sacchettoni neri della munnezza (4), cercando di fare canestro. Nel frattempo si fumavano dei cannoni e ridevano. Giustamente, perché eravamo in Olanda. E meno male, perché almeno l'odore dell'erba copriva quello dei miei spray. Loro si divertivano. Io mi divertivo. E per la maggior parte della gente, seduta su un'altro vagone o in stazione ad aspettare sui binari, il giorno dopo, quando ha visto passare quel bel treno giallo a bandoni obliqui blu, è come se io non ci fossi mai stato. In Olanda. Ma si vedevano passare davanti il mio pezzo argento e bianco. E tutto questo esisterà sempre. Anche se deste muri e treni da pittare. Anche con le pellicole sui fianchi dei treni. Perchè per spirito di adattamento abbiamo imparato come strapparle. Esisterà perché è una patologia della nostra società. È una conseguenza. È divertente. E so che tutto quello che io ora ho detto va contro di me. Ma so che tutto quello che ho fatto va contro di voi. E che con nessuna legge potrete fermarci, perchè è semplicemente una parte della legge. Comunque gli amici mi chiamano "uno degli altri". Un altro (5). Ots per tutti voi, e per i giornalisti.»

Note
1- Dall’inglese to buff: il verbo “baffare”, viene usato per indicare un pezzo cancellato dai ferrovieri.
2- FL è abbreviazione di Flying, una firma molto presente sui muri di Torino.
3- Il nome del protagonista è ispirato ad un gruppo (crew) torinese di writers, OTS, attualmente attivo.
4- Termine gergale per indicare la spazzatura. L’equivalente ligure del termine “rumenta”.
5- “An other”, OTS è appunto abbreviazione di Others. I componenti del gruppo sono “gli altri”.

(Danzio Bonavia OPM - Imperia, 1978 - è studente alla facoltà di Letterature e Culture Comparate di Torino. Vincitore di alcuni concorsi letterari, ha pubblicato racconti e poesie su siti e riviste italiane: Sagarana, Prospektiva. Nel 1998, insieme a D. Danio e V. Patti, crea il gruppo di scrittura Opiemme Poesie, con l’obiettivo di avvicinare un pubblico giovane alla lettura della poesia, attraverso la sua innovazione, mediante il ricorso a diversi codici di comunicazione: pittura, web design, aerosol art, musica, grafica, fotografia, animazione video. Con l’OPM ha partecipato a vari spettacoli di musica e poesia. Durante i readings le letture sono di volta in volta accompagnate dall’improvvisazione di band con diverse attitudini musicali, o da basi pre-campionate. Alcuni di queste “poesie da ascoltare” si possono trovare sulle pagine di Voices.it).

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Cinema…grafo
(di Paola Turroni)

ITALIANO PER PRINCIPIANTI (Italiensk for begyndere)
Danimarca 2002
di Lone Scherfig
con Anders Berthelsen, Peter Gantzler, Laars Kaalund,
Annette Stovelbaek, Ann Jorgensen, Sara Jensen
Orso d’Argento alla Berlinale 2001

“Italiano per principianti” si apre e di chiude con una Maserati, non la vediamo mai, è un biglietto da visita verbale che permette al reverendo appena arrivato di conquistare la fiducia della comunità; e, alla fine, è una dichiarazione di conquistata fiducia nel proprio ruolo, quando rivela ai nuovi amici che ha deciso di venderla. La parabola si apre e si chiude intorno al personaggio che fa da perno ai problemi e alle passioni degli altri personaggi, ritrovandosi sempre più coinvolto, senza forzature, ma con le naturali curve con cui la propria vita entra in quella degli altri.
Il film aderisce al manifesto del Dogma. Ma qui la camera a mano, i luoghi reali senza scenografia, il neutro cromatismo, risultano più che mai leggeri, come se non fossero regole esterne imposte da un manifesto, ma connaturate alla storia, allo spazio che la contiene, ai movimenti e alle pulsioni dei personaggi. Scelte stilistiche che ricalcano la predominanza corporea, più che intellettuale, del ritmo del film. I corpi che occupano lo schermo sono corpi veri, corpi credibili, e l’insistenza sui peli superflui e sui capelli sporchi, sulla saliva e sui resti di cibo, sulle mani e sulle gambe, non hanno mai una valenza estetica compiaciuta del dettaglio prosaico, ma sono come di passaggio, la punteggiatura del quotidiano, la conseguenza di una vicinanza concreta. La macchina da presa non fruga tra i personaggi alla ricerca del loro aspetto grottesco, è piuttosto uno sguardo che li accompagna, seguendo il movimento impacciato, il respiro trattenuto, lo scoppio di rabbia, la visione di scorcio, la tensione del dire e del fare. Anche in una delle omelie che il reverendo prepara nella sua stanza d’albergo si insiste sul corpo: Dio è qui, dice, nel cuore e nelle braccia delle persone che amiamo. I difetti e le paure dei personaggi sono descritti con la leggerezza e l’ironia con cui si impara a conviverci, sono imbastiture delle giornate, inciampi, piccoli equivoci, che finiscono per allargare la pazienza e la disponibilità all’accoglienza dell’altro.
L’Italia tanto amata e desiderata in questa piccola comunità che vive nella periferia di Copenaghen, è il calcio, l’automobile, la nutella, Venezia. Tutti stereotipi che però sono vissuti con così tanta dolcezza ed entusiasmo, che non diventano mai etichette, sono sempre pretesti emotivi, desideri d’amore, piccoli sogni che valgono se condivisi. Imparare l’italiano è infatti, prima di tutto, imparare a comunicare. L’aula semivuota in cui si tengono le lezioni è il microcosmo per non perdersi nel vuoto di un mondo in cui si finisce sempre per rimanere soli. Amore e morte si mescolano in funerali sovrapposti, in confessioni frettolose nei retro di bar e negozi, in passioni rubate agli intrusi, fino al conforto del malato, dove regole e richieste non possono più convivere.
I genitori sono morti, alcolizzati, reclusi, non solo i genitori naturali, ma anche quelli simbolici, come gli insegnanti, e i coniugi. Adulti che sono morti e che muoiono per malattia, ancora il corpo, che lasciano i più giovani arrancare nella vita, giovani supplenti (il supplente del reverendo, il supplente dell’insegnante) che si trovano un’esistenza già programmata ma labile, dove il desiderio di assecondare il desiderio, non è un capriccio, ma l’unica possibilità di sopravvivenza.
E Venezia è questa possibilità, uno spazio che si presenta da subito teatrale con l’entrata in campo dei personaggi, ad uno ad uno, l’unica inquadratura statica del film, spazio teatrale nel senso di luogo prescelto di scatenamento e risoluzione del conflitto.
Imparare l’italiano è imparare a dirsi sì.

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Recensione a Esodo
(di Guglielmo Forni Rosa, Prof. di Filosofia morale e Antropologia filosofica, Università di Bologna)

(…) In apertura Armido Rizzi, autore fra l’altro del fondamentale Esodo. Un paradigma teologico-politico (Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1990), offre un quadro di riferimento storico e concettuale per l’approccio all’esodo come "figura di senso originaria". Il saggio, che costituisce la corrente sotterranea capace di alimentare in permanenza gli altri scritti, si segnala per l’attenta volontà dell’autore di disegnare percorsi interni al tema dell’esodo, offrendo spunti e considerazioni in molti casi approfonditi in altri interventi (ecco un chiaro esempio di una delle modalità di dialogo proposte da «arcipelago»).
Di grande interesse è pure il saggio di Gianmaria Zamagni, studioso di teologia delle religioni, che struttura la sua analisi dell’Esodo a partire da due figure “scomode” per la teologia contemporanea: Eugen Drewermann e Jan Assmann. Nell’interpretazione del primo, di carattere psicologico-esistenziale, l’Esodo è descritto come il "processo che ciascuno di noi deve percorrere per trovare sé stesso" (p. 28). Il racconto biblico è un archetipo, in primis individuale e, solo in seconda istanza, collettivo. In Jan Assmann, egittologo dell’Università di Heidelberg e autore di un controverso studio dedicato a Mosè (Moses the Egyptian. The Memory of Egypt in Western Monotheismus, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass. - London 1997), il racconto dell’esodo rappresenta un’immagine mitica, "la memoria del passaggio decisivo", la cui peculiare valenza non risiede tanto nella sua "fattualità", quanto nella sua "attualità", nel suo radicamento nella memoria collettiva (p. 31). Il saggio si conclude rimandando ad una nuova apertura: la questione ineludibile è chi sia oggi Mosè, che cosa egli rappresenti.
Lo scritto di Francesca Boschi e di Maria Martinelli ha per tema il profondo legame tra l’aspirazione alla liberazione dalla schiavitù e la musica che traduce l’animo del “popolo” nero in canto corale. Gli spirituals, di cui l’Esodo è, insieme ai vangeli, il grande racconto ispiratore, testimoniano la concreta emozione fatta vivere da uomini e donne che sentono il proprio essere “esclusi” come forma di un destino che culminerà nella redenzione. Il saggio delle due autrici nella sezione "altre culture" è accompagnato dalla vibrante testimonianza di Arturo Paoli, che ogni giorno condivide le sofferenze “egiziane” di chi è, oggi, relegato ai margini della città e della società: gli abitanti delle favelas brasiliane. Anche Paoli, ispirato dalla teologia sudamericana, guarda all’esodo come liberazione: il suo scritto militante costituisce una vigorosa critica del sistema e delle strutture capitalistiche delle società occidentali; nonché delle loro ripercussioni sui paesi del sud del mondo, auspicando, a partire dalla condizione altra degli esclusi, un superamento consapevole della crudele schiavitù del liberismo.
Quest’ultimo scritto introduce alla sezione di filosofia pratica che si apre con il saggio del curatore del volume Thomas Casadei volto ad illustrare la lettura dell’esodo offerta da uno dei più noti (e discussi) filosofi della politica contemporanei: Michael Walzer. In esso vengono enucleate alcune categorie filosofico-politiche che scaturiscono dall’esodo come paradigma di liberazione (nozione di cambiamento, concetto di patto, figura dello straniero) ed evidenziate le tensioni oppositive insite nel messaggio esodico (identità etnica versus alterità, violenza versus dialogo, apertura versus chiusura). Casadei sottolinea la pluralità che, con Amos, si può attribuire all’Esodo: la liberazione dall’Egitto può così non essere intesa come un avvenimento esclusivo di una storia universale, ma come un evento esemplare di una particolare storia, un’esperienza che può essere ripetuta da altri popoli di un modo a loro proprio. L’esodo come "storia delle storie", rilevante al di là dei diversi contesti apre ad una serie di cammini di liberazione (p. 71). Nella suddetta sezione si trova anche lo scritto di Piero Venturelli, di carattere eminentemente storiografico, che ha il merito di indagare i nessi che intercorrono fra il testo biblico e la predicazione sopra l’Esodo di Girolamo Savonarola.
Concludendo, il volume esprime bene la doppia valenza dell’esodo: essenziale fonte del sapere e dell’agire occidentali (ma non solo, data la pluralità di letture a cui può essere soggetto), ma anche flusso che conduce allo sfociare di “nuovi inizi” e aperture, mai del tutto esaurite o concluse. (…)

(da «Filosofia e teologia» 2001.1, pp. 199-201)

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Arte e pace www.villafranceschi.it
Volontari nel mondo www.focsiv.it
Convenzione nazionale per la pace conviviodeipopoli.it
Lazzaro e il suo amore www.marsfriends.com
Thoms Merton www.qsl.net/kc5nzr/merton/
Audiolibri www.ilnarratore.com
Francescani e Terra Santa 198.62.75.1/www1/ofm/cust/TSmain.html
Camaldolesi www.camaldoli.it/web_it/caoggi/caoggi00.htm
CVX www.cvx.it
Il picchio www.kaleidon.it/ilpicchio

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