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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 56
Agosto 2004

Editoriale: Una estate vaga di senso

In questi giorni tradizionalmente dedicati alle fughe vacanziere abbiamo forse anche il tempo di riflettere maggiormente su noi stessi e quanto ci circonda, sulle zone in ombra della nostra persona e su quelle della società in cui ci troviamo a tessere le nostre relazioni. Questo Faranews contiene contributi che possono dare qualche stimolo per affrontare questioni un po' pesanti con una certa - magari divertita - ironia, ma senza eluderle: iniziamo con un racconto noir di Fabio Marangoni, continuiamo con i salaci versi romaneschi di Antonio Valeriano Pulimanti gentilmente inviatici dal figlio Mario, le considerazioni di Vincenzo Andraous, "Nessuna riflessione sul ritorno" di Anita Fumagalli, "La confessione di un guerriero ignoto" di Drazan Gunjaca, e gli splendidi versi tratti da Spine nere di Gezim Hajdari. Vi ricordiamo il concorso per racconti e poesie Pubblica con noi. Buon Ferragosto e a settembre!

Il fratello di Caino

di Fabio Marangoni

Meno quattro giù in strada.
Sotto i balconi c'erano già mucchi di cartacce e grani di sale avanzati dalla nevicata della notte prima. Il vento non mandava a dire niente di buono per stanotte.
Il ghiaccio s'era cristallizzato sui vetri della 2CV “Charleston” e Arturo schiacciò il naso rosso contro il finestrino per guardare in strada.
Un bastardo nero con la bava e un linguone a tappeto srotolato, tirava per il guinzaglio una signora grassa con un vestito giallo dall'altra parte del marciapiedi tra le panchine verdi e le cacche sotto la sabbia come mine.
Aspettava lì da quattro ore ormai, sotto un tiglio di Corso Sempione, l'oblò sinistro aperto, senza radio e senza un amico, il bavero della giacca su fino al mento e la testa piegata di sbieco con gli occhi fissi sulla porta a vetri smerigliati di un locale alla moda del centro.
Sarebbe uscito di lì, lo sapeva. Alle sette e trenta aveva cenato da Gianni&Luciano, caviale, tortellini alla panna fresca e una fica stretta di faccia; seguì una capatina al distributore di profilattici e il ritrovo con la compagnia al pub.
Si chiamava Guido Pagni, bello giovane e ricco. “Quaranta e non li dimostro” diceva gonfiando i pettorali e stirando gli zigomi nuovi e le labbra al silicone. Una fede cieca nel conto in banca e scarpe da trecento euro.
Parcheggiò la Smart davanti al distributore e scese tirandosi dietro la cameriera in mini del Gianni&C.
Uscì a mezzanotte e un quarto, ridendo e agitando una mano verso l’interno del locale.
Arturo lo riconobbe subito, tirò fuori il Machete dal sacchetto marrone del pane sotto il sedile e uscì dalla 2CV.
Lui invece non l’aveva visto.
C’era da aspettarselo d’altronde, è uno di quelli che ragiona come un kleenex: quando non gli servi più ti getta nel cesso. Saluti e tante grazie. Del tipo: “Nulla di personale, ci mancherebbe” e ti ritrovi con una coltellata nello stomaco.
Si avvicinò alle strisce pedonali.
Una vecchia con l’aria di chi si porta sempre dietro l’ombrello quando esce perché non si sa mai, gli lanciò un’occhiata da insetto mentre aspettava di poter attraversare la strada. L’altro sembrava invece non aver fretta: accese una sigaretta, fece un giro intorno alla macchina e poi si mise in posa plastica atteggiandosi da playboy al passaggio delle trentenni sole o delle coppiette di teen-ager allegre e in cerca d’avventure.
Bisogna fare in fretta pensò Arturo o il nostro ci prova di nuovo.
Era fin troppo facile d’altronde: un sorriso che più bianco non si può, una strizzata d’occhio e il prestigiatore si portava la colombella sul terrazzo con vista Pirellone e tramonto di stelle esclusivo come la bottiglia di champagne da cinquecento euro già in freezer.
Ma stavolta no.
La cimice con la cuffietta di lana celeste si mosse allo scattare del verde più veloce del previsto, mentre lui con rapide falcate superò lo spartitraffico e finì per sistemarsi sotto un altro albero, ma più alto e senza una foglia, a cento metri da lui.
Puzzava d’alcol. Lo sentiva da quella distanza e le cose si mettevano male: così conciato c’era il rischio che qualcuno lo notasse o che chiamassero il 118.
Brutta roba. L’avrebbe fatta franca un’altra volta e solo al pensiero gli sembrò di sentire Elisa gridare.
Bisognava fare in fretta altrimenti non c’è l’avrebbe mai fatta ad arrivare in tempo alla fermata del 16 ed essere in tempo alla festa.
Erano già le venti all’una quando si incamminò nella sua direzione.
Il viale era poco trafficato e l’aria, quella solita del dopolavoro, un mix di mille fumi di scarico vaporizzato all’aroma nebbiolina fine della sera che non tarda però a macchiarti il soprabito della festa mentre scendi a portare il sacco della spazzatura cogli avanzi della cena.
“Sono ingrassato” pensò Arturo oppure era proprio quel cappotto che gli aveva regalato sua moglie a Natale a stargli male, fatto è che non si poteva chiederne al commesso uno con la tasca foderata portamachete o quella per le bombe a mano, e così aveva aperto la cucitura di una tasca e l’aveva infilato per lungo tenendolo per il manico mentre con l’altra mano si grattava distratto la nuca.
Ora lo vedeva bene.
Eccome.
Ci stava provando con una ragazzina mezza nuda che rideva come una scema a ogni parola e lui non finiva di guardarle le tette, poi sembrò indicarle la macchina e lei annuì sporgendosi in avanti ancora di più finché non fece il giro della Smart e venne spinta dentro con una manata sul culo.
Chissà se aveva fatto così anche con Elisa. Se le aveva messo le mani addosso prima ancora di essere saliti in casa con il riscaldamento acceso e i vetri appannati sotto un lampione mentre lei cercava di scappare.
Il solo pensiero gli fece accelerare i passi e balzare il cuore in gola a un passo dall’espellerlo lì sul marciapiedi.
Lasciò perdere tutto e corse. Via.
Senza pensare a niente.
– Sì?
Quando si voltò ci fu una reazione inaspettata.
Lo riconobbe e invece di scappare gli sferrò un debole gancio destro che andò a vuoto mentre Arturo ormai stringeva già nel pugno il machete.
L’uomo non si accorse nemmeno di avere un braccio pendolante e la scapola rotta che un secondo colpo gli arrivò alle spalle spezzandogli qualche vertebra e allora la sua bocca divenne una piccola “o” silenziosa nella posizione di urla e muto dolore che soltanto i suoi occhietti azzurri rigati come vetri testimoniavano perfettamente.
Barcollò abbracciando la micro vettura come fosse stata un trans con le chiappe all’aria.
Guido Pagni rovinò a terra piantando il grugno liscio come il culetto di un bambino tra una cicca di nazionali e un cellophane male avvolto. Fece uno strano rumore con la bocca prima di cadere, simile allo sfrigolio prodotto da quegli accendini elettrici per il gas della cucina o allo scoppiettio delle cervella quando friggono nell’olio bollente. E come le faceva sua madre nessuno le sapeva fare, pensò.
Dietro si lasciò una bavetta d’un bel rosso rubino che partiva dal finestrino e scendeva lungo la lamiera bagnata.
La ragazza non si mosse dal suo sedile.
Sembrava non aver notato niente o forse, più semplicemente, non voleva vedere proprio niente.
Ad Arturo venne in mente l’Uomo Nero.
A scuola gli raccontavano sempre che girava di notte e passava nelle case a prendere i bambini cattivi. Forse era successo così anche al bellone stanotte e l’Uomo Nero l’aveva incrociato su quella strada che conosceva tanto bene.
Ci stava ancora pensando quando decise di andare.
Girò al primo angolo e prese a camminare speditamente tra i palazzoni grigi del centro scansando i pochi passanti ed evitando gli sguardi come un ladro, con un occhio alle spalle e l’altro alla ricerca della fermata dell’autobus.
Quella era pressoché deserta. Una trasposizione del deserto dei tartari nel pieno centro di Milano alle due di notte.
Non tardò nemmeno il 16, vuoto com’era, e quando salì vi trovò il solito caldo soffocante del riscaldamento e una luce blu soffusa lungo il corridoio tra le due file di sedili verdini.
L’autista non lo degnò di uno sguardo, chiuse le porte e ripartì a strattoni isolandosi dal mondo esterno nella sua gabbia di plexiglas.
Dentro, oltre a lui, c’era una coppietta che limonava tranquillamente nei posti in fondo, due extracomunitari che non avevano smesso un attimo di parlare e un tizio elegante con una ventiquattrore sulle ginocchia.
Se non avesse trovato traffico sarebbe arrivato in tempo.
Cercò di concentrarsi sulla luce azzurrina del neon o sulle scarpe da ginnastica contraffatte indossate dall’africano per non pensare a niente, ma non ci riuscì; tutto tornava a galla come se a un tratto il blocco di cemento che li aveva legati finora in fondo allo stagno della sua coscienza si fosse sciolto come zucchero liberando i ricordi ora più vivi che mai.
La casa di Carlo non era distante: alla fine del corso e attraversata piazza Magenta si trovava quasi a ridosso di un parco scheletrito che separava la via principale tra due filari di condomini dei primi Settanta, e lui stava all’ottavo piano senza ascensore.
Il pullman lo lasciò proprio lì vicino.
Scese fuori come da una scatola pressurizzata e l’aria fredda della notte gli pizzicò subito il viso.
Gli altri invitati lo stavano già aspettando.
Meglio darsi una mossa.
Non c’era nemmeno da preoccuparsi del portiere, a quell’ora stava di sicuro al bar all’angolo o nel letto con la signora del terzo piano, comunque non l’avrebbe fermato per controllare i documenti o farsi citofonare da qualcuno.
Così arrivò in cima alle scale col fiatone e un Machete sottobraccio.
– Arturo! Ti stavamo aspettando!
Un’Ape Maia chic in calzamaglia gli aprì la porta allargando le braccia e schioccandogli subito dopo un bacio sulla guancia. Lucia era uguale a sua figlia, anche Elisa aveva il vizio di saltargli al collo appena entrava in casa. Qualcuno aveva messo dei festoni sotto le porte e dei palloncini colorati svolazzavano dappertutto tra i bizzarri frequentatori di quell’appartamento in centro.
Il generale Custer si fermò di colpo incrociando il suo sguardo spaesato, seguito a ruota da David Crockett obeso che prese a squadrarlo dalla testa ai piedi. Strano costume quello di Arturo deve aver pensato.
Quando sua moglie si scansò dalla porta e lo lasciò finalmente entrare si accorse realmente del suo aspetto.
Al banchetto in salotto si affaccendavano come cavallette un finto gangster in gessato blu a righe e un rapper “nero” col cerone sciolto per il gran caldo che faceva lì dentro, mentre altri ballavano scatenati al ritmo frenetico di samba e salsa dell’ultima ora.
A Elisa sarebbe piaciuta quella festa ne era sicuro.
Le feste in maschera erano la sua passione da quando aveva cinque anni e lo pregava di portarla a tutte le sfilate di carri della città. Lei con il suo costumino da fata turchina e lo spolverino sulle spalle per paura che prendesse troppo freddo finiva sempre per portarla in braccio lui quand’era troppo stanca di camminare a forza di grida e salti.
Poi s’era fatta grande e aveva iniziato ad andarci con lo zio.
Gli venne il vomito.
– Ma da cosa ti sei vestito?
Domandò il Pancho Villa rappresentante della new economy milanese probabilmente, che lo guardava col suo bel faccione rosa e gli occhietti neri intelligenti traditi soltanto da naso e baffi sospettosamente imbiancati.
Solo allora Arturo si accorse di un particolare «fuori posto».
Lo specchio dell’entrata confermò. Dalla tasca del giaccone spuntava ancora il manico del Machete insanguinato e aveva un baffo rosso disegnato su metà viso oltre a numerosi schizzi dal gusto vagamente floreale sparsi sulla camicia e sul cappotto beige.
Arturo ci pensò su un po’, poi sicuro:
– Da assassino.
Suo cognato Guido avrebbe detto la stessa cosa.


Fabio Marangoni è nato a Torino nel '79, città dove tuttora vive e lavora. Affascinato dai simbolisti francesi, inizia a comporre poesie che vengono riunite successivamente nella raccolta "Il sogno della crisalide", ancora inedita. Dal '98 scrive storie, soprattutto racconti brevi, incentrati sul mistero e sul fantastico e ispirati dagli autori americani dell'Ottocento, Poe in primis, ma anche dal movimento milanese della Scapigliatura. Ha pubblicato il racconto "Le ceneri" nel volume Visioni Infernali, Edizioni G.Ho.S.T. Nel 2003 pubblica il suo primo libro, Neroanimale per le Edizioni Il Foglio di Piombino. Nel 2004 il racconto "Centauri come back!" entra in Carne Morta, G.Ho.S.T. Collabora con il sito La Tela Nera di Alec Valschi, in veste di giurato del concorso per racconti noir-horror-mistery NeroPremio e cura la rubrica delle recensioni librarie e dove sono ospitate anche le sue pagine personali.

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L'omo s'è fatto da sé

di Antonio Valeriano Pulimanti

L’omo, co’ tutto er resto der Creato,
me diceva iersera un conoscente,
libero pensatore e miscredente,
tutto da sé s’è fatto: s’è inventato!

Sì, feci? … L’omo… er monno… e tutto quanto?
Ma perché  tu allora parli de creato?
Me pare ammè che er termine è sbajato!
Te lo ridico – lui rispose – e te lo canto

la materia sola conta e quella resta;
come er progresso e l’anzia d’annà avanti…
nun famo li sofisti tutti quanti…
… Ma senti te se nun è bella questa! …

Secondo te, quanno nun esistevo e nun ce stavo,
da solo me sò scolpito, de dietro e davanti,
va bè che me chiamo Valeriano  Pulimanti…
Ma chi lo sapeva desse così bravo!

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No droga no party

di Vincenzo Andraous

Le file di sedie sono tutte occupate, la classe è schierata nel grande salone, ragazzi e insegnanti riprendono fiato.
Si è conclusa da poco la visita guidata nei laboratori della Comunità Casa del Giovane di Pavia.
Il dibattito prende il via dopo la visione di un video, in cui Don Enzo Boschetti fondatore della comunità, pochi mesi prima di morire, con la parola piegata dalla sua malattia, disegnava il dolore incontrato nei tanti giovani raccolti ai margini della strada, le tante vite bruciate nella frazione di uno sparo, e la fatica sopportata per i tanti giovani liberati dalla droga, dalla necessità muta di sopravvivere in ginocchio.
Nel salone è scomparso il brusio disturbante, ora c’è tensione dell’ascolto, c’è voglia di capire, di confrontarsi, di accorciare una distanza, e c’è pure chi ha voglia di fare il maledetto per forza:
– Mi scusi Vincenzo, non sono d’accordo con lei, io fumo qualche canna, ma non sono certamente un tossicodipendente, credo che l’hascish non faccia male.
– In questa comunità ci sono duecento ospiti, tra giovani, adulti, donne: provate a chiedere ad ognuno di essi, come hanno cominciato a fare uso di sostanze. La maggioranza di loro vi risponderà: con uno spinello, sì, proprio con una canna, e tu ci stai dicendo che non fa male.
Droghe leggere, droghe pesanti, quali allora le differenze, se a perdere sono sempre i più giovani, quelli che in leggerezza hanno iniziato e con pesantezza si sono perduti.
I tempi mutano, noi cambiamo, e le droghe si misurano con le nostre debolezze, si ammodernano sulle nostre fragilità, cambiano abito mentale nelle nostre rese.
Così è stato venti anni fa per l’eroina-droga-protestataria, così è ai giorni nostri per la droga in pillole, quella che non consegna più gli uomini ai pugni dritti nello stomaco, ma rende i più giovani attori formidabili di storie inventate da scrittori invisibili.
Giovani rubati in corse folli contro il tempo che non basta mai, per poi rimanere inchiodati ai bordi di qualche rettilineo, o per buona sorte su qualche sedia a rotelle, fino a diventare vecchi per i rimorsi.
Il fumo delle sigarette brucia i polmoni fino a morire di cancro.
Il vino ubriaca fino a morire alcolisti.
Qualche spinello non brucia i polmoni, non rende alcolisti né drogati, ma in quel volo che fa ridere intontiti c’è la sonnolenza della ragione, c’è il via libera della stanchezza che non placca alla discesa, ma avventura senza attenzione, alla disavventura già prossima.
Quel ragazzo non ha ancora compreso la differenza tra una vocazione di bullo per forza, e il coraggio di scendere dal palcoscenico, dove i riflettori non colpiscono gli occhi, accecandoli.
Serve fare un passo indietro e comprendere che responsabilità e credibilità, provengono dal vissuto conquistato, sperimentato, dalla conoscenza delle lacerazioni e dagli ideali, non certamente da uno spinello, dalla droga.

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Nessuna riflessione sul ritorno

di Anita Fumagalli

Ritorna il tema del viaggio. Ma qui non c’è spostamento. Quanto fa 153 km meno 153 km? Mi sembra che faccia zero. Allora non mi sono mossa. Anzi no: il movimento c’è stato, ma poi ha annullato se stesso. Spostamento nullo. La mia posizione è la stessa di due giorni fa. Seduta ad una scrivania, a casa mia, noia e monotonia. Ho mosso le mie gambe, ma progressione non c’è stata. Ho viaggiato, ma non c’ho guadagnato in formazione.
Trepidazione. Domani parto. (Nessuna riflessione sul ritorno.)
Ieri, quando ancora il momento di andare era lontano, ero impaziente. Mancano solo poche ore, dovrei avere l’impulso di gettarmi in strada per arrivare alla meta nel minor tempo possibile. Ogni mio gesto dovrebbe essere modellato su di una corsa interiore. Indugio. Sono calma o forse ricerco la calma. Ma non mi occorre un grande sforzo per ottenerla. Non ho bisogno di un peso che mi ancori al letto in cui sosto, ancora. Sarebbe disonesto imputare la mia stasi alla stanchezza. Ieri, pensando al treno e poi finalmente alla stazione di arrivo, non trovavo la quiete. Mi rigiravo nel letto. Adesso mi incatena la paura. Mi fa rischiare di tirarmi indietro. Per poco non abbandono il gioco. Rimarrei nel mio brodo per evitare il confronto con un contesto diverso dal mio abituale. Il timore mi fa desiderare che dietro le mie azioni non cambi lo scenario. Decido: non vale la pena di stare qui a vegetare. (Nessuna riflessione sul ritorno).
Che sfortuna essere arrivata in anticipo al treno. Alle due ore del viaggio si sommano così venti minuti di attesa. Non ho pazienza. Tiro fuori dallo zaino il quaderno degli appunti. Scarno, ma averne presi di più in ogni caso non mi sarebbe servito. Ora certamente non mi tornerebbe utile. Come a quattro giorni dalla partenza, infatti, non ho concentrazione. (Nessuna riflessione sul ritorno.)
Mi muovo da un’ora. Mi muovo solamente da un’ora. Ancora un’altra mi sembra insostenibile. La frenesia mi spinge a credere che, se mi slanciassi fuori dal finestrino, con una corsa, potrei superare la vettura, precederla al traguardo. Mi drogo con le aspettative come fossero calmanti. Per poi ridarmi la carica, penso all’inaspettato, sconosciuto nel particolare, ma ovviamente meraviglioso. Mi sembra di aver preso un’eccitante. Ritorno a trepidare. (Non c’è testa per riflettere.)
Stop. Soltanto per il treno. Io intanto balzo giù dal predellino. Atterro sulla banchina. Ho un incedere marziale. Non mi perdo in corsette inutili, che solo occorrerebbero a mozzarmi il fiato. Procedo con passo determinato. Saldo come la mia mente. I piedi avvertono il potere e la fermezza. L’obiettivo dista poco. Su nient’altro mi concentro. (Troppo sicura per riflettere.)

Suono il citofono. Non ho bisogno di chiarire la mia identità. Dico “ciao”.
- Ciao.
Sento lo scatto. Spingo in avanti il portone. Sono dentro. Attendo che arrivi l’ascensore. Con l’adrenalina che ho in corpo, non esiterei a divorare cinque piani di scale. Non posso. Non devo presentarmi affannata al giudizio. Sono ferma dunque e questa volta veramente ricerco la calma.
All’interno della cabina, mentre salgo, respiro a fondo, rilasso i lineamenti, rilascio le mani lungo i fianchi. La porta è aperta, entro e la richiudo alle mie spalle.
Sono felice perché il mattino ancora buio mi culla, mi dona tranquillità, mi permette di appoggiare lo zaino a terra senza fretta. Sorrido perché tutto sta andando come l’avevo dipinto: la porta accostata e chi mi aspetta che continua ad aspettarmi, senza venirmi incontro.
La camera è immersa nell’ombra e il letto sulla parete di fondo sembra che ondeggi in un’atmosfera di ovatta. Mi siedo affianco al mio ospite sdraiato, sfilo le scarpe per poterlo raggiungere e abbracciare. (Nessuna riflessione sul ritorno: il tempo è cancellato.)
Mentre l’ospite mi stringe, piango. Non emetto alcun suono però, continuo a lacrimare in silenzio. Chi mi ricopre in un primo momento neppure lo nota. Neanche io in realtà ho coscienza di quello che mi sta accadendo. Avverto le lacrime che dagli occhi mi scivolano sulle tempie fino a sfociare nei capelli, ma non fanno rumore, non danno fastidio a nessuno, non mi impediscono di fissare il mio ospite e ricercarne lo sguardo.
Il riflesso ai lati degli occhi fa la spia ed io così mi lascio scoprire.
– Ma stai piangendo?
– Sì – lo dico con calma, senza darvi peso.
Chi mi ha scoperta però deve attribuirgli qualche importanza, perché immediatamente vuole saperne la ragione. Io invece non avrei voglia di parlare, vorrei che fossimo tutti silenziosi: io, l’ospite e le mie lacrime.
– Perché?
Mi tocca rispondere, ma onestamente neppure io mi spiego a cosa sia dovuto questo mio sfogo. Non so cosa dire e allora lo dico: – Non lo so.
Fatica a credermi: – Adesso voglio che tu me lo dica – insiste.
Rifletto un po’. Mi indago fra i pensieri, ma sembra non ve ne siano. Mi riconosco malinconica, tutto qui. Addirittura mi piaccio, ritengo di non avere bisogno di giustificarmi, mi sembra che la mia bellezza attuale debba parlare per me. Mi sento così bella per cui tutto debba essermi concesso: anche piangere.
Dovrebbe essere soddisfatto dal mio volto, ma ancora chiede. Allora invento. Adesso sì che devo incolpare la stanchezza.
- Probabilmente è perché sono stanca, non ho quasi dormito sta notte (nella mia sola testa: per venire qui). Non ti capita mai di piangere per la stanchezza?
So perfettamente ch’ella è innocente, come del resto lo era stanotte. La colpevole è un’altra. Quella che nella notte mi faceva indugiare: ho paura.
So di aver mentito, ma all’ospite la risposta è bastata. Ha smesso di insistere e ripreso a ondeggiare.
Sono a posto, giustificata, ma continuo a interrogarmi. Giro la testa per un attimo verso la finestra. Capisco: il buio ha smesso di cullarmi ed il letto non è più sospeso in un’atmosfera ovattata. Il sole è sorto. La Terra si è mossa, quindi significa che anche il tempo è passato. (Riflessione: il tempo non è cancellato.)
Stiamo pranzando. L’ospite mi mostra delle fotografie: il suo passato. L’avevo sempre ignorato. Chi mi mostra le sue foto per me vive in questo istante.
Sta sfogliando gli album al contrario dal più recente al più remoto. Ma i minuti corrono in senso opposto. Troppe foto. Certo per loro non è un problema: tornano indietro. Per me questo non vale e loro mi mangiano il tempo che già da solo si affretta. Il mio piatto intanto è ancora pieno. (Si avvicina il ritorno.)
Riversi sul letto, di nuovo.
– A che ora ce l’hai il treno?
Ho il treno da prendere è vero, anche l’ospite ne ha presa coscienza.
– Uno ogni ora – rispondo; e intanto penso: "Chiedimi di restare".
Nella mia testa già scarto la prima opzione della lista: non me ne andrò alle 17.40, prenderò il seguente. Così continuo a rimandare ed altro non faccio che consumare i miei nervi adattandoli al passare d’ogni ora. Arrivo ad escludere anche il treno delle 19.40, ma lo stesso non riesco ad agire. So di dover partire. Nella sveglia vedo i minuti incalzanti. L’ansia devia la mia vista da chi, prima del viaggio, con la mente potevo guardare. (Riflessioni opprimenti, invadenti.)
Entriamo nella stazione. L’ospite mi ha accompagnata. Questo non l’avrei voluto, non l’avevo disegnato. Guarda gli orari nel display: 20.50.
– Fortuna – penso – ancora qualche minuto per non perdere il treno e per osservare il suo volto.
Per un secondo temo di aver perso il biglietto. Trovato. Sono tranquilla o forse rassegnata: inutile, ormai niente mi trattiene. Convalido. Ci fermiamo e salutiamo prima dei binari.
Al momento del saluto non mi bacia mai, questa volta non glielo permetto.
– Non posso accompagnarti oltre. Devo andare.
– Ok, però voglio un bacio…
Fa una faccia dubbiosa.
– … piccolo.
Sorride. Mi accontenta.
– Ci sentiamo – aggiunge.
– Certo.
– Buon viaggio.
Ringrazio, perché mi veda serena: già da adesso prevedo che a nulla varrà l’augurio.
Mi spingo avanti lungo il binario. Salgo su uno dei vagoni più vicini alla locomotiva: sento in anticipo che non sarà molta l’energia per camminare dopo due ore di viaggio.
Mi siedo vicino al finestrino con il volto diretto alla meta. Alterno sonno, sogni ed incoscienza a brevi momenti di veglia. L’impressione però è una sola: essere ancora dentro al passato e, come le foto, andare a ritroso. Col corpo sono proiettata in avanti, ma rivivo in fotogrammi immutati la giornata trascorsa. (Nessuna riflessione sul ritorno.)


Anita Fumagalli è nata a Milano il 5 maggio 1984. Frequenta la facoltà di Lettere presso l’Università Statale. Partecipa a concorsi letterari ed ha pubblicato poesie e racconti su Internet.

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La confessione di un guerriero ignoto

di Drazan Guniaca

Maledetti sogni. Quando tutti ti lasciano in pace, ossia quando con la forza di volontà ti convinci dopo tutto di valere di più dei ricordi, questi ti raggiungono, di solito tra le 2 e le 3 del mattino e allora, completamente inebetito e completamente perso, giri e rigiri madido di sudore nel letto che sembra più uno stivale spagnolo dell’epoca dell’inquisizione che un posto dove riposarsi dalla realtà… Ti dimeni nelle giungle del passato tentando di uscire alla promettente luce del giorno… che però non sorge. E così la vita rotola giù per le scogliere taglienti e appuntite che non sai se appartengono al sogno o alla realtà. Oppure né all’uno né all’altra, così diventi uno di quei cosiddetti casi limite, né in cielo né in terra, dimenticato e disprezzato da tutti. Nessuno ti vuole nel suo mondo. Né i santi né i peccatori. Mentre i confini tra i loro mondi, anche se esistono, continuano a spostarsi su e giù, sempre nella direzione opposta a quella in cui tenti di trovarli. Chissà se mi lascerebbero passare quel confine nel caso riuscissi a trovarlo.
Non si è mai guerreggiato di più, né è mai stato più difficile essere un guerriero. Tempi strani. Quando parti ti salutano con fiori e lacrime e poi ti accolgono con bestemmie e maledizioni. Le stesse persone. Quelle che ti hanno mandato in guerra. Ma cosa si aspettavano da noi mandati al fronte? A volte penso che le guerre siano diventate un cappriccio, una moda passeggera fomentata da sedicenti stilisti che non hanno il minimo senso per le sfumature del modello che creano. Un modello informe, creato in fretta e furia, stufa presto tutti quanti, va fuori moda e tutti distolgono gli sguardi da noi che eravamo solo modelli, e camminavamo per la spaventosa passerella finché è durato il prêt-à-porter di guerra. Ma qualcosa si sono persi lo stesso questi sapienti e onnipotenti signori a tempo determinato. Il modello, una volta creato, vive di vita propria, indipendente dalla volontà dei propri creatori, che infallibili per definizione, stanno facendo la parte dell’elefante ubriaco nella vetreria.
Proteste contro la guerra. Ieri sono stato coinvolto per caso in una. Quando sei un invalido non fai in tempo a spostarti, nemmeno davanti ai pacifisti, immaginiamoci a quegli altri… Prima della guerra non li capivo, ed ora non li sopporto. Perché? Perché tutti loro messi insieme non odiano la guerra quanto me. Perché non sono venuti al fronte a protestare? E poi, prima della guerra, metà di loro erano per la guerra, ed ora, che è fuori moda, sono contro. Onore alle eccezioni. Perse nel tempo e nello spazio come me. Ognuno a modo suo e per le proprie ragioni.
Quando capirà la gente che le guerre non possono essere delle mode?
Perché odio tanto la guerra? Perché in essa non c’è più neanche un filo di cavalleria. Perché la si fa tutti contro tutti. Perché il mio amico è stato ucciso da una nonnina che tentava di salvare dalla sua casa in fiamme… Non poteva reggersi in piedi per la vecchiaia, ma poteva ancora tenere un fucile tra le mani. L’età non conta per poter tenere un fucile nelle mani. Né conta il sesso, la religione, il colore della pelle… niente. Solo delle mani e un fucile. Nei miei sogni lacerati non sono perseguitato da quel fucile ma da quelle mani vecchie e tremolanti… L’ha ucciso per paura. Avrebbe ucciso chiunque si fosse affacciato in quel momento sulla porta della sua casa in fiamme. La paura non ha limiti. È la guerra. È quello che i suddetti "stilisti" non riescono a capire. Non hanno mai visto quella nonnina. Con il fucile nelle mani. Non l’hanno vista neanche quelli che, a loro tempo, ci salutavano con la mano quando partivamo. È molto difficile capirlo finché non vedi. E quando lo vedi è troppo tardi. È molto meglio non capirla, la guerra. Non vederla riderti in faccia e mostrarti cosa, e con che facilità, è capace di fare di ognuno di noi. E poi quel maledetto momento più lungo dell’eternità: vendicare l’amico oppure no? Il momento che ritorna ogni notte…
È mattina presto. Alle 6 non ci sono bar aperti dove poter bere un caffè, eccetto in una stazione di servizio… Lì, appoggiati al piccolo bancone, un paio di ubriaconi che cercano di bere l’ultimo bicchiere, alcuni giovani drogati che urlano Dio solo sa cosa e la cameriera stanca che guarda la scena assente e disinteressata… Appena mi vede si mette a preparare un caffè doppio… Ospite abituale a quest’ora. Negli occhi le vedo riflesso il desiderio di andare a dormire… È sorto un’altra giorno da ieri. Già vissuto. Già passato. Indifferente: tutto è meglio della notte. Tra le 2 e le 3…


Drazan Gunjaca (1958, Croazia) è autore di numerose opere contro la guerra, di cui le più conosciute sono il romanzo Congedi Balcanici ed il dramma Roulette balcanica, tradotti in molte lingue e vincitori di numerosi premi letterari.

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Non dobbiamo intristirci

di Gezim Hajdari

Non dobbiamo intristirci per ciò che è fuggito
(il bello della vita non è viverla ma attraversarla)

le radici del biancospino
con le quali abbiamo comprato pane e libri per studiare
hanno ricoperto le frane della Mandra

sulle spalle del Tempo sono cadute le nostre Parole,
pesantemente.

(da Spine nere - Gjemba të zinj, Besa, Nardò)

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