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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 85
Gennaio 2007

Editoriale: La parola mi ha scelto (e non viceversa)

Questo ci ricorda Vesna Andrejevic nel suo racconto, mentre Marco Scalabrino, recensendo Riccobene, auspica che il poeta non si limiti al ruolo di destinatario passivo, e Roberto Morpurgo, parlando di consulenza filosofica, afferma che: "La lingua che noi parliamo dice già cosa pensiamo di noi". E ancora Filippo Ranchio ci stimola a "cercare nuove parole per esprimere nuovi concetti", mentre Maria Rosa Panté ci presenta alcune sconvolgenti profezie letterarie, i versi di Nicola Rosti ci parlano di empatia e quelli di Franca Mancinelli ci dicono "tieni le impronte che s’allontanano". Siamo forse "riflesso basso di Dio" come scrive Stefano Cervini, e il tu poeta sa che "non c’è luogo per la scansione dei tuoi metri", secondo Luca Ariano. Drazan Gunjaca si chiede se è possibile immaginare un Umberto Eco nato in Bosnia, Andrea Parato ci parla della morte della lettura e padre Gianni ci pone nel mistero dell'Annuciazione. Concludono le note di lettura a Mari, Fattori e al Suchère interpretao da Sannelli. Vi ricordiamo il nostro concorso Prosapoetica terra/di/nessuno e vi aguriamo un felice e consapevole Natale con i versi di Giuseppe Callegari e un buon 2007!

… uno scoppio

di Maria Rosa Panté

“La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V'è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza… nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! (…) Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. (…) Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”

Così si chiude un grande romanzo del '900 La coscienza di Zeno di Italo Svevo, scritta nel 1923. La lettura del brano è sconvolgente. Come sempre la letteratura è profetica, precede la scienza, la politica e il sentire comune. Infatti noi tutti ci ritroviamo a dibattere ferocemente su mille questioni più o meno valide, senza sfiorare quasi mai il problema dei problemi: cioè l’ecologia, termine tanto di moda. Ecologia contiene in sé la parola greca oikos che significa casa; è una parola abusata, ma bellissima. L’ecologia si occupa della casa. Pensiamoci un poco: nella maggioranza dei casi l’uomo vuole un rifugio, fa di tutto per acquistarlo, renderlo confortevole, magari lasciarlo ai figli e in buono stato. Nella casa ci sono le famiglie, talvolta dei fiori, delle piante, spesso degli animali. Difficilmente qualcuno ammorba l’aria della sua abitazione lasciando aperto il gas, oppure accendendo un fuoco nel salotto, difficilmente la famiglia depone i rifiuti insieme in un mucchio che invada le stanze… Eppure, la maggioranza delle persone appena esce dalla piccola casa (ristretta come la miopia politica, ma anche come gretto è l’egoismo dei più), non si preoccupa di sprecare: il riscaldamento (bastino le aule scolastiche: termosifoni accesi e finestre aperte), il combustibile, l’energia, l’acqua, gli oggetti, il tempo, gli affetti, la vita…
La casa di tutti, l’oikos dell’ecologia, diviene così un grande immondezzaio a cielo aperto, e tra poco tempo, ci dicono (i soliti allarmisti?) tutto il danno che stiamo facendo ci si ritorcerà contro… aumenteranno le temperature, si scioglieranno del tutto i ghiacciai, scompariranno le foreste, non resterà traccia di molte specie animali e vegetali. Accadrà insomma quello che ha ipotizzato Svevo.
Pochi dicono quanto le guerre siano inquinanti; pochi affermano che le politiche per l’energia pulita sono insufficienti, nessuno esita a inquinare come può e quanto può, come se il mondo finisse adesso. E così potrebbe essere, tra poco tempo, perché il futuro davanti a noi è oscuro.
Anche Milan Kundera ne Il libro del riso e dell’oblio, scritto nel 1978, coglie l’importanza vitale, l’essenzialità del tema dell’oikos, persino in una situazione estrema: durante l’occupazione militare di Praga. Ecco cosa scrive: “Una notte i carri armati di un paese vicino avevano invaso il loro paese (…). Si era d’agosto e nel loro giardino le pere erano mature. Una settimana prima la mamma aveva invitato il farmacista ad andare a raccoglierle. Ma il farmacista non si era fatto vivo (…). La mamma non riusciva a perdonarglielo (…). La rimproveravamo: tutti pensano ai carri armati e tu pensi alle pere (…). Ma è poi vero che i carri armati sono più importanti delle pere? Man mano che il tempo passava, Karel (…) cominciava a provare una segreta simpatia per il punto dista della mamma dove in primo piano c’era una gran pera e da qualche parte, sullo sfondo, un carro armato piccolo come una coccinella, che da un momento all’altro se ne sarebbe volato via e sarebbe scomparso allo sguardo. Eh sì, tutto sommato è la mamma ad avere ragione: il carro armato è mortale la pera è eterna.”
Anche se alla luce dei fatti odierni Kundera è ottimista sul futuro della pera.
Così provo molta pena per gli innocenti: cioè i poveri del mondo, gli animali, le piante. Non provo pena per quelli come me e anche più di me, sprofondati in un ottuso benessere. Vorrei che allo scoppio finale qualcosa sopravvivesse, ma sono certa che, come ha detto un altro grande scrittore, ancor prima di Svevo, dell’uomo nessuno sentirebbe la mancanza!
Dalle Operette morali di Leopardi, Dialogo di uno gnomo e di un folletto.
Folletto. Ma ora che ei (gli uomini) sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
Gnomo. E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
Folletto. E il sole non s'ha intonacato il viso di ruggine (…).”

La tentazione di chiudere a effetto con l’amarezza ironica di Leopardi era forte. Ma, in fondo, pensare che l’uomo distruggerà il mondo è come pensare che l’uomo è il padrone assoluto di ciò che lo circonda.
Personalmente mi sono resa conto che non è così. Può constatarlo il non credente, e può sentirlo il credente. La natura si ribella, si adegua, si trasforma per automedicarsi dalle ferite inferte da chi inquina. Il mondo non è opera dell’uomo, nemmeno per l’ateo è così. E, per chi crede, all’origine delle origini c’è un Creatore. Questi ha dato all’uomo il compito più delicato, ma la terra geme e tutto è creatura di Dio.
Ho “sentito” queste cose, quando, poco dopo aver scritto le mie considerazioni sull’uomo distruttore e il mondo morituro, m’è capitato tra le mani un passo dalla Bibbia (Baruch, 5,7-9). La volontà della natura o forse Dio m’hanno chiarito un punto di vista diverso che nulla toglie alle responsabilità dell’uomo, ma che, attraverso la speranza, può spronare gli uomini di “buona volontà” a porre rimedio finalmente allo scempio commesso (il tempo urge).

"Dio ha dato ordine di spianare
Le alte montagne e le rocce secolari.
Vuole che i burroni siano riempiti
e il terreno diventi piano,
perché Israele possa camminare al sicuro
sorretto dalla potenza di Dio.
Per comando di Dio, foreste
con ogni sorta di piante aromatiche
devono far ombra a Israele nel suo cammino
Dio stesso guiderà Israele nella gioia.”

Maria Rosa Panté è nata nel 1961 a Borgosesia, cittadina in provincia di Vercelli dove vive. Insegnante di materie letterarie in istituti superiori, attualmente si occupa della produzione di materiale multimediale e ipertesti per la didattica. Ha pubblicato un libro di poesie e prose, L’amplesso retorico. Voci femminili dal mito (2004) e nel 2006 un libro di racconti: Noi che non fummo muse (Manni). Ha partecipato a diversi concorsi di poesia e narrativa, conseguendo premi sia per la produzione poetica, che per la prosa e la saggistica.

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Il compito della filosofia

di Fillippo Ranchio (Semi-filosofici)

Il compito della filosofia è la posizione dell'originario. E questo è ciò che la differenzia dal senso comune, che resta pur sempre una individuazione di quell'originario che la riflessione filosofica porta alla luce. L'originario è "apparire di qualcosa" o, che è lo stesso, "c'è qualcosa" (Tommaso).
Due sono i termini in gioco in una relazione d'apparire: l'orizzonte (trascendentale) dell'apparire e il qualcosa che appare. L'orizzonte è altro da ciò che in esso appare: è ni-ente, se ciò che appare è l'ente. "L'alterità dell'apparire, poiché è nulla-di-ente, cioè niente, è una alterità sui generis. Questa alterità, infatti, non induce nulla nell'ente manifesto. Perciò non ne altera la forma, ma anzi con essa si identifica e, insieme, essa identifica" (Carmelo Vigna, Il frammento e l'Intero, pag. 7). Nella misura in cui consente il manifestarsi del qualcosa, l'apparire se ne ritrae e rimane come sfondo irriflesso della nostra esperienza di mondo. Quando lo si mette a tema, ossia quando deliberatamente si decide di spostare lo sguardo intenzionale dal contenuto determinato (questo libro blu), all'orizzonte trascendentale che lo rende accessibile allo sguardo; quando si scorge la differenza tra le due componenti di tale relazione originaria (differenza che non può mai venir ricondotta ad astratta separazione); quando infine si tenta una indagine sulla struttura dell'apparire attraverso il reperimento delle sue costanti in relazione al suo contenuto: allora si sta facendo filosofia.
Questi brevi cenni tentano di mostrare come l'alterità, di nuovo tra l'apparire di qualcosa e il qualcosa che appare, sia un tratto fondamentale dell'originario. Una volta che viene messa in discussione l'importanza speculativa di questa figura e conseguentemente si affidano alla filosofia compiti diversi, l'alterità decade a incognita della ragione, a problema risolvibile solo attraverso faticose dimostrazioni, spesso concluse in un nulla di fatto. Avevo inizialmente pensato che vi fosse una stretta correlazione tra questa "perdita" dell'alterità, intesa come fatto originario, e la conseguenza inevitabile che scaturisce dal tema nietzscheano della "morte di Dio", ossia l'identificazione della totalità dell'essere con il divenire. Da qui il titolo della mia relazione "Perdere Dio è perdere il mondo?", dove intendevo il mondo, sulle traccie della physis greca, come l'alterità in generale. Ma già la forma interrogativa del titolo faceva presagire una qualche problematicità di fondo nella istituzione di una simile correlazione. La questione doveva essere riportata ancora più a monte. In questo senso tutta la tradizione moderna, inaugurata dal celebre dualismo cartesiano, sembra prestarsi ad una lettura del tipo qui proposto. Con Cartesio nasce infatti il problema di come sia possibile, a partire dall'unica certezza di cui sono in possesso, ossia di essere un soggetto pensante e quindi avere in me delle rappresentazioni, dimostrare a) che queste rappresentazioni provengano da una realtà altra rispetto al "cogito", ossia dal mondo esterno; b) che esse siano adeguate (e quindi vere) proprio a quel mondo esterno di cui si mette in dubbio l'esistenza. Tralasciando qui l'aspetto ineludibilmente solipsistico di una impostazione di questo tipo e le sue influenze sull'intera tradizione del liberalismo, si giunge a Kant che, rifiutando l'ancoraggio teologico cartesiano che aveva permesso al filosofo francese di guadagnare l'alterità del mondo esterno, si trova perciò costretto a trattare l'origine della nostra conoscenza fenomenica proprio nei termini sopra citati di "incognita della ragione". Hegel ha giustamente criticato questa strategia dei moderni, tutta rivolta a stabilire una corrispondenza, a prima vista problematica, tra il soggetto con le sue rappresentazioni e il "mondo esterno" che ne dovrebbe rappresentare l'origine. Tutta questa dimostrazione è chiaramente svolta al di qua della verità, in quanto la verità (che per i moderni è appunto la corrispondenza) è il risultato. Da qui la celebre battuta hegeliana contro Kant, la cui filosofia viene paragonata a quel nuotatore che vuole imparare a nuotare prima di essersi buttato in acqua.
L'originario, come l'abbiamo inizialmente caratterizzato, è ora oggetto di mediazione, cioè di dimostrazione: il fatto che "c'è qualcosa" va appunto dimostrato. Le cause di questa alterazione dell'originario nella filosofia moderna, possono per il momento venir circoscritte all'interno di quella "metafisica della soggettività" che accomuna tutti gli autori citati, e altri ancora nella contemporaneità.
Sembra quindi che la gnoseologia moderna sia la responsabile della perdita dell'alterità come figura dell'originario. E questo è sicuramente vero. Ma, giusto per ritornare al titolo in cui si parlava di Dio, intendo suggerire come l'idea stessa di Dio, coltivata dai monoteismi, renda problematica la figura dell'alterità. Il saggio di Natoli che vi avevo sottoposto all'epoca, può essere letto con l'ausilio di questa griglia interpretativa. E qui si tratta soltanto, o prevalentemente, di una questione ontologica. Bastino a riguardo le parole di Severino: "È appunto l'esigenza di intendere l'immutabile come la pienezza dell'essere, ciò che spinge lo stoicismo, il neoplatonismo, la patristica e la scolastica a porre la dipendenza e la dipendenza assoluta del mondo da Dio. L'immutabile dà l'essere alla materia e al mondo, perché se li trovasse davanti a sé, indipendenti e come suo limite, esso mancherebbe di qualcosa, sarebbe cioè aperto ad un completamento possibile, non sarebbe l'immutabile" (Emanuele Severino, Essenza del nichilismo, pag.31).
Resta da aggiungere che se il compito della filosofia è la riproposizione dell'originario, essa deve fare i conti con una secolare messa in questione dell'originario stesso, che qui è stata solo parzialmente accennata. Per riuscire nel suo intento è indispensabile che non si sottragga al confronto con tradizioni di pensiero differenti, ossia non ceda a quello "snobismo metafisico" che inquina molte pagine di chi assegna alla filosofia un compito così importante. Che è poi il compito per cui è nata e l'unico per cui, credo, possa sperare di sopravvivere con un briciolo di autonomia. Non deve inoltre temere di cercare nuove parole per esprimere nuovi concetti, né tanto meno di servirsi di quelle antiche se hanno ancora molto da dire. L'occasione mi autorizza a citare Pascal: "J'amerais autant qu'on me dise que je me suis servi des mots anciens. Et comme si les mêmes pensées ne formaient pas un autre corps de discours par une disposition différente, aussi bien que les memes mots forment d'autres pensées par leur différente disposition» (Citato in C. Vigna, Il frammento e l'Intero, pag. XVII).

Il gruppo dei Semi-filosofici riunisce giovani studenti di lettere e filosofia delle università di Venezia e Padova, e si propone come uno spazio di riflessione e approfondimento volto a garantire e coltivare, anche al di fuori dell’ambito accademico, il confronto su tematiche di interesse filosofico, letterario, civile. Le nostre riunioni hanno affrontato temi e problemi legati ai principali ambiti d’interesse del dibattito filosofico contemporaneo, prestando particolare attenzione ai risvolti di carattere pubblico e sociale e all’integrazione fra ambiti disciplinari distinti. Da circa un anno cerchiamo di coinvolgere un pubblico più vasto, partecipando a diverse attività culturali veneziane e non solo, con una forma espressiva che tenta di conciliare l’intimità della riflessione e l’esigenza di risultare quantomeno “accattivanti” per le persone che ci vengono a sentire. Per leggere i nostri articoli, conoscere le iniziative cui abbiamo preso parte, mettersi in contatto con noi: www.semi-filosofici.it

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Liriche

di Stefano Cervini

J.P. II

In fine una voce che trema,
poi non c’è più; un passo
che arranca, poi cede, si siede.

Solo una mano muta
accenna, e quegli occhi
vivi sopra labbra strette.

I pellegrini, a migliaia,
cosmopoliti, uniti,
davanti la testimonianza,
lucida, consapevole,
del fermo tuo martirio.

Caro Giovanni,
apostolo novello,
nuova pietra,
io in verità non credo
se non nell’uomo,
scommessa precaria,
necessaria, eppure
nel severo tuo rigore,
nella tua generosissima
coerenza, uno storico,
quotidiano esempio.

***

Nelle nostre mani e nella volontà
resta l’intelligenza divina nella storia,
la scommessa Sua nella nostra:

noi, riflesso basso di Dio,
perché costruttori con fatica. (1)

***

(2) E Pietro si fermò presso te,
convertita Giaffa, guarita Tabità.

Lode e riconoscenza anche a te, Simone
conciatore: pure il tuo gesto semplice
resta implicito nel nostro presente.

***

Sono un senzadio.
Eppure qualche volta
negli anfratti del reale
pure io del divino scorgo
il sospetto d’un barlume,
e grato mi segno, puro
come fresco rio che scorre
delle rocce fra gli spigoli.

 

Note

(1) A San Benedetto da Norcia ed alla Sua nota Regola.
(2) Lo spunto è tratto dagli Atti degli Apostoli 9,43.

Stefano Cervini è nato a Varese nel 1965 e vive a Bologna.
Si èlaureato in Psicologia del Lavoro a Padova nel 1992.
Dal 2001 è socio del Mensa Italia. Ha cominciato a scrivere nel 2003. È stato segnalato dal concorso Pubblica con noi.

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4 poesie

di Luca Ariano

Eureka

Con che masochistica incoscienza
si andava verso la catastrofe,
con la leggerezza di Ma l’amore no,
l’amore mio non può dissolversi…

così senza elmo combatti la tua Austerlitz.
È lunga la storia di quel paese
che ancora non sa quadrare i conti
con le stagioni, così come t’aspettavi
quel “Ciao come va? Che fai?”
E non hai ancora capito che non puoi seguire
il folle sbuffo d’una bambina.
L’odore dei fiori dei morti si sparge
nei cortili e dietro il bosco rimbombano
spari: cani corrono con le loro prede tra i denti
e il tuo levriero con la lingua a penzoloni
ansima a bocca vuota.

***

Eccoteli lì quei capelli di nebbia,
quasi li stavi aspettando
come sabbia negli occhi a cavarti
lo smalto.
Oggi è il suo compleanno –
segnato in qualche agenda estiva,
e ti passa la voglia d’un piccolo gesto,
la risposta sarà un asettico smile
nascondendo il capo dietro i portici.
La barista di polline ti servirà
un caffè già tiepido e ronzerà
la scontata storia d’un copione
di periferia: Raffaella, ventidue anni,
– troncata l’infanzia a quattro anni –
distribuisce un mazzo di foto
– scattate dal patrigno,
come carte prima dell’ultimo giro.
Forse ci sarà ancora qualcuno
a dilatare le pupille per la poesia
d’un battito ma questa sera
non c’è luogo per la scansione dei tuoi metri.

***

Tornare è un po’ come morire
tra sorrisi sdentati
e mani gitane da leggere,
c’è un apparecchio
a graffiarti le labbra.
Curvi tra le risaie e nuovi cantieri
ricordandoti che la tua generazione
non suda il cammino sui sassi;
– per chi ce l’ha – la tredicesima
è già una foglia di vento sul marciapiede
e nascere in Lomellina è un sospiro crepuscolare.
Ti bombardano di messaggi e video
e giù a rimbrottare che ai tuoi tempi
non c’erano, per loro che non si scambiano
un’occhiata, immersi nelle cuffie.
Aspetti ancora che i viali splendano
del suo riverbero e non delle abusate
lucine natalizie sotto i portici.

***

Parlare con lei ti riporta
a un altro tempo
– anche se poi lo sai,
fra qualche giorno ti richiederà
il nome e l’età
e tu fingerai che è la prima volta.
Forse per l’imbarazzo di quella spocchia,
di uno che ha troppo studiato
ma almeno non ti colpirà con naturalezza,
nel gioco darwiniano della selezione.
Non le servirà leggere e rileggere Proust,
non farà tornare indietro quell’uomo
né cancellerà un trauma infantile:
quei metri quadri di Oscar Mondatori
non riempiranno la stanza e le ore di sapori.
Ascoltavi quella canzone dieci anni fa
e forse la risentirai tra vent’anni
con gli stessi accordi e nella tasche
ancora qualcosa da mettere,
una cintura da stringere, una giacca da indossare;
l’autobus lento macinerà il Lungofiume
tra ville Liberty e i fumi del dopolavoro.

Luca Ariano (1979) vive tra Vigevano e Parma. Ha pubblicato nel 1999 la silloge Bagliori crepuscolari nel buio presso Cardano di Pavia. Numerose sue poesie sono apparse su riviste e siti letterari e su antologie tra cui Oltre il tempo/Undici poeti per una Metavanguardia, curata da Gian Ruggero Manzoni per le Edizioni Diabasis (2004) e La coda della galassia (2005). Nel 2005 è uscita la sua seconda raccolta di poesie Bitume, con la prefazione di Gian Ruggero Manzoni, per le Edizioni del Bradipo di Lugo di Romagna.

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Su Polvere d'attese (in La parola in vetrina) di Lina Riccobene
Eranova Bancheti Editrice, 2006

recensione di Marco Scalabrino

C’è un termine, in questi giorni, che mi è capitato di sentire spesso in televisione (la nova magistra vitae!?): deriva. Il sostantivo “deriva” evoca lo spostamento scomposto di un natante per effetto delle correnti o in balia dei marosi; un vocabolo marinaresco, dunque. Ma evidentemente, mentre volgevamo altrove le nostre cure, una diversa accezione del termine nel senso traslato di “tendenza incontrollabile sul piano sociale e politico” si è attestata. Questo fenomeno avviene, invero, assai più frequentemente di quanto si creda. La lingua difatti è un organismo vivente, una struttura articolata i cui elementi, le parole, sono in continua correlazione e trasformazione. Trasformazione dovuta al variare della società, connessa alla evoluzione filosofica, scientifica, tecnologica di questa. Le parole, gli studiosi rilevano, hanno una vita. E in questa loro vita, esse nascono, si evolvono, muoiono. Si ammalano per l’eccessivo uso e invecchiano. Talvolta perdono il loro primitivo significato e ne acquistano uno opposto.
Direte voi: – Che c’entrano queste riflessioni con l’Autrice, con il libro di cui dovremmo piuttosto argomentare, con la Poesia?
Polvere di attese è un poemetto in ventidue frammenti. Un poemetto che tratta dell’Amore. E l’Amore, fatto che attiene alla natura dell’uomo, alla sua sfera emotiva e al suo essere sociale, si manifesta, si consuma, si enuncia, a seconda dell’epoca, del luogo, del costume, della lingua; della singolare formulazione che del patrimonio linguistico il poeta che lo canta opera.
In passato (ma non stiamo qui a rivangare) l’amore consisteva di serenate, di fidanzati accompagnati dai parenti (di lei), di matrimoni combinati… e si risolveva non di rado nella fuitina. Le parole pertanto, che per citare sommariamente Ludwig Wittgenstein sono deputate a rappresentare l’amore come ogni altro ambito del vivere umano, comprensibilmente rispecchiavano quei parametri etico-ambientali.
Oggi l’emancipazione, la convivenza, i messaggini… è mutata la società, la cornice storico-culturale, è cambiata la pratica dell’Amore e per conseguenza il codice di comunicazione relativo. Ecco quindi che la Poesia, il poeta c’entrano.
Giacché la Poesia, è giusto il caso di ribadire, è interiore urgenza, combinato esercizio di spirito e di intelletto, ufficio tra i più seri della vita del poeta. Poeta cui fa obbligo, se realmente è tale, il crearsi un proprio linguaggio, l’inventarsi nuovi canoni espressivi, il diuturno sperimentare la volontà di essere differente, originale.
In un tempo immerso nello spasmo di notti senza orologi, in una dimensione in cui i desideri corrono veloci, due bimbi, angeli inespugnati, inseguono grida, si abbracciano, si lasciano. Ma la polvere dei giochi, come lacrima del silenzio che nessuno apprende, spiove sulle impervie strade della vita. Un secolo declina e l’altro nasce, scorrono ruscelli d’un sogno da narrare: bruna con vesti a cenci, lei canta la tempesta che accompagna la sua anima di DONNA e nel cristallino degli occhi del suo imperterrito compagno – lagune pensose dove hanno rifugio gli uccelli e il vento riposa – troverà infine ciò che desidera.
In queste serrate tracce i dati salienti di quest’opera che, a partire dal titolo, la polvere tutta avvolge.
Non si pensi però, magari candidamente collegando la Nostra alla sua Sicilia e allo Scirocco che pure la sferza, alla polvere quale “terra arida e ridotta in particelle tanto minute e sottili che, ad ogni più piccolo soffio di vento, si levano per aria”.
Perché, ben aldilà della scontata immagine che suggerisce, essa – nelle figurazioni che Lina Riccobene realizza – scopre contingenze di rivalutazione, contempla estensioni del concetto, assume sorprendenti profili di rito, vita, morte:
spora d’incenso quaresimale sul mio capo chino e obbediente -
perduta nel cammino senza incontrare il mondo –
incenerita dei nostri corpi disfatti da tempo e morte.
E, per quanto più da presso ci concerne, perviene al rango di segno, alla qualità di scrittura, alla condizione di Poesia:
all’altezza del cuore non muore mai la polvere -
la polvere è ferite d’amoreodio da fermare al vallo della prudenza –
non ha casa la polvere di attese, non possiede pareti dove appendere simboli e illusioni, non ha Natale nell’eterno vagare delle stagioni.
La stesura del componimento, nello specifico andamento narrativo, segue un doppio, parallelo registro: quello, nel dolceamaro lasciarsi cullare, dei due bimbi:
lui, tenero soffio e scalpiccio di cavalli imbizzarriti, a carpire ai passeri i segreti della malinconia –
lei, vago intarsio sull’alabastro rosa d’una colonna, che danza le tenerezze dall’anima compagna –
e, nel contraltare di un’altalena, gravi di margini di libertà, di ombre estive, di impronte di baci, quello dei due adulti:
amanti, fusione di corpi, giaciglio –
rumore la polvere se spezza la cadenza delle ore –
per confessare torti da non riparare, vergogne senza pena da scontare, aspirazione a cieli senza promesse.

Lina Riccobene, in precedenza, aveva affrontato, aveva celebrato l’amore. C’è, dunque, una novità nella odierna rivisitazione del tema?
Rispetto ad Après nous le déluge (1999) sono trascorsi sei anni.
"Il passare del mondo non è vano" è scritto nel frammento nono dell’attuale suo poemetto. Desidero richiamare la vostra attenzione: il passare del mondo e non già il passare del tempo. A volerci – credo – ammonire che il mondo, questo selvaggio, spersonalizzante contenitore nel suo sempiterno volgere (Jorge Luis Borges: "Non c’è nulla di antico sotto il sole. Tutto accade per la prima volta, ma in modo eterno"), questo conglomerato imperfetto (Robert Musil: "Dio fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo diverso"), questo palcoscenico (William Shakespeare: "dove ognuno è costretto a recitare la sua parte"), questa convulsa, brulicante biglia globale è un orrido caterpillar che, nella sua spietatezza, tutti e tutto travolge, schiaccia, frantuma.
Polvere di attese supera i caratteri di ebbrezza, irruenza, scontro di Après nous le déluge, non si propone come quel testo “grondante di umori”, declina il tono apocalittico insito nel proclama di quel titolo e, nella raggiunta maturità umana, fisica, intellettuale, mettendo a profitto le considerazioni appena esposte, riscopre, rinnova, rinsalda l’unione, l’intesa, la complicità tra i partner:
nella pienezza del tramonto –
polvere argentea del piacere –
spazi di lieve pace e acqua di lacrime ad impastare ogni giorno creta ed argilla d’amore.
Polvere o non invece pozzolana?
Pozzolana, la base vulcanica (il Mongibello, l’Etna, dista in linea d’aria grosso modo un centinaio di chilometri da Delia, la città di Lina Riccobene) per il cemento di una storia d’amore che dura da tutta una vita; un amore che nelle prove può ardue, nei frangenti più critici, nei giorni più bui e tempestosi ha saputo tenere; un amore che nemmeno "gli amici del pettegolezzo che non conoscono la lingua del cuore" hanno mai incrinato.
Polvere magica quindi che, come nel lieto fine delle fiabe, ha fatto sì che l’amore prevalesse sopra qualsivoglia antagonista, ha fatto sì che i due amanti finissero per "invecchiare insieme".
Dinanzi a un progetto quale Polvere di attese è, una plausibile eccezione che potrebbe essere sollevata è quella che esso incarni un disegno, un calcolo, una architettura della scrittura. Ogni tessera in effetti, ogni mattone, ogni livello incastona virtuosamente taluni dei coefficienti che tutti assieme torneranno poi utili all’equilibrio complessivo della struttura-vicenda. La quale ultima risulta sorretta da un solido uso del lessico-materia, da efficaci dispositivi tecno-retorici, da avanzata luce-scansione.
Ciò che appare gratuitamente piano, accessibile, immediato è prodotto di paziente applicazione, di assiduo studio, di ripetute verifiche.
Se costruire implica lavorare, provare, tendere ogni sforzo, energia, risorsa fisica e intellettuale allo scopo di scovare la parola, affermare la parola nuova, edificare la parola definitiva, ebbene sì questa poesia, come tutta la Poesia (una poesia – asserì Attila József – può essere considerata come un’unica parola nascente), è una costruzione.
Nessuno scandalo! Già per Orazio vigeva l’antica norma del limae labor et mora, per Rolando Certa: "La poesia è un continuo divenire, una ricerca costante e insopprimibile", e a parere di Giuseppe Zagarrio: "al poeta compete lo stesso dovere-diritto dello scienziato in laboratorio: quello della ricerca, la più ampia possibile, la febbrile consapevolezza di essa, la speranza continuamente gratificante di cogliere ed esprimere qualcuna delle spinte che il collettivo inter-soggettivo opera di continuo dalla sua massa corale e anonima". Non staremo qui a dilungarci, a riportare esempi ed esempi, ma limitandoci a un solo mirabile caso, a un indiscusso capolavoro quale è l’idillio “L’Infinito” di Giacomo Leopardi, se mai vi foste imbattuti in una delle stesure provvisorie… quante correzioni!
Tengo per contro a trasferirvi, benché nella cognizione che ognuno di essi, come osserva Roland Barthes, è solo "un percorso tra una molteplicità di percorsi possibili", brevi cenni ancora circa un paio di aspetti che la lettura dell’elaborato mi ha suscitato.
Per primo, un itinerario tra le voci che nella silloge si offrono in corsivo. Un itinerario nel segno della circolarità dell’esistenza: polvere, bimbi, lei lui, vetri appannati d’infanzia, storia d’amoreodio, pettegolezzo, amore, gran soirée, polvere.
Per secondo, la sensazione che “dell’altro” aleggi.
Dell’altro da sé; da lei, da loro. Dell’altro che richiama protagonisti, età, accadimenti che incidentalmente emergono dallo specchio venato dagli sfregi del tempo. Dell’altro che ci rende edotti della premura della Nostra nei confronti di universi discosti dal suo, che contribuisce a comporre il quadro di una personalità spiccata, ma altresì sensibile e avvertita, che denota gli accenti di una autrice che mai arretra dall’essere persona, donna, madre.
"Tragiche risate nel chiuso degli armadi, fossa scavata nel bosco delle suppliche, sangue in nome d’uguaglianze, 'shalom' contro la pazzia dell’uomo."
C’è un alcunché di visionario, cupo, tragico in queste espressioni. Sta a noi individuarne i riferimenti a circostanze del nostro quotidiano, della più ampia realtà sociale, della grande Storia.
A che pro? Al fine di palesarne aggiuntivi gradini nella scala dei costrutti, insospettate chiavi di lettura, latitudini di significato più profonde, disagevoli da cogliere perché poco appariscenti, impalpabili, reconditi.
Demando, in chiusura, al lettore il gusto di scoprire quante più soluzioni formali ed estetiche. La Poesia, infatti, esige che questi non si limiti al ruolo di destinatario passivo, ma si lasci coinvolgere, si abbandoni, partecipi degli esiti di essa riversandovi la propria essenza, il proprio contesto, i propri valori. Il lettore, in sostanza, deve farsi complemento, frazione integrante del processo di creazione e a lui si richiede di fruire della Poesia sia con gli occhi che con il cuore, sia con la lingua che con la disposizione migliore dei sensi, sia con lo scrupolo filologico che con l’incontaminato avvertire.
L’attesa è l’azione dell’attendere, il tempo trascorso ad aspettare, l’ansia con cui si attende. Nel “ laboratorio ” della Poesia (per dirla con Paul Valéry), essa però assurge a intervallo nell’andirivieni di una barca attraccata, a matassa degli anni nello scrigno dei ricordi, a viavai che vivifica l’eterno.

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L’Empatia da “Pensieri su Nietzsche”

di Nicola Rosti

Come mai

Come mai questo orrore che vedo?
Cosa ci ha spinti così lontano da noi?
Cosa ci oscura fin nel fondo dell’anima?
profondamente…
ci uccide.
Immobili,
senza reagire
cadiamo nel vuoto
dimentichiamo
quel che ci ha spinti fin qui
immersi in questa luce assordante
cadiamo.

Entropia

Punti,
trascinati via lungo la riva,
immersi,
quasi annegati
da questo tempo che porta con sé la sua fine
inesorabile
sparisce.
Punti a infinito,
invisibili,
si uniscono
circondati di luce
insieme,
pariamo come ombre, silenziose
il nostro Essere combatte questo tenue delitto,
affascinati, osserviamo ciò che ci annulla,
ci separa… invisibili verso la fine.

Questa neve

E dimmi mio signore
Dove comincia questa neve d’Agosto?
Cosa nasce alla radice di questo male
che pian piano ci uccide

(Di questo male che pian piano ci uccide)

Cosa muove la virtù che ci spinge
…tutti quanti insieme…ugualmente
Cosa troviamo al di fuori di questo terrore?
Quanto vale quest’anima
e quanto è leggero il suo peso!
Perché mai scivoliamo
così…senza dolore
senza mai domandare
e tu?…
come stai?

Nicola Rosti nasce a San Marino l’8-11-1979. Inizia a cinque anni lo studio del pianoforte, proseguendo poi con i corsi di Armonia e solfeggio. A quattordici anni inizia lo studio della chitarra moderna, sotto la guida di qualificati insegnanti, soprattutto in ambito jazz e pop, diplomandosi nel 2001 presso Music Academy2000 in chitarra ed armonia moderna. È diplomato in progettazione grafico-visiva ed attualmente frequenta il corso di Laurea in Filosofia della Scienza, presso l’università di Urbino. Nel 2000 si diploma al corso di formazione ad alto profilo professionale The Music Maker, promosso dalla Fondazione Toscanini. Lavora per 5 anni come programmatore, chitarrista ed assistente presso lo studio di registrazione Farmhouse di Andrea Felli. È docente di numerosi corsi di formazioni, in ambito musicale e nell’ambito della produzione, organizzati da enti pubblici ed assessorati alla cultura. Nel 2006 inaugura Studio Picasso, il nuovo centro di produzione musicale nella Rep. di San Marino, di cui è titolare e dove svolge il ruolo di produttore artistico, compositore ed arrangiatore. Collabora dal 2001 con la pittrice e visual artist, Alessia Delvecchio, con la quale ha all’attivo numerose installazioni e progetti a carattere artistico-perfomativo, l’ultimo dei quali, Pensieri su Nietzsche è uscito per Feltrinelli-Mondadori nel Maggio 2006, in allegato alla rivista Grafie. Si dedica, dal 2001, alla scrittura di saggi e poesie.

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Sulla consulenza filosofica

di Roberto Morpurgo

Un trucco vecchio o uno strumento nuovo?

Da anni, e dall’estero, si parla di counseling filosofico quale possibile integrazione o sostituzione del tradizionale counseling psicoterapeutico. Le scuole di pensiero sono ben lungi dall’aver prodotto chiari orientamenti teorici e precise indicazioni operative (‘cliniche’). Chi può avvantaggiarsi di una forma-dialogo nata dall’esperienza socratica e tenuta in vita dalle mille varianti del colloquio filosofico, dalla confessione religiosa alla discussione corale di ipotesi scientifiche? Apparentemente, tutti coloro che alla filosofia non chiedono tanto di essere istruiti (informati), ma guidati, formati, orientati nel mondo e nella vita. Ma il mondo-della-vita, come seppero i filosofi che coniarono questa espressione (in tedesco, Lebenswelt) non si presta così facilmente a essere concettualmente penetrato: e rimane, con i suoi chiaroscuri, in una zona ‘ontologica’ di relativa penombra. Chiunque soffre – e chi non soffre? – costruisce più o meno consapevoli razionalizzazioni del proprio dolore. Anche la scienza lo segue su questo cammino; la psicoanalisi, un solo esempio, ascrive il dolore al conflitto insanabile fra la pulsione e le sue irraggiungibili mete, o, se si preferisce, fra la radice biologica dell’essere e la sua destinazione sociale. Potrebbe la consulenza filosofica rinunciare al mito totemico delle psicoanalisi (plurale d’obbligo, in un’epoca di pur millantati politeismi): l’inconscio? Esercitiamo per ora su un simile quesito la sospensione del giudizio che gli scettici chiamavano epoché, e guardiamo in volto la natura sociologica del bisogno di filosofia. Chi ha bisogno di essa, se non colui che è già filosofo? – avrebbe osservato Socrate. Chi cerca la propria via, la propria odos, è già in un certo senso alla meta, e chi vuole sapere, già si lascia alle spalle la propria ignoranza. Notiamo tuttavia una irriducibile ambiguità nell’etimo stesso del termine filosofia: significa esso amore del sapere, con il prefisso in posizione di soggetto e il suffisso di oggetto: filo della sofia, o viceversa sapere dell’amore: sofia del filo? La consulenza filosofica dovrà innanzitutto sciogliere questo piccolo enigma, prima di potersi candidare a rispondere a qualsiasi altra domanda.

Fra terapia e cura di sé
Quel che resta della borghesia è anche quel che resta alla psicoterapia: un immenso cahier de doleances. Chi fra i piccolo, medio e alto borghesi non è passato almeno una volta per uno studio psicoterapeutico? Con ciò i pazienti non imparano a pensare, ma a non penare: a non soffrire troppo per la mancanza di pensiero. La consulenza filosofica propone un cambio di rotta: cercare la radice del pensiero, farvi affluire la vitale linfa dell’interrogazione, e cioè: curarla. Il pensiero è una radice malata. Le sue fronde aride indicano la comparsa di una nuova famiglia vegetale: quella dei sempre-marroni, sempre-autunnali. Il pensiero è il suo stesso tramonto. Può dunque il ‘metodo socratico’ vitalizzare questa pianta malata? Può rivelarsi adatto a scoprire, non già e non più la Virtù, l’Essere, il Bello, ma al contrario ciò che a quei ‘valori’ fa da opaco sfondo e eterno rinvio? Può la metodica schiettamente ermeneutica della infinita interrogazione donare speranza ai vinti, alle vittime dell’esistenza e di ogni politica, ai pensatori mancati, agli eterni ‘bisognosi di senso’? Sì e no. Più sì che no, se pensiamo a una possibilità personale: e se la persona conserva, ma sia lecito il dubbio!!, almeno un margine di autonomia verso il Moloch della dementia comunitatis. Più no che sì, se consideriamo il fatto che il pensiero è portato dalla lingua come l’onda dal mare: e che la lingua si sta estinguendo. Poiché lingua è, come voleva Benjamin, l’ars comunicandi sottostante ogni particolare linguaggio: e si perdoni l’antiaccademica inversione dei termini. La lingua che noi parliamo dice già cosa pensiamo di noi: dice ‘silenzio’ per sciorinare questuanti lamentele ‘metafisiche’, e dice ‘comunicazione’ per sgranare l’interminato rosario della Chiacchiera. Potrà la consulenza restituire dignità al dialogo, verità alla ricerca, dubitabilità al dogma? Ne dubitiamo: e con questo spirito lato sensu scettico – e con un orecchio riconoscente al metodico dubbio sul miracolo di humeana memoria – invitiamo i praticanti a non cercare la novità qua tale, né la tradizione che sonnecchia nei classici. Ciò a cui mai potrebbe rispondere alcuna politica né alcuna psicoterapia, ciò indica la ‘strada’ della consulenza filosofica: una odos che ci appare come un Bivio, ben più che come una Via Maestra.

Roberto Morpurgo ha 47 anni. Ha cominciato a scrivere a 5 anni, poesie e canzoni. È laureato in filosofia (passione che tuttora coltiva), si è occupato a lungo di cinema, teatro e letteratura. Ha scritto vari libri (due in uscita presso Joker): un libro di viaggi in Grecia, un volume di racconti, una voluminosa raccolta di aforismi, due raccolte di poesie, quattro pièces teatrali, soggetti cinematografici. I contributi qui sopra sono usciti anche su Orizzonti Nuovi.

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Due forestieri alla fiera del libro

di Drazan Gunjaca

Alcuni giorni fa si è conclusa la fiera del libro a Pola. Una delle rare occasioni in cui questa addormentata città mediterranea in cerca di identità si risveglia dal sonno invernale in cui tutti i giorni sono uguali uno all'altro. Anche le foschie sono come quelle di ieri… Sempre uguali, pesanti e indifferenti si trascinano per le vie ed entrano nelle ossa dei passanti che rincorrendo la gioventù perduta vanno da sportello a sportello nella speranza che lo Stato li ricorderà almeno in questo periodo natalizio concedendo loro qualche soldino in più sulla loro misera pensione. In quest'atmosfera si è tenuta una grande (per le circostanze locali) fiera del libro che è stata onorata dalla presenza di Umberto Eco. Purtroppo quel giorno, quando Eco è stato ospite alla fiera, io, spinto da motivi di pura sussistenza, sono stato fuori Pola e non sono riuscito a rientrare in tempo per vederlo ed ascoltarlo. Una delle poche cose che avrei volentieri ricordato in quest'anno. Sebbene, anche essendo a Pola, difficilmente avrei avuto l'occasione di avvicinarlo, o addirittura di conoscerlo, con tutte quelle persone più idonee di me. Però mi dispiace lo stesso.
Tuttavia, spinto dal senso di colpa, l'uomo spesso cerca di rimediare facendo qualcosa che sia simile a ciò che gli è sfuggito. Così anch'io ho deciso di seguire con attenzione altri eventi alla fiera. L'occasione ideale per rimediare è stata la presentazione dell'antologia bilingue di poesia contemporanea italiana e croata Versante solatio della terra, tradotta dal mio amico Srda Orbanic. La presentazione si è tenuta sul palcoscenico della sala centrale della Casa dei difensori croati, ex circolo ufficiali dell'esercito austriaco, poi italiano e fino a qualche tempo fa anche di quello jugoslavo. Gli eserciti vanno e vengono, i circoli restano. Anche la poesia, tutta stralunata in quel magnifico edificio militare in cui ancora si sente l'odore delle divise e dei saluti d'ordinanza. La presentazione è iniziata con lunghe introduzioni di alcuni teorici che avevano un gran da dire sui problemi della traduzione letteraria. E nessuno ha chiesto niente al traduttore lì presente. I giornalisti seguivano con attenzione prendendo appunti. Ho pensato che è un bene che esistano cattivi teorici e critici letterari ancora peggiori perché se non ci fossero loro, oggi saremmo privati di alcune delle massime personalità del mondo letterario. Io in verità sono venuto ad ascoltare Luko Paljetak e alcuni altri poeti che dovevano declamare le loro poesie. E anche per Srda, chiaro.
Mentre cercavo di svelare l'enigma della durata degli interventi introduttivi, pensando languidamente al cappuccino nel vicino bar, ho guardato quasi senza volerlo lo spazio sotto il palcoscenico, dove passavano senza fermarsi, disinteressati, i visitatori della fiera. Tuttavia un uomo stava fermo un paio di metri più in là, in disparte, e ascoltava attentamente ciò che avveniva sul palcoscenico, stringendo nella mano sinistra un piccolo libro. “Perché non sale su, se è cosi' interessato all'argomento?” pensai. “Perché non fa parte della alta cerchia raccoltasi per l'occasione,” conclusi. Anch'io per l'occasione mi sono messo l'abito nero e la cravatta rossa, il classico “vestito da posa”. Ma quell'uomo non apparteneva neanche a quel mondo sotto il palcoscenico. Portava un abito grigio liso, probabilmente a quadretti un tempo, cucito in qualche fabbrica dell'ex Jugoslavia. O siamo tutti noi sul palcoscenico che ci troviamo per puro caso alla fiera o quell'uomo laggiù, sussurrai al conoscente seduto vicino a me, che guardò sbadatamente l'oggetto del mio interesse e con indifferenza tornò ai teorici che dopo un’ora di elucubrazioni sono venuti alla saggia conclusione che non è poi tanto facile tradurre poesia. Facevano prima a provare a tradurre una qualsiasi strofa per risparmiarci quei monologhi monotoni. Ma forse sarebbe stato anche peggio. Avendo esperienza in merito avrebbero avuto da dire anche di altro. Spero di non essere presente quando succederà.
L'uomo stava ancora fermo allo stesso posto, fisso sotto il manifesto da cui troneggiava Gunther Grass con la sua autobiografia. Gli occhi. Gli occhi dell'uomo sotto Gunther parevano sprofondate nel passato dello scrittore tedesco, quel passato da cui è nato il bisogno di scrivere quell'autobiografia. Come se sapessero ciò che anche lo scrittore sapeva mentre la scriveva. Gli occhi non appartenevano al corpo di cui facevano parte, né all'ambiente che scrutavano. Gli occhi che assorbivano ogni immagine, ogni suono, ogni parola… A quell'uomo non serviva nessun altro senso, con qegli occhi. Ebbi voglia di scendere e di chiedergli… Chiedergli cosa? Forse l'avrei messo in imbarazzo. Forse il mio avvicinarsi l'avrebbe costretto ad andarsene… Non ho sentito il poeta Luko Paljertak. È già da un po' di tempo che non sto bene con i nervi. Purtroppo. Scesi dalla pedana, passai accanto all'uomo che non mi guardò e me ne andai dalla fiera. Tra l'improbabile Luko Paljetak che finalmernte declamava le sue poesie e il sicuro cappuccino caldo, scelsi il secondo. Al bar incontrai un amico giornalista e devo confessare che lui rappresenta un'eccezione in fatto di mie amicizie con i giornalisti.
Dato che è presente a tutti gli eventi culturali e ha un acuto spirito d'osservazione, gli chiesi di quell'uomo. Se forse lo aveva notato. Come no. Sapeva tutto di lui. Davvero? In verità sapeva poco, ma quanto bastava. Vabbè, volevo sentire quel “quanto bastava”, per cui lo spronai.
“L'uomo si chiama Muhamed.”
“Eh, il nome la dice lunga,” dissi scorbutico. L'amico giornalista mi disse di stare zitto e di lasciarlo finire, altrimenti avrebbe smesso di conversare con me. Chiusi la bocca. Quando ci vuole, ci vuole. Raramente, ma succede. “Quindi, si chiama Muhamed. E?!?”
“E,” per quanto ne sapeva mio amico, “è della Bosnia.”
Qui prese una pausa densa di significati, cercando di farmi tentennare. Però ce la feci, la mia bocca restò cucita. L'amico in questione è tanto sfacciato da andarsene per davvero, per cui meglio non tentare la fortuna.
“E perché è importante il fatto che è della Bosnia,” si chiedeva a voce alta il mio amico. “Perché è della Bosnia e non, ad esempio, dell'Austria o dell'Italia, di qualsiasi stato che ha la fortuna di non trovarsi nei Balcani. O perché tu hai bevuto tre birre e adesso mi sfo…” non ce la feci più. Se non avesse fatto quelle lunghe pause, ce l'avrei fatta. Ma non sopporto i lunghi silenzi e per giunta il cappuccino lo bevo in fretta. Se avessi ordinato il cappuccio forse avrei saputo come era arrivato Muhamed alla fiera del libro.
Dopo aver fatto alcuni giri in macchina per la circonvalazione, tornai allo stesso bar e avvicinai umile l'amico che vedendomi diventò solare per la soddisfazione. Quanto cretina sa essere la gente, partendo da me stesso, pensai siedendomi accanto a lui e offrendogli una birra. Io ordinai il cappuccio. Per essere sicuro, no?
Muhamed in Bosnia faceva il professore. Non ricordava cosa esattamente insegnava, ma credeva si trattasse di etica, filosofia… Insomma, qualcosa che ora li è sostituita da vari surrogati religiosi: da queste parti la religione e l'etica non vanno a braccetto ma sono spesso in collisione. Muhamed rimase senza il posto di lavoro. E così da professore diventò manovale edile con un lavoro precario a Pola. Per essere precisi, senza lavoro senza arte né parte, perché due giorni prima lo ha preso la polizia in un cantiere e visto che non aveva il permesso di soggiorno e di lavoro gli ha intimato l'espulsione dalla Croazia.
“E come mai è ancora qui?”
Il mio amico rise a squarciagola spiegandomi che Muhamed potrebbe rimanere anche per anni in Croazia a condizione che altrettanto durasse la fiera del libro. Non esiste poliziotto a cui verrebbe in mente di cercarlo in quel posto.
“E cosa ci fa alla fiera?”
“Dal primo mattino quando la fiera apre, Muhamed arriva e passa tutto il giorno nelle sale. Legge libri, ascolta le presentazioni dei nuovi libri. Sempre da sotto il palcoscenico, a pochi metri dai protagonisti e dai loro invitati. Nell'angolo, sotto il manifesto di Gunther Grass. Il mio amico diceva di avergli parlato quando alla fiera è venuto Umberto Eco e di aver concluso che Muhamed sapeva di Eco molto di più di quelli che Eco l'avevano invitato. “Purtroppo, ad alcuni il sapere è d'aiuto, per altri è uno svantaggio,” constato'.
“E come mai gli hai parlato?” chiesi.
Perché sapeva che, se venivo alla fiera, avrei subito notato Muhamed, mi disse sorridendo. Anche se, era convinto che non sarei venuto, ma già che c'era…
È finita la fiera del libro a Pola. Se ne sono andati sia Umberto Eco che Muhamed. Ognuno per la sua strada e nel suo paese. Il primo è stato accompaganto da meritati plausi, il secondo è stato accompagato dalla polizia al confine con la Bosnia.
E così, c’è stata una fiera del libro in una città dimenticata in un tempo perduto; una fiera di mediocrità, di vanità, una fiera per amanti del libro e conoscitori di Umberto Eco. Una fiera che almeno per alcuni giorni a un'anima perduta ha offerto asilo spirituale e fisico. Una fiera che per questa ragione mi rimarrà cara nella memoria.
Alla fine, una domanda. Cercate di immaginare l'impossibile: cosa sarebbe successo se Muhamed fosse nato in Italia e Umberto Eco in Bosnia?
Non provate a immaginarlo. Eh? Tuttavia è un tempo di festa in cui si dovrebbe…
Ah, sì. Se vi arriva tra le mani quell'antologia dell'inizio della storia, leggetela. E se per caso incontrate Muhamed, chiedetegli che libro aveva nella mano sinistra quella sera alla fiera.

Drazan Gunjaca ex ufficiale dell'esercito jugoslavo e poi di quello creato, ha scritto romanzi e pièces sulla guerra nei Balcani che ha vissuto in prima persona. Con noi ha pubbicato Roulette balcanica e Congedi balcanici. Il suo sito è www.drazangunjaca.net

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Postilla al Piccolo dialogo tra Bibliotecario e Scrittore
v. faranews/84

di Andrea Parato

La sostenibile pesantezza del leggere
“… e questa è la storia della mia morte”. Poter
cominciare così la propria narrazione sarebbe
imperdonabile. Imperdonabile dimenticanza, giacché muto
pare il narratore in tale prospettiva. Ma questa è forse
la storia della morte della lettura. O meglio, di uno dei
grandi protagonisti della lettura narrativa: il patto
narrativo. E poi il tempo. Il professore di italiano alla
maturità mi rimproverava di non aver trovato sufficiente
tempo per leggere tutta l’opera di Pirandello. Forse il
tempo è una delle grandi discriminanti, in questo senso.
Siamo giunti con l’internet non più alla saturazione dei
tempi di fruizione, ma alla loro sostituzione: i mezzi di
comunicazione si contendono il tempo di fruizione, e sembra
che il web stia erodendo, almeno in certe fasce di
“pubblico” il tempo precedentemente dedicato alla
televisione. Il patto narrativo è stato tradito. Tanto da
scrittori, quanto da lettori. I papiri, i codici diventano
mito e leggenda, mentre il marketing editoriale fa la storia
(quella con le lettere maiuscole). Nascono nuovi dogmi di
genere. Come nella storia dell’arte il particolare entra
in scena e assurge a ruolo proprio: crea la maniera.

Andrea Parato ha pubblicato con noi Da luoghi intravisti e Il nostro esilio quotidiano. È stato anche nostro giurato.

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Su Luca 1,26-39

di Bernardo Francesco M. Gianni

Sono da notare le precisazioni tipiche di Luca, che ricordano il modo di fare degli storiografi: "Nel sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città… chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo… chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria." (cfr. Lc 1,26-27). L'indicazione cronologica dell'evangelista mette in luce l'ultimo segno dell'economia veterotestamentaria, cioè la nascita dell'ultimo profeta che è il Battista e l'arrivo messianico di Gesù che si prepara nel grembo di Maria. Luca ne sottolinea la verginità per rilevare la divinità di Gesù senza nulla togliere a Maria. L'angelo "Entrando da lei, disse: 'Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te'. A queste parole ella rimase turbata…" (cfr Lc 1,28-29). Sono infatti parole che turbano Maria, che le fanno domandare il senso e il significato di un saluto che la mette in rapporto così diretto con un messo divino e che ha qualcosa di straordinario.
Questa donna, che non è sacerdotessa ma una semplice semisposa, vivente in una città remota della Galilea, è tuttavia piena di grazia per una sorta di decreto dell' Altissimo: "il Signore è con te". In questa rassicurazione sentiamo il Signore che si rivela; agisce nella storia; chiama a responsabilità l'uomo; con profonda discrezione attende la sua risposta e la sua adesione perché sa che la storia è anche nelle sue mani, e vedremo come Giuseppe collabori nello spazio che il Signore crea, dove il suo sì non sarà meno importante del sì di Maria, che altrimenti sarebbe stata lapidata.
Ricordiamoci che nel racconto di vocazione di Mosè, in Esodo, il Signore per chiamare un popolo che era l'ultimo fra i popoli si è servito di un balbuziente, cioè di Mosè che non sapeva parlare, quando Aronne, suo fratello, era il sacerdote dal dono grande della parola. Dio sceglie chi vuole, ma chi vuole è educato prima di tutto a percepire il tratto saliente dell'essere credenti e cioè ricordarsi che il Signore è con noi e non ci abbandona. La cosa straordinaria è che Maria conosceva la logica del Signore e mai, per la sua umiltà, avrebbe pensato che la potesse riguardare; ma quando ha avuto qualche segno non ha esitato perché viveva una dimensione di ascolto e di disponibilità alla Parola. C'è un di più in Maria quando dice all'angelo, che le annuncia il concepimento di Gesù, "Come è possibile? Non conosco uomo" (cfr Lc 1,30-34). Non era infatti così strano che nella storia dell'A.T. donne sterili diventassero feconde come nel caso di Elisabetta. L'inaudito è che una vergine diventi madre! Luca ha narrato questa verità teologica somma per cui Dio si fa carne nel grembo di una donna vergine. Poi l'angelo dirà: «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37). A noi interessa cogliere questo mistero di fecondità che viene da Dio.
La verginità di Maria significa che di fatto Gesù è l'uomo come è uscito dalle mani di Dio, per cui l'incarnazione è la possibilità che ci è data attraverso Cristo di recuperare, in un certo senso, l'immagine e somiglianza che avevamo perso col peccato. È un po' come riportare la creazione all'inizio, oltre il tempo, e nel tempo che è la nostra storia, la nostra carne, la carne di Maria.

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Lexotan

di Rocco Di Mento

Cammino per le strade e vedo persone che fanno cose, che sono così piene di vita, che riescono a cibarsi di ogni giornata senza soffrire, riescono a trarne qualcosa, forse a volte non si accorgono nemmeno che una giornata è passata; si ritrovano a sera, stanchi e beati a domandarsi com’è possibile che un altro stronzo giorno sia volato.
Io sto qui. E vi guardo.
Io sono immobile. E vi guardo.
Io sono uno stronzo. E vi giudico.
Probabili web designer e creativi del terzo settore filano felici per le strade della città intasata a bordo delle loro biciclette vecchio stile, pensano a quante cose carine si srotolino davanti ai loro giorni, incontro a quali situazioni piacevoli ed aperitivi si troveranno da lì ai prossimi mesi, di vita alla moda.
Fashion life.
Non so se mi spiego.
Ed io mi mangio dal di dentro, prendo il mio fegato a piccole manciate e me lo infilo in bocca, da dietro alla finestra, riempiendomi il viso di sangue che poi mi si coagula e la badante viene a pulirmelo. La badante. Ahahahaha.
Sto qui e vi fisso. Penso a cosa abbiate voi che io non ho.
Com’è possibile che io sia prigioniero di ogni singolo giorno, come sia possibile che ogni ora sia sempre identicamente uguale a quella appena passata, a come mi faccia un potenziale schifo l’idea di allontanarmi dalla finestra. Vivo i vostri occhi; mangio le vostre palpebre. E sopravvivo.
Sai quel momento in cui il caos rallenta, la vita, ahahahahah, la vita comincia a farti schifo e non ci trovi più nessuna ragione carina per starci? Poi pensi a morire, ma sembra che morire sia da vigliacchi e guarda caso il sottoscritto non è mai stato considerato un vigliacco.
Anzi.
Si credeva che avrei spaccato il mondo, che con l’avvento del nuovo messia creativo, il mondo si sarebbe trovato avvolto da una nuova aurea. Me lo immagino bene-bene, il mondo avvolto da qualche opaca brillantezza, tipo immagine dal satellite. Ed io che spacco. Sai che ridere, un bel sogno, gonfiato come un tacchino di nuove budella e ti senti molto fiero di avere il pane con l’amaretto al posto dei polmoni; poi scoprono che volevano mangiarti. Mangiarti vivo, con i piccoli feti creativi che ti porti dentro.
Il feto regista.
Il feto musicista.
Il feto scultore.
Il feto intellettuale.
Il feto degustatore di vini.
Il feto oratore.
Il feto fotografo.
Il feto tecnico del suono.
Allora ci si chiede se quelle tende alla finestra vadano tolte, oppure debbano rimanere lì per un tempo indefinito ad occultare il mondo in movimento che ti scorre sotto, tipo sabbie mobili o formicaio impazzito. E vivi un po’ con Loro. Vivi un po’ di Loro.
Ti alzi alla mattina e ti scappa da piangere. Poi ti rendi conto che quelle cose non fanno per te, allora mandi giù un ettolitro di merda e fai colazione. Ti nutri. E mentre lo fai ti chiedi se è esattamente giusto continuare ad immettere proteine nel tuo corpo, quando il tuo corpo giorno per giorno diventa sempre di più uno stronzo contenitore di organi in via di essiccamento.
Bevi un caffè e guardi alla finestra.
E vedi la gente felice.
Mangi un toast e guardi alla finestra.
E vedi la gente felice.
Poi il toast ti va di traverso.
E la gente è felice.
Non importa a nessuno, potresti morire lì da un momento all’altro se non fosse per la badante che viene a darti delle forti pacche sulle spalle.
Ahahahah.
La badante.
Si chiama Ketty.
Passano i giorni e la mia inutilità viene sempre più levigata, gli occhi continuano a riflettere tutto il mondo rovesciato, perché lo guardo attraverso uno specchio.
Poi piove, ma la gente continua ad essere felice.
Mi chiedo se uscire possa farmi bene oppure possa farmi un danno.
Tanto peggio di così.
Ciao Ketty.
La strada emette odori che non sentivo da tempo, l’asfalto sale nelle narici, mi chiede scusa mi dice che fa sempre così, non è troppo colpa sua, forse è la pioggia, sai di questi tempi risulta parecchio inquinata.
Toh, c’è uno che mi guarda.
Ciao, dico.
Il tipo non mi si caga, ma mi sento meglio.
Però non è che si stia troppo male adesso.
Poi vedo uno che mi pareva di conoscere e comincia a farmi domande tipo
Dove sei stato? Che fine hai fatto? Non ti si vede da un po’.
Io gli vomito sulle scarpe, lui dice vaffanculo e se ne va, dice sei pazzo, dice, lo si diceva in giro che eri uscito di testa, dice urlando che sono un maniaco, dice sbraitando che lo faceva per il mio bene di parlarmi, che non capisco che tutti mi evitano, dice ancora qualcosa ma la sua voce si confonde nel rumore di un camion che passa. Quel genere di camion che trasportano i rifiuti. Ed io non so bene, ma lo odio.
Non il camion.
Odio la sua banalità.
Ecco perché non esco e guardo dalla finestra. Perché i miei misuratori di vita interiori, indicano un alto tasso di banalità nella specie alla quale appartengo.
Sì, le ricordo le serate.
Sì, penso di rimembrare vagamente quel sensore di eroismo provinciale che ci si tirava addosso.
Sì, decifro una certa ipocrisia tardo-pomeridiana.
Sì, ricordo di sogni mai avveratisi.
Poi capisco che Mareike aveva una certa ragione nel dirmi, guarda che di gente come te ce n’è un sacco, sai è questione di problematicità, nel senso che vuoi di più, vuoi di più, vuoi qualcosa che un buco di culo non può darti, cerchi una sorgente che qui non c’è, oppure dalla quale ti sei abbeverato così a lungo che non riesci più a trovare soddisfazione al tuo bisogno primario.
Vivere.
Mareike diceva queste cose e io non l’ascoltavo troppo, pensavo cazzeggiasse così, mentre nuda versava del vino rosso in calici che da lì a breve avremmo scolato allegri. Pensavo lo dicesse per fare un po’ la brillante, un po’ la veggente, un po’ la maga nuda e bionda che sa cosa vuoi sentirti dire, che insomma.
Essere speciale non è mica roba da tutti i giorni.
Tu speciale, tu.
Sì, volevo di più.
Voglio di più.
E a pensarci adesso chissà dove è finita Mareike e quel pozzo di scienza che si porta nelle budella. Interiora, chiamale un po’ come cavolo ti pare.
Ma rispetto la sua attenzione e la sua capacità analitica.
So solo che voglio vivere e smettere di guardare da questa finestra, vorrei solo che Ketty smettesse di venirmi a pulire la bava bianca che questi psicofarmaci continuano a farmi buttare fuori.
E’ per questo che mi alzo pensando a Mareike, è per questo che mi tolgo il pigiama e lo butto in terra, riapro l’armadio sigillato, tiro fuori dei vestiti che non ricordavo di avere.
Toh, dei jeans.
Toh, un maglione. Un gran bel maglione.
Esco di casa sbattendo la porta.
Poi risalgo veloce, mi sembra di aver dimenticato qualcosa. Vedo il mio corpo per terra, mi sembra ridicolo, quasi-quasi chiamo la badante e glie lo faccio raccogliere.
Ahahahaha.
La badante.
Tanto è pagata per fare questo genere di cose tristi, tipo pulirmi quando mi defeco addosso; dicevano che le medicine mi avrebbero tolto un sacco di funzioni basilari, tipo pulirmi, lavarmi, riconoscermi allo specchio. Dicevano che così avrei smesso di soffrire.
Certo, ed io a bermi queste stronzate.
Dire al medico in gilet che avrei fatto il bravo, avrei preso le medicine. Tutti i giorni.
Certo.
A convincermi che fosse così. Che quella fosse la chiave per uscire dalla gabbia nella quale accidentalmente mi ero rinchiuso.
Guardo il cadavere di me, ancora con la bava, gli tiro un bel calcio nel costato perché non mi ha mai fatto più schifo di adesso.
Dico. Ketty, avrai da fare, per un po’.
Tiro su la lampo della mia vecchia giacca a costine, ancora odorosa di bei tempi e mi incammino fuori da quella casa.
Sussurro Fuck.
Vado a riprendermi la vita.

Rocco Di Mento nasce nel 1984 a Desenzano del Garda. Trascorre la propria adolescenza a Salò, l’ex repubblica dal clima mite, ove frequenta il liceo Linguistico Scientifico E. Fermi e si diploma con il massimo della mediocrità. Inizia a scrivere racconti brevi nel 2002, per alleviare la noia mentale scolastica. Attualmente vive tra Brescia e Bergamo; lavora come operatore culturale e studia presso la Facoltà di Lettere & Filosofia.

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O. ed IO

di Vesna Andrejevic

O: Allora, cosa vuoi? Perché sei così invadente? Sei maleducata? Che bisogno c’è di accendermi ogni santo giorno una candela?
IO: Ma io ti amo, ti rispetto, ho sempre provato una grande stima per te, il tuo lavoro, per il tuo coraggio! Mi manchi, ecco cosa c’è!
O: Ma cosa vuol dire che mi ami e mi rispetti? Chi ti ha dato il diritto di amarmi? Chi ti ha chiesto di rispettarmi?! Fatti gli affari i tuoi, cara! Lasciami in pace! È solo falsità. La gente si inventa gli idoli per non riflettere sulle cose! È più facile ripararsi dietro un idolo! Sputargli addosso la propria vigliaccheria! Inoltre, come sai di amarmi? E poi perché dovresti amarmi?
IO: Beh, ti ho scoperto a quattordici anni. Eri ribelle, trasgressiva, fumavi come un turco e non portavi il reggiseno…
O: Basta! Basta con queste sciocchezze!
IO: Ma basta un corno! Basta con il tuo cinismo! Mi vuoi ascoltare una buona volta! Ero una ragazzina piena di sogni e illusioni di conquista: il mondo si inchinava davanti al tuo coraggio, alla tua intelligenza, alla tua lotta virile con cui dimostravi una piena e matura femminilità. La tua parola era bella, carica di suoni e di significati esplosivi come il tuo caratteraccio, ma nello stesso tempo era dolce, umana, sincera fino a provocare un profondo dolore e complicità. Sì, la tua bellezza… eppur ora mi rendo conto che non eri fisicamente una miss universo, ma colpiva la forza della tua personalità capace di incantare “i grandi politici e i capoccia del mondo”. E quanto più erano coglioni e falsi, il tuo desiderio di smascherarli appariva più evidente, più vincente, più sincero ed umano. Eri la portavoce dell’intera umanità umiliata e schiaffeggiata dai corrotti che governavano questo mondo in cui giocavano alla guerra assumendo la parte dei martiri e degi eroi. Ed eri tu a farli tremare con le tue interviste! E proprio per te mi iscrissi al liceo linguistico (indirizzo giornalistico), e proprio per la tua immensa intrepidezza mi buttai da ragazzina in redazione con maschi cannibali a misurare ogni inadeguata con un metro comunista a volte assai lungo, a volte cortissimo! Ecco perché ti ho amato e nessuno mi poteva togliere il diritto di amarti e rispettarti e certo non sarai nemmeno tu a farlo con la tua linguaccia senza peli che qualche volta non sa riconsocere chi le vuol davvero bene!
O: Io ho sempre amato la vita. Chi ama la vita non riesce mai ad adeguarsi, subire, farsi comandare. Chi ama la vita è sempre con il fucile alla finestra per difenderla… Un essere umano che si adegua, che subisce, che si fa comandare, non è un essere umano. Adesso ti è chiaro il concetto? Ma guarda, tesoruccio, sei proprio sicura che hai amato me e non un’immagine assai abbellita di te stessa? Ammettere il proprio amore per un idolo non è nient’altro che urlare la sua inesistente personalità: “Scopriti! Vieni fuori! Fatti vedere nella tua completa viltà!”
IO: Non è vero! Non ho mai fatto di te un dio! Non tirare troppo la corda! Si tratta solo che nel tuo modo di vivere e di esprimerti riconoscevo le tracce di un disegno divino! Io ho cominciato con il giornalismo per scoprire la vocazione di scrittrice! Vivo come un eremita nutrendomi di parole e di litri di caffè! Scusa molto, cara, se non fumo come te! Anch’io lavoro quindici ore al giorno, sabato, domenica incluse, non esco, non vado da nessuna parte, mi vedo con pochi amici fidati, da anni “messi alla prova” dai miei capricci. Pure io scrivo in modo lento e mi sento in colpa se non produco molto e anch’io non sono mai soddisfatta di tutto quello che ho sputato dalla mia anima e dalle mie viscere. E pure io ho detto “addio” a un sacco di bambini mai nati per dedicarmi alla parola e alla vita spartana della dolce tradizione comunista di questo sfortunato paese! E anch’io “su ogni esperienza lascio brandelli d’anima” senza lamentarmi. È una mia scelta, “my way”, cara. Ti basta per vedere che sono diversa di te e che non c’e niente di male se a volte ti inondo di stima? È un sentimento di sorellanza, un condivisione di un dono, l’apprtenenza al mondo speciale della parola che, ogni giorno ne sono più sicura, ha scelto me (e non viceversa), di essere proprio la sua vestale. Se si scrive, si sente e si diventa visibili e toccabili! Si respira, si vive! E tu che hai lottato tanto con il male che ti rubava il respiro, devi sapere che cosa si nasconde dietro l’aria di una parola. È proprio una malattia che ti contagia con la prima parola scritta…
O: È vero. La prima volta che sedetti alla macchina da scrivere, mi innamorai delle parole che emergevano come gocce, una alla volta, rimanendo sul foglio… ogni goccia diventava qualcosa che, se pronunciata, sarebbe scivolata via; ma sulle pagine quelle parole diventavno tangibili. È vero…
IO: Però tu, la tua ardente sete per la parola e per il suo suono l'hai riconosciuta nel campo di guerra, perché essa suonava ed esplodeva con la sua carica emotiva e il suo significato nel modo migliore e orribile proprio quando scrivevi in Vietnam, a Beirut, in Afghanistan ecc. mentre io la sua bellezza la cercavo tutta immersa negli studi letterari e linguistici finché un giorno le bombe americane non mi hanno inculcato in testa che la sonorità è un tratto significativo, distintivo e assai acustico della parola con cui si distinque la democrazia dalla tirannia ossia la vita dalla morte. Era tutto politically correct e durò per 77 giorni. D’allora fino ad oggi mi sono lambiccata il cervello per comprendere nel modo migliore il grande Bloomfield che dice: “Per riconoscere i tratti distintivi delle forme nella nostra lingua materna abbiamo bisogno solo di determinare quali tratti sonori siano ‘diversi’ ai fini della comunicazione”. Vedi, io quei tratti diversi della mia lingua che mi impediscono la comunicazione con quei tratti democratici, non li ho potuti trovare, così tra di noi non c’è (s)campo, ma tu, come vedo, ti sei intesa ottimamente con i loro tratti, anzi, li hai amati e difesi proprio nel modo in cui io difendo e amo l’Italia e l’arte. Eccola un’altra nostra diversità con cui mi hai fatto andare in furia, ma dico, come mai hai potuto scambiare Firenze per New York?! E…
O: Dopo aver saputo delle torturre del carcere di Abu Ghraib volevo lasciare la mia casa di New York e restituire a Rumsfeld la mia Permament Resident Card, ma il fatto è che l’America è un paese speciale, cara mia. Un paese da invidiare, di cui essere gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza ecc. Lo è perchè è nato da un bisogno dell’anima, il bisogno d’avere una patria, e dall’idea più sublime che l'uomo abbia mai concepito: l’idea di libertà, anzi della libertà sposata all’idea di uguaglianza. L’ Italia? Un paese così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria il Campanile di Giotto o la Torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. Non puoi accusarmi dil tradimento perché questo non è il mio paese. No, no: la mia Italia è un Italia ideale. È l’Italia che sognavo da ragazzina quando fui congedata dall’Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di illusioni. Un’Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. Quest’Italia, un’Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata… guai a chi me la tocca, guai a chi me la invade. Che a invaderla siano i francesi di Napoleone, o gli austriaci di Francesco Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem.
IO: Brava! Una vera fiorentina! Ecco, carissima, perché ti amo! Con questa invettiva contro il paese che ti ha dato la vita, che ti ha amato e odiato, sputato in faccia che sei razzista, che ti ha lodato e che ti ha pianto dietro sinceramente e a calde lacrime quandote ne sei andata in una notte di pioggia torrenziale… si vede che nelle tue vene gorgogliava lo stesso sangue dantesco che bestemmiava il suo più grande amore con la stessa rabbia e lo stesso orgoglio, cara mia. A volte mi chiedo, se fossi nata nel Duecento, da che parte ti saresti schierata? Coi Ghibellini, coi Guelfi? Contro i Bianchi o contro i Neri? Ma mi metto subito a ridere, che stupida sono, saresti stata la stessa: un libro aperto con un bellissimo e severissimo specchio in cui avrebbero avuto paura tutti di specchiarsi, ma allo stesso tempo non avrebbero potuto farne a meno. Tu non appartenevi a nessuno, nemmeno a te stessa; forse la cosidetta tua inadeguatezza cominciò con l’intervista che gli astronauti americani ti diedero proprio prima di entrare nell’astronave che li portò sulla Luna. Ma con loro andò pure la tua foto e la tua amabile sfacciataggine che, sono sicurissima, sta vegliando pure adesso su tutti noi. Sei stata e sei rimasta una vera Orlanda Furiosa! Una, non uno perché, lo so…
O: … quando sei una donna, devi combattere di più! Di conseguenza, devi vedere di più e pensare di più ed essere più creativa. Lo stesso quando nasci povero. La sopravvivenza è una grande motivazione.
IO: Sì, lo so, sei una che mi ha convinto che una vita succosa e “furiosa” rappresenta la migliore, la più ideale forma di scrittura dove smettono di esistere generi, personaggi, dubbi sulle scelte e mezzi poetici: sei stata il tuo e migliore genere e la perfetta eroina che ha coniato una formula imbattibile: la propria vita è la migliore poetica! La più significativa! Irripetibile!
O: E credo che i veri critici siano i lettori…
IO: Brava, almeno una volta siamo d’accordo! Ecco perché ti ho amato e perché ti ho perdonato tutte le spigolosità del tuo irresistibile caratteraccio! Allora, domani un’altra candela?
O: Per carità, no! Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito. Ma ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.
IO: Va bene, cara, ma in caso non ci sia tanta luce sulla Luna…
O: Ti spengo la candela!

Vesna Andrejevic si occupa di traduzione multimediale a Belgrado. È professoressa di lingua e letteratura serba e di letteratura internazionale e fresca neolaureata in lingua e letteratura italiana. Fra i vari riconoscimenti: la segnalazione al concorso Pubblica con noi (2005), il II posto al concorso Artistico Internazionale “Amico Rom” (2005) e il Premio ICON (2006). Scrive narrativa, traduce film e i libri e coltiva i suoi sogni e aspirazioni letterari.

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Sono seduta in briciole (inediti da mala kruna)

di Franca Mancinelli

sono seduta in briciole,
gli occhi accecati per pudore,
secondo le istruzioni
di un gioco di mattoni
viene inserito il pezzo.
Scosse che avvisano: i rottami
planano come foglie.

***

quando mi dormi in mente
la stanza ha il tuo profilo
ed ogni cosa un posto
come le vene.
Sei il figlio, e il piccolo animale
fermo sulla terra
annusata cercando la radice
la traccia, la coda di una promessa
che trattengo, fino a che è rotto
questo bavaglio, e il pensiero
si disegna nella linea
aperta delle nostre mani.

***

con oggi tre telefonate sorde
mi masticano i crampi
le due bocche del corpo a domandare
specchiando rovesciate le risposte

e quant’eri bella vestita di lui
ora sei ritornata terracotta
tieni le impronte che s’allontanano.

***

guardo il buio con queste
corde che si muovono, e ascolto
la nave luminosa che si ferma
a un altro imbarco.
Prenoto e annuncio ancora il mio partire:
oltre la grata della porta il vuoto
s’alza come una torre;
e un altro condomino ora giunge
al suo destino, lo sento muovere
i passi sulla strada. Ed io non so
se salgano o scendano le corde
da questo pianerottolo, ma vedo:
l’immagine di me che si spazienta
entrare con i piedi su una terra
morbida e pestata molte volte.

***

invidierai l’aria che rimane
di fronte alle persone come dentro
agli alberi di cresta solitari
oppure spersi
su un piano che si apre come un palmo
ai corsi d’acqua e di tempo; sarai
il battito chiuso di quei polsi
in stagioni di luce elettrica,
lo sguardo che gratta la vernice
e segna la sua nascita e il suo amore;
ma prima che squilli la porta e torni
lo stormire di tv senza canale
formicolando grigia come il mondo
visto dalle astronavi dei non nati
tu decrepita per molta ingenuità
sillabando con fatica, la dirai
la parola che rimane
come un ergastolano viva
con la mano destra stretta
calda al ferro della cella.

***

per Andrea Ponso

è una stanza, un’isola di fresco
nell’estate che chiude le finestre
e scende all’ora dei pasti e ti parla
col viso di tuo padre. E tu muovi
tutto il tempo le dita sul tavolo
riponendo i pensieri nella cella
di un cruciverba senza spazi bianchi.

Resisti nel silenzio d’orologi
che ti chiamano a pesca sulla riva:
un attimo di quiete che s’allarga
t’ha spinto a capofitto nello specchio
schiudendoti la bocca all’amo.

Franca Mancinelli (nella foto a UrbinoPoesie con Roberto Galaverni e Alessandro Moscè) è nata a Fano nel 1981. Si è laureata in Lettere Moderne con una tesi sulla poesia di Paolo Volponi. Suoi testi poetici sono usciti in antologie presso Crocetti (Nodo sottile 4), Guaraldi, LietoColle, e in riviste cartacee e on line, tra cui Poesia (n. 203, marzo 2006), il “bollettino” FuoriCasa, «clanDestino». Sta lavorando alla sua prima raccolta poetica, mala kruna, che in croato significa “piccola corona di spine”.

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Su Libere sequele, Specialmente Natale, Fissa, desola in inverno

di AR

La raccolta di esordio di Lorenzo Mari, recente vincitore del nostro Pubblica con noi, Libere sequele (Gazebo, 2004) ha un titolo emblematico: l'autore ci invita a seguirlo nel suo amoroso (indi sofferto) perigrinare per il tempo e a volte pare prendere volutamente non la scorciatoia, ma quel sentiero sbagliato che può portare (fatalmente?) a ritrovarsi o comunque a incontri importanti. Dunque ci sono poesie che sembrano dei microracconti, altre (per noi più riuscite) sanno incastonare e offrire versi riusciti e adamantini: "questa mia poesia è per te / che pitoni attorno a un videogioco / immancabilmente giapponese" (p. 21); "tutte le età / passono allo specchio / per spiarsi" (p. 28); "non è una cosa di tutti i giorni / è soltanto delle stelle / splendere sul vuoto, nel silenzio" (p. 29); "indagine pericolosa e vana / quella della parola giusta // come spennare un pavone / per avere la piuma migliore // (vedi il pavone come corre / senza vanità o arroganza ora)" (p. 35); "nella notte bisogna aggirarsi con prudenza / ascoltando i fruscii leggeri degli angoli / e tormentando le vibrisse dei gatti" (p. 58); "rassegnari è un passo nel fango" (p. 66); "mio Padre /dammi uno specchio diverso / per guardare convinto al mio universo –" (p. 72); "non riusciamo a capire / come i cavalli tuttora / abbiano l'ardire antico / di dormire in piedi" (p. 78).

 

Emotivamente intenso, carico di umanità e di una visione etica (ma non sentimentalisitica) dei fatti della vita è Specialmente a Natale di Narda Fattori (Il vicolo, 2006): una storia da leggere da soli o meglio in famiglia che ci riporta alle cose che contano, quelle che fanno rivivere in noi lo stupore che spesso le difficoltà, le sconfitte e le perdite di affetti costringono in un manto di scetticismo, mentre il protagonista di questo racconto: "Nei momenti più cupi sapeva a chi rivolgersi con la certezza che avrebbero lavorato almendo in due alla soluzione dei problemi."

 

Eccellente e pervasiva la traduzione di Massimo Sannelli (nel frontespizio si usa la parola "interpretazione" a indicare il coinvolgimento del traduttore, poeta egli stesso) della raccolta sintatticamente esplosiva di Éric Suchère Fissa, desola in inverno (Cantarena, 2006): "Uno, sposta, ritorno, via, la neve, gli ulivi, il gelo… desola il mondo in inverno, un estremo punge, prima di fissarsi // una donna legge in un treno, labbra a luce, l'interno, di perpendicolare" (p. 15); "Si impone instabile e l'instabile inizia, un principio, desideri e corpi stabiliscono una relazione o" (p. 23); "Pini chiudono la spiaggia deserta, che impressiona per il bianco alla riva distesa che il sole misura, si conforma ai" (p. 54).

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Natale

di Giuseppe Callegari

Formicaio di solitudini

Il futuro è cancellato
dalla cenere del passato
che nasconde la bulimia del presente

Briciole che cadono
da tavole imbandite

Torri d’avorio inaccessibili
e inespugnabili

Carrozze che salgono e scendono
sulle dune del tempo
Senza condottieri
Senza fermate
Senza passeggeri

Nebbia di suoni e colori
che nasconde l’orizzonte

Carni private del pensiero
Antropofaghe su loro medesime
Prigioniere inconsapevoli
di libertà obbligate.

Sguardi persi
Parusiaca resa dei conti
che non arriverà mai

Sguardo non rassegnato
di un testimone impotente.

(Dicembre 06)

Giuseppe Callegari ha pubblicato con noi L'amore si sporca le mani e Messa a fuoco manuale. Sue poesie sono rintracciabili in diversi Faranews.

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