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Gianfranco Bertagni. Architetture Utopiche

Il libro

Lorenzo Mari è nato a Mantova nel 1984. Frequenta la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bologna. Nel 2004 ha ricevuto il premio ex aequo Biennale di Poesia di Alessandria e ha pubblicato la prima raccolta di poesie, libere sequele, per i tipi Gazebo (Firenze). Con la raccolta inedita, e in via di pubblicazione, pellegrinaggio senza Endimione, ha invece vinto il premio senese Alessandro Tanzi 2004-2005. Collabora con il gruppo musicale I Collezionisti di Bossa e con il foglio satirico «ll Notturno».

Intervista a Lorenzo Mari autore di

Minuta di silenzio

La poesia è un linguaggio, forse più della prosa, suscettibile di vari livelli di lettura, di suggestioni multiformi, di una carica espressiva
concentrata: io credo che il valore della parola e del ritmo, una costruzione sintattica accurata, per quanto magari anche destrutturata, siano ingredienti essenziali – uniti all’espressione di un messaggio che non sia mero esercizio di stile, o “esperimento”, o sfogo ombelicale, o marginale corollario vocale a una performance – a fare di un testo una poesia. Tu cosa ne pensi?

Mi trovi pienamente d’accordo sul valore della parola e del ritmo, meno sulle discriminanti del “messaggio”. Di volta in volta l’esercizio di stile, l’esperimento, lo sfogo di pancia, la struttura della performance possono essere messaggi validi, se contraddistinti da umana ricerca e trasgressivo gioco.
Certo, meglio operare dialetticamente, però spesso neanche questo – la “complessità”, la “decostruzione”, etc. – garantisce granché, nella sostanza.

Quale è il tuo rapporto con la tradizione, con gli autori del passato? Quali le letture che ti hanno in qualche modo “formato”?

Da un secolo a questa parte è difficile avere un rapporto lineare e diretto con una tradizione che già comprende in sé l’iconoclastia dada o punk e che si è scoperta, tra le altre cose, essere non una, ma molteplice. E l’avanguardia ha sempre questo lato morboso, nel rapporto con il passato. Meglio sarebbe affermarsi ateo e andare oltre la questione dell’ateismo, come suggerisce, tra gli altri, M. Duchamp. Evidentemente però è molto difficile.
Mi sono trovato ad amare poeti nonostante i loro testi non mi parlino più di tanto e a odiarne altri che mi ritornano spesso in mente. Lucio Battisti, tra gli ultimi.
Quanto alla mia formazione, la ritengo molto tipica: Neruda, Dylan Thomas e i poeti beat (senza trascurare un idolo transgenerazionale come Jim Morrison, che a 15 anni ci sta come il cacio su maccheroni).
Pian piano sono tutti scivolati nel cassetto… però li tengo.

Fra gli autori contemporanei, a quali ti senti più vicino? Trovi ci siano voci giovani interessanti? Puoi dirci quali e perché?

Ammetto che degli autori contemporanei conosco poco. Non mi giustifico, anzi: è mia abitudine sacramentare contro chi scrive poesia senz’averla letta, credendo nel potere magico dell’ispirazione – che al 99%, di solito, è poi traspirazione. (Cioè, sudore umano, da un lato, e rielaborazione intertestuale del già appreso, dall’altro. Non ci volevo credere, ma spiegare una metafora è davvero il triste corollario, sembra inevitabile!, delle interviste a chi scrive sua sponte.)
Nei miei ricordi, ad ogni modo, risaltano opere singole, non epocali, ma di un livello diverso, e più incandescente, come Cefalonia di Luigi Ballerini, La forma della vita di Cesare Viviani e Disturbi del sistema binario di Valerio Magrelli. Credo inoltre che Tema dell’addio di Milo De Angelis sia tratto direttamente dal dizionario della sensibilità umana: “vedi alla voce dolore”. Senza ghirigori dell’ego: imparare a parlare il dolore così è esercizio di autenticità.
Un plauso, su tutt’altro piano, anche al lavoro di Mariangela Gualtieri, da Fuoco centrale in poi.
Voci giovani? Laura Pugno, Teresa Zuccaro, Massimo Sannelli e Jacopo Ricciardi.

Come definiresti la tua poetica e quali mete ti
stanno particolarmente a cuore in quanto poeta?

Poetica? Purtroppo mi sono bruciato anch’io al sacro fuoco di chi preferisce il verso così com’è alle dichiarazioni cariche di vanità, o così spesso mi sembra, di “poetica”. Sembrano due osservazioni buttate lì senza tanto pensarci, dettate dalla giovane età, dall’urgenza di agire e allo stesso tempo dalla paura di dire le proprie certezze, per evitare che passino per fede in Certezze trascendentali ed esclusiviste. C’è dentro comunque voglia di far bene.
Ecco, potrei definire le mie “decisioni programmate di scrittura” (cos’altro è la poetica di uno scrittore? davvero poco) più che altro per negazione. Non vorrei essere un “poeta dell’inesperienza”, secondo il lemma, letteratura dell’inesperienza, oggi definito con il consueto tagliente ingegno da Antonio Scurati. Cosa molto più che facile a riprodursi, l’apologo dell’inesperienza toccherebbe le zone della poesia in un sacrilegio unicamente votato alla distruzione… al tempo stesso, se uno ci pensa, borghese.
Diciamo – forse può essere un buon compromesso – che ho trovato spezzoni di poetica altrui, per strada, e mi sono piaciuti. Me li sono portati a casa e li ho messi al sicuro nel famoso cassetto del poeta.
Se li avessi trovati in televisione facendo zapping (dominati dalla stessa frammentarietà, ma allo stesso tempo disgreganti, ultracromatici, violenti) li avrei lasciati lì dov’erano.

(Fara Editore, dicembre 2006)

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