|  | FARANEWSISSN 15908585
 MENSILE DIINFORMAZIONE CULTURALE
 a cura di Fara Editore
 
 1. Gennaio 2000
 Uno strumento
 
 2. Febbraio 2000
 Alla scoperta dell'Africa
 
 3. Marzo 2000
 Il nuovo millennio ha bisogno di idee
 4. Aprile 2000Se esiste un Dio giusto, perché il male?
 5. Maggio 2000Il viaggio...
 
 6. Giugno 2000
 La realtà della realtà
 7. Luglio 2000La "pace" dell'intelletuale
 8. Agosto 2000Progetti di pace
 9. Settembre 2000Il racconto fantastico
 10. Ottobre 2000I pregi della sintesi
 11. Novembre 2000Il mese del ricordo
 12. Dicembre 2000La strada dell'anima
 13. Gennaio 2001Fare il punto
 14. Febbraio 2001Tessere storie
 15. Marzo 2001La densità della parola
 16. Aprile 2001Corpo e inchiostro
 17. Maggio 2001 Specchi senza volto?
 18. Giugno 2001Chi ha più fede?
 19. Luglio 2001Il silenzio
 20. Agosto 2001Sensi rivelati
 21. Settembre 2001Accenti trasferibili?
 22. Ottobre 2001Parole amicali
 23. Novembre 2001Concorso IIIM: vincitori I ed.
 24. Dicembre 2001Lettere e visioni
 25. Gennaio 2002Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
 26. Febbraio 2002L'etica dello scrivere
 27. Marzo 2002Le affinità elettive
 28. Aprile 2002I verbi del guardare
 29. Maggio 2002Le impronte delle parole
 30. Giugno 2002La forza discreta della mitezza
 31. Luglio 2002La terapia della scrittura
 32. Agosto 2002Concorso IIIM: vincitori II ed.
 33. Settembre 2002Parola e identità
 34. Ottobre 2002Tracce ed orme
 35. Novembre 2002I confini dell'Oceano
 36. Dicembre 2002Finis terrae
 37. Gennaio 2003Quodlibet?
 38. Febbraio 2003No man's land
 39. Marzo 2003Autori e amici
 40. Aprile 2003Futuro presente
 41. Maggio 2003Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
 42. Giugno 2003Poetica
 43. Luglio 2003Esistono nuovi romanzieri?
 44. Agosto 2003I vincitori del terzo Concorso IIIM
 45.Settembre 2003Per i lettori stanchi
 46. Ottobre 2003"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
 47. Novembre 2003Lettere vive
 48. Dicembre 2003Scelte di vita
 49-50. Gennaio-Febbraio 2004Pubblica con noi e altro
 51. Marzo 2004Fra prosa e poesia
 52. Aprile 2004Preghiere
 53. Maggio 2004La strada ascetica
 54. Giugno 2004Intercultura: un luogo comune?
 55. Luglio 2004Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
 56. Agosto 2004Una estate vaga di senso
 57. Settembre2004La politica non è solo economia
 58. Ottobre 2004Varia umanità
 59. Novembre 2004I vincitori del quarto Concorso IIIM
 60. Dicembre 2004Epiloghi iniziali
 61. Gennaio 2005Pubblica con noi 2004
 62. Febbraio 2005In questo tempo misurato
 63. Marzo 2005Concerto semplice
 64. Aprile 2005Stanze e passi
 65. Maggio 2005Il mare di Giona
 65.bis Maggio 2005Una presenza
 66. Giugno 2005Risultati del Concorso Prosapoetica
 67. Luglio 2005Risvolti vitali
 68. Agosto 2005Letteratura globale
 69. Settembre 2005Parole in volo
 70. Ottobre 2005Un tappo universale
 71. Novembre 2005Fratello da sempre nell'andare
 72. Dicembre 2005Noi siamo degli altri
 73. Gennario 2006Un anno ricco di sguardi
 Vincitori IV concorso Pubblica con noi
 74. Febbraio 2006I morti guarderanno la strada
 75. Marzo 2006L'ombra dietro le parole
 76. Aprile 2006Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
 77. Maggio 2006"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
 
 78. Giugno 2006
 Varco vitale
 79. Luglio 2006“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero 
  tempo, stabilità, “memoria”
 79.bisI vincitori del concorso Prosapoetica 2006
 80. Agosto 2006Personaggi o autori?
 81. Settembre 2006Lessico o sintassi?
 82. Ottobre 2006Rimescolando le forme del tempo
 83. Novembre 2006Questa sì è poesia domestica
 84. Dicembre 2006La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
 85. Gennaio 2007La parola mi ha scelto (e non viceversa)
 86. Febbraio 2007Abbiamo creduto senza più sperare
 87. Marzo 2007“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
 88. Aprile 2007La Bellezza del Sacrificio
 89. Maggio 2007I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
 90. Giugno 2007“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
 91. Luglio 2007La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
 92. Agosto 2007Versi accidentali
 93. Settembre 2007Vita senza emozioni?
 94. Ottobre 2007Ombre e radici, normalità e follia…
 95. Novembre 2007I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
 96. Dicembre 2007Il tragico del comico
 97. Gennaio 2008Open year
 98. Febbraio 2008 
  Si vive di formule / oltre che di tempo
 99. Marzo 2008Una croce trafitta d'amore
 
 
 |  | Numero 80Agosto 2006
 Editoriale: 
          Personaggi o autori?Non siamo tutti inquietamente in cerca di un copione che 
          renda la commedia (la tragedia, per alcuni) della vita meno assurda? 
          A volte cerchiamo di scrivercelo da soli, ma spesso anche quello è 
          una finzione pessoana immersa nei nonsensi in cui si arrabatta la ragione 
          o nelle fughe passionali in cui sfinire, o nella sopraffazione… 
          le risposte sono tante e per chi "cerca" di credere ce ne 
          sono di definitive e totalizzanti. A queste inquietudini che da sempre 
          costellano il cammino delle "persone" che siamo trovate interessanti 
          risposte nei racconti realisticamente paradossali di Vesna 
          Andrejevic, Giovanni Tuzet, Drazan 
          Gunjaca e nei versi così diversi fra loro eppure così 
          capaci di mappare la condizione umana di Tiziano Fratus, 
          Luca Ariano, Fabrizio Centofanti 
          e nell'omelia di padre Bernardo.Trovate inoltre le traduzion dal Riccardo III di Massimo Sannelli, una 
          rencensione di Marco Scalabrino su Tardara 
          di Licia Cardillo, quella di Luigi Metropoli sulla 
          Simmetria 
          imperfetta e le segnalazioni su Corpo di guerra, 
          Conatus e Aladar. Buone meritate vacanze e, se scrivete 
          racconti o poesie, vi ricordo il nostro concorso Pubblica 
          con noi.
 Ecco 
          prenda in considerazione il mio caso… di Vesna Andrejevic ... E così Le sto dicendo, reverendissimo Sig. 
          Editore, che si dovrebbe prestare attenzione anche a questo argomento. 
          Ecco, Lei da parte Sua, potrebbe usare il suo grande ascendente sui 
          responsabili perché arrivi il nostro turno. A noi, personaggi, 
          nessuno chiede proprio niente! Siamo sfruttati nel modo peggiore! Nessuno 
          si degna di sentire come vorremmo essere presentati in un’opera! 
          Se uno si è azzardato ad appropriarsi il diritto di descrivere 
          la mia vita, magari nel più piccolo dettaglio, come mai io non 
          ho nessun influsso su questa faccenda, nemmeno “consultivo” 
          se mi permette di usare il termine, o almeno la possibilità di 
          correggere ogni sviamento artificiale di trama, ogni descrizione innaturale 
          delle mie azioni o magari un’idea alterata e malintesa? Non c’è 
          libro senza scrittore ma tanto meno senza personaggi, Sig. Editore! 
          E non si meravigli del fatto che mi rivolga a Lei tramite la radio del 
          Suo computer. Sono stato costretto a farlo e ho fatto il diavolo a quattro 
          per raggiungerLa! Non voglio disturbarLa, per carità, questo 
          assolutamente no, chiedo scusa per la mia invadenza, ma ho agito solo 
          con l’intento di aiutare Lei, me stesso e specialmente gli “imitatori 
          e emendatori” della mia opera e della mia personalità. 
          Insomma bisogna stabilire insieme chi può “entrare” 
          al mercato coperto come mi piace chiamare il mondo della letteratura. 
          Cioè chi può essere e che cosa dovrebbe possedere un valido 
          personaggio letterario? E secondo la mia più profonda persuasione 
          io lo sono davvero!Per provarlo, potrei adoperare due modi completamente opposti di presentarmi. 
          Ed ecco proprio su questo punto possiamo entrare in discordia. È 
          lo scrittore che deve introdurre il suo personaggio o è il personaggio 
          che deve far entrare lo stesso scrittore sul palcoscenico della propria 
          opera? Se scegliessi di essere presentato dallo scrittore che, inoltre 
          non ho nemmeno scelto, potrei subito direLe in faccia i miei dati che 
          testimoniano insindacabilmente che io sono un validissimo personaggio 
          letterario: davanti a Lei si trova Nikola Tesla (1856-1943), genio inventore 
          e scienziato di origine serba e di fama mondiale, scopritore dei dispositivi 
          per sfruttare la corrente elettrica alternata, il motore elettrico senza 
          spazzole, le onde radio, del telegrafo senza fili, della turbina idraulica 
          cuore delle centrali idroelettriche, dei primi impieghi sia bellici 
          che civili della teoria delle onde, del radar e dell’Energia del 
          Cosmo. Per i suoi meriti l’unità di misura dell’induzione 
          magnetica è stata chiamata con il suo nome. E mi creda, Sig. 
          Editore, questo basta non solo come presentazione bensì per disgustare 
          pure il piú appassionato topo di biblioteca! Nonostante la veridicità 
          dei dati indicati, si potrebbe ottenere un’impressione assai sbagliata 
          di me. I dati enciclopedici relativi alla mia personalità, sono 
          noiosi anche per me. Si immagini se mi presentassi in questa maniera! 
          Che orrore! Non dovrei essere io a parlare di me stesso ma ci vorrebbero 
          le mie invenzioni e i miei ideali a raccontare la mia storia. Per tutta 
          la vita ho detestato le presentazioni pubbliche, le grandi pompe e le 
          cerimonie in cui mi abbracciavano conosciuti e sconosciuti: tutto questo 
          mi distraeva dal mio lavoro togliendomi il tempo prezioso che sempre 
          manca a ogni scienziato. Ma pensa davvero che io avrei lavorato per 
          ben 56 anni senza riposo ogni giorno della settimana, incluse domenica 
          e feste, dormendo solo quattro ore al giorno per tutta la mia vita se 
          avessi voluto pavoneggiarmi nei salotti europei ed americani dinanzi 
          alle signore e ai signori? Ci ho messo quasi 63 anni per decidere di 
          rivolgermi a Lei e l’ho fatto non per me ma per stabilire tramite 
          i suoi canali un corretto rapporto con la gente. Sa, mi hanno spesso 
          rimproverato la modestia. Dicevano che non ero bravo negli affari e 
          nel trovare i finanziamenti, che ero troppo inebriato dagli ideali elevati 
          e poco realizzabili, ecc. Sinceramente mi meravigliavo dell’ignoranza 
          dei miei critici per non dire che rimasi un paio di volte ben sbalordito.
 Dicevo spesso che se avessi potuto realizzare i miei ideali a beneficio 
          d’umanità, questa sarebbe stata la mia più grande 
          opera ma il più dolce pensiero era quello che questa sarebbe 
          stata l’opera di un serbo! Con settecento brevetti sono considerato 
          insieme a Faraday il piú grande inventore nella storia d’umanità, 
          ma né la mia umile persona né il magico Faraday avremmo 
          creato niente se almeno una particina di tutto quello non avesse “illuminato” 
          anche la più semplice azione umana. L’uomo viene sempre 
          prima dell’invenzione. E se è così, allora l’invenzione 
          si avvicina all’uomo nel modo facile. Anche l’inventore 
          è un uomo. E vede, si deve partire proprio da questo fatto per 
          la mia presentazione da valido personaggio. Ogni mio movimento, pensiero, 
          comportamento dovrebbe essere filtrato attraverso la mia personalità 
          e non attraverso quello che qualcuno ha detto o scritto di me. Sì, 
          sono d’accordo con Lei, il personaggio può essere descritto 
          dall’esterno o dall’interno, mostrando il suo comportamento, 
          i suoi gesti, il modo di vestire, il timbro della voce, la fisionomia 
          ecc. Ma cosa facciamo dell’invisibile “occhio interiore” 
          che ognuno di noi porta dentro di sé e che è tanto mutevole 
          che nemmeno lo stesso personaggio riesce a coglierlo? E se il personaggio 
          scoppiasse in lacrime nel mezzo della scena comica oppure, Dio non voglia, 
          gli sbucasse “un orzaiolo”? Inoltre, cosa facciamo con la 
          nostra luce interiore che muta di intensità in modi che nemmeno 
          i migliori generatori possono controllare? Semplice, si deve lasciare 
          che questa luce ci conduca e tutto sarà a posto. Sa, non si può 
          controllare e domare tutto. Da piccolo mi sforzavo di controllare le 
          mie emozioni e pensieri, dato che avevo un carattere debole e esitante, 
          sempre pronto a ritirarsi dinanzi alle mie varie paure e ai misteri 
          di natura che mi intrigavano di più: iniziai a soffocare i timori 
          soffocando i desideri. In tal modo mi impadronii di me stesso e delle 
          mie capacità mentali, morali e fisiche. Eppure non conquistai 
          proprio tutto per sfortuna o forse per fortuna se si pensa al mio scrittore 
          che dovrebbe cercare in tutta questa faccenda uno dei possibili inizi 
          della mia descrizione.
 Se ci penso bene, per tutta la mia vita sono stato accompagnato ed inseguito 
          dalle varie “stranezze” e “bizzarrie” del mio 
          carattere e della mia sorte. Per esempio, nacqui una notte di luglio, 
          proprio allo scoccare della mezzanotte mentre imperversava una terribile 
          tempesta. La levatrice pronunciò a mia madre quasi profeticamente 
          che sarei stato “il figlio della tempesta” come se avesse 
          previsto il mio eterno interesse per l’elettricità. All’età 
          di tre anni maltrattavo in modo terribile il mio gattino perché 
          mi eccitavano tanto le scintille che l’elettricità statica 
          provocava nel suo pelo. Questo fenomeno conobbi molto meglio negli anni 
          seguenti, ma all’epoca il fatto ebbe per me il carattere mitico 
          di una scoperta ancora non svelata! Poi, nutrii per quasi tutta la vita 
          un’avversione (a me poco spiegabile ancor adesso) per alcune cose 
          che mi provocano forti crisi neurotiche. Per esempio provavo una grande 
          ripugnanza per gli orecchini e per le perle, ma non per i cristalli 
          di forme regolari, poi per la pesca e per la canfora, per i foglietti 
          immersi nel bicchiere con l’acqua, ecc. Per poter finire in pace 
          il mio pranzo, spesso dovevo calcolare la capacità del piatto 
          per la minestra e della tazzina di caffè e dei miei bocconi. 
          Tutte le mie operazioni e procedimenti dovevano essere divisibili per 
          tre e se, putacaso, avessi sbagliato in calcolo, dovevo ripetere tutte 
          le operazioni dall’inizio. Eppure, nonostante tutto questo non 
          dubitai mai della forza della mia mente e della genialità delle 
          mie invenzioni.
 Ed ecco tutto questo rende evidente, molto meglio di tutti i miei titoli 
          e le mie cariche, la completa validità e consistenza del mio 
          personaggio. Ogni personaggio ben realizzato deve soffrire di una sovrabbondanza 
          la quale si rivela in una certa situazione. Di solito si dice che si 
          tratti di qualcosa di “deviante”, ma io la chiamerei semplicemente 
          “l’eccedenza di valore”. Sta allo scrittore usare 
          questa eccedenza, sia positiva che negativa, privandone il suo personaggio, 
          ma allo stesso tempo palesandolo, proprio come si fa con il fior del 
          latte che si toglie dalla superficie del latte per usarlo dopo per preparare 
          varie delizie. Ma perché è tanto importante questa eccedenza 
          di valore del personaggio? Proprio perché essa crea il conflitto, 
          sia interiore che esteriore e come è ben noto senza conflitto 
          non c’è una buona azione! Essa è la più potente 
          forza motrice dell’azione e, se mi permette, anche della nostra 
          vita per quanto ci sforziamo tutti quanti di sfuggirla. Per questo bisogna 
          sempre cogliere “l’aspetto demoniaco e geniale” nel 
          personaggio e nell’uomo. Questo gioco tra la luce e l’ombra, 
          che qualche volta potrebbe premiare il protagonista, ma a volte completamente 
          mutilarlo, ha un’immensa importanza per lo scrittore. Sembra paradossale, 
          eppure è vero che agli scrittori riescono nel modo migliore “i 
          personaggi defraudati” perché essi portano addosso la propria 
          indignazione come una sporgenza alla quale ci si può aggrappare 
          molto facilmente. Un bravo scrittore dovrebbe cercare anche nei suoi 
          più generosi personaggi un pizzico di cattiveria e viceversa, 
          nei farabutti più riusciti qualcosa di luminoso. In tal modo 
          illuminerà perfettamente la sua opera. Ed io, come posso soddisfare 
          pure questa condizione? Nonostante tutte le mie contrarietà interiori, 
          sa, io sono anche oggi il motivo di grande contesa fra due popoli che 
          amo ugualmente, fra quello di cui sono originario e quello in cui crebbi. 
          È molto interessante che serbi e croati litighino per questo 
          mentre per il popolo nel cui paese creai la maggior parte delle mie 
          invenzioni, conta solo che esse rimanessero in America. Interessantissimo! 
          Non le pare che pure questa sia una valida motivazione per farmi entrare 
          nel mondo letterario?
 Ma per quanto io sia l’esempio piú rappresentativo della 
          mia specie, non potei essere completamente “vaccinato” contro 
          gelosia, sgambetti, ingiustizie e furti! Nel 1912 rifiutai il premio 
          Nobel, ma solo per il fatto di aver subito una grande ingiustizia tre 
          anni prima! Qualcuno si attribuì i miei meriti! Che vergogna! 
          In quell’occasione non si trattava della mia ingratitudine superba 
          verso l’umanità bensì ero profondamente offeso dal 
          fatto che la sfacciataggine e l’insolenza fossero apprezzate e 
          premiate più di un lavoro onesto! Per carità! Mi è 
          difficile parlarne pure ora, ma fui io il primo ad intuire la possibilità 
          di utilizzare le onde elettromagnetiche per trasmettere l’energia 
          e il segnale a distanza senza l’uso di fili. Ogni volta che un 
          fanciullo segue la sua barchetta in una pozza, tutto convinto che essa 
          si muove da sola o a ogni suo cenno, si ricordi che si tratta di una 
          simulazione del primo sperimento di utilizzare le radioonde a distanza 
          che io eseguii nel lontano 1897. Però questa era solo una parte 
          del mio progetto! Lo scopo principale era la costruzione di un Sistema 
          Mondiale per la trasmissione dell’energia elettrica e delle notizie 
          tramite l’aria. E tutto gratis! Questo era il mio piú grande 
          sogno! Provi ad immaginare la corrente elletrica a costo zero, o le 
          informazioni, le immagini gratis per ogni essere umano di questo mondo! 
          E s’immagini solo un’antenna parabolica sul suo tetto senza 
          cavi, fili e la possibilità di avere sempre la corrente quanto 
          vuole e quanto Le basta e le informazioni sempre disponibili che non 
          deve affatto pagare! Si figuri gli aerei, le macchine, le navi, le fabbriche, 
          le case che prelevano energia direttamente dal campo energetico dell’etere! 
          Tutto questo si potrebbe eseguire se si utilizzassero le vibrazioni 
          elettriche naturali della terra! Però, sa, col fatto che ogni 
          energia si potrebbe trasferire a qualsiasi posto della Terra con una 
          perdita non è superiore a qualche punto percentuale, si toglie 
          il diritto a qualcuno che si è spudoratamente proclamato responsabile 
          di sfruttamento del nostro pianeta che da millenni ci offre generosamente 
          e gratis i suoi frutti, e gli si toglie anche il diritto di convincerci 
          che questo dono si dovrebbe pure pagare. Io non trovai i finanziamenti 
          sufficienti per condurre in porto il mio progetto e se è necessario, 
          sono pronto a chiedere scusa a tutta l’umanità, ma non 
          perché rifiutai il premio Nobel. Non si possono premiare i furbi 
          che rendono possibile a loro stessi e a qualcuno che li ha aiutati di 
          guadagnare un sacco di quattrini! Il mio progetto rimase incompiuto 
          proprio per questa cattiva valutazione dei meriti, però non mancarono 
          quelli che seppero usare le parti dell’idea non mia, ma umana, 
          arricchendosi in breve tempo. Ogni volta che accende la radio o oppure 
          il televisore o si avvicina al bottone della luce, se lo ricordi bene! 
          Non dovrebbe pagare niente! Intanto io possiedo il certificato dei miei 
          brevetti registrati regolarmente. Ecco, può accertarsene da solo, 
          Sig. Editore! Si tratta di materiale validissimo per ogni scrittore. 
          Vede che cosa è scritto qui: “il brevetto U.S Patents # 
          645 576” registrato quattro anni prima che il mondo salutasse 
          il primo radiomessagio trasmesso attraverso l’Atlantico! Certamente, 
          avrà notato da solo che il numero del brevetto è assolutamente 
          divisibile per tre! Ma sa, io dovevo morire affinché si raddrizzasse 
          questo torto! La Corte Suprema degli Stati Uniti riconobbe nove mesi 
          dopo la mia scomparsa nella causa n. 369 che fu io lo scopritore delle 
          radioonde e della loro trasmissione senza fili! Eppure, Lei oggi come 
          tutti quanti paga regolarmente l’abbonamento alla radio, no? Paga 
          pure la multa per l’eccesso di velocità ogni volta che 
          la polizia La becca con l’autovelox? Ecco, da inventore del dispositivo 
          che aiutò la scoperta di laser, Le condono la parte mia in tutta 
          la facenda e così a Lei rimane solo di accordarsi sulla riduzione 
          della multa.
 Capisce ora, Sig. Editore, quanto io sia un valido personaggio letterario: 
          da solo “irradio” da dentro e da fuori tantissimi contrasti 
          e quanto a tutto quello che feci, sa, il compito principale di un inventore, 
          che consiste nella impresa di sottrarre le leggi alla natura e di darle 
          alla gente per il suo uso, il fatto che pretendessi sempre che ci fossero 
          sulla tavola diciotto tovaglioli ripiegati in modo particolare oppure 
          il fatto che provavo ribrezzo per microbi e batteri o il fatto che corresse 
          la voce che mi volessi fare castrare perché consideravo le donne 
          una bella ispirazione per gli artisti, ma nociva per gli scienziati, 
          tutto questo è di un’importanza minore quando si pensa 
          ai corrotti pensieri di chi vede il suo unico scopo nello sfruttare 
          gli altri e specialmente i deboli. Tutto questo sotto nome di modernizzazione, 
          di sviluppo scientifico e tecnico, di promozione dei valori democratici 
          e gli altri blablà. Le mie idee sono forse ancora strane e poco 
          recepite, ma io ripeto che credo fermamente nella legge del compenso. 
          I premi veri sono sempre proporzionati al lavoro e sacrificio impiegati. 
          In qualunque momento essi vengano. Proprio per questo si deve sempre 
          essere tenaci e conseguenti con il proprio obiettivo, ma prima di tutto 
          sinceri nei confronti di sé stessi e delle nostre capacità. 
          Del resto quando il dono naturale si trasforma in desiderio appassionato, 
          l’uomo avanza con gli stivali delle sette leghe. Ecco, per questo 
          vorrei gentilmente chiederLe di prestare attenzione quando sceglie chi 
          far entrare nell’etere letterario. Lasci emergere solo i personaggi 
          e gli scrittori veri, vivificanti, cresciuti con la comune fatica dello 
          scrittore e del personaggio perché una volta fatti in questa 
          maniera, loro riescono a ingentilire le persone e la vita umana. Eviti 
          i valori falsi per quanto siano affascinanti e seducenti. E non abbia 
          paura, ne varrà la pena... Ops, squilla il suo o il mio cellulare?... 
          Ah, è il mio. Chiedo scusa, faccio presto... Vediamo un po’ 
          il numero... Mi pare che sia qualcuno del mio vicinato...
 “Pronto? Pronto?... Non sento niente! Pronto, chi è?”
 Sembra che non ci sia campo qui, ma sa, ogni volta che questo coso non 
          funziona, non è poi male perché sono sicurissimo che i 
          campi elettromagnetici dei cellulari producono elletrosmog dagli effetti 
          cancerogeni. Però credo di poterlo eliminare utilizzando microonde... 
          Pronto?... Pronto? Chi e?!... Non si può mai parlare in pace... 
          Pronto? Sì?”
 “Ciao, Nicola! Sono Marconi... Come va?”
 
 
 Vesna 
          Andrejevic (1965, Belgrado, Serbia e Montenegro) nata nello stesso 
          giorno del suo idolo Pirandello, sempre in cerca di un editore e con 
          la modesta speranza che un giorno realizzerà almeno la decima 
          parte del successo del suo idolo, si occupa di traduzione multimediale 
          a Belgrado. È professoressa di lingua e letteratura serba e di 
          letteratura internazionale e fresca neolaureata in lingua e letteratura 
          italiana. Fra i vari riconoscimenti a lei sono particolarmente cari: 
          la segnalazione nel concorso Pubblica con 
          noi (2005), il secondo posto nel concorso Artistico Internazionale 
          “Amico Rom” (2005) e Premio ICON (2006). Scrive narrativa, 
          traduce film e i libri e coltiva i suoi sogni e aspirazioni letterari. Torna all'inizio
 da 
          le bocche poema (inedito) cucito a mano 
          d'un uomo che si arrangia
 in una città appoggiata fra deu fiumi le alpi e la pianura
 di Tiziano Fratus 
           1 | carte di identità il silenzio che si respira in città alle sette meno un quartoquando le famiglie stanno consumando la colazione
 i ragazzini scendono in strada per prendere l’autobus e andare 
          a dormire sui banchi di scuola
 gli studenti dell’università si alzano col mal di testa 
          per la sbornia e salutano gli altri già in piedi a ripassare 
          le teorie della scuola di francoforte la storia della resistenza o a 
          discutere (pace all’anima loro) il tractatus logico-philosoficus
 ad un passo dallo scatto che lancerà questa città in un’ennesima 
          giornata di sfide e di traguardi
 alla conquista di zone di mercato ancora non occupate
 di denari da portare a casa per il miglioramento (o la conservazione) 
          del tenore di vita
 per la scalata alla macchina del riconoscimento
 a noi che passiamo il tempo a sgranocchiare caramelle in svenditache ci spostiamo con la velocità dei bradipi e l’arroganza 
          di un sacco di patate
 a noi che cerchiamo l’amore nel sorriso del primo che incontriamo 
          in strada
 che ci spostiamo da un quartiere all’altro in bicicletta
 che saliamo sui mezzi pubblici senza biglietto e non per indifferenza
 (tant’è che ci logoriamo ad ogni fermata allungando gli 
          occhi in vista di camicie azzurre)
 a noi che ai colloqui di lavoro ci chiedono come abbiamo fatto ad arrivare 
          a trent’anni senza aver lavorato in una ditta in un call center 
          e annotano strane parole sottolineate quando gli diciamo che scriviamo
 che siamo anche un po’ stanchi di essere scambiai per gente senza 
          futuro
 ignorati dagli altri scrittori della città
 dai coetanei che vendono miglia di copie dei loro romanzetti rosa
 dai giornalisti che si materializzano in più punti della città 
          senza capire la differenza fra il campionato mondiale di scacchi le 
          olimpiadi o una lettura di céline la giornata della memoria
 le nostre avventure d’amore le passioni furiose che ci strappano 
          alla vita e agli obblighiche ci sradicano e ci gettano nelle mani del destino
 il modo davvero originale che adottiamo per farci divorare dalle mantidi 
          della nostra città e di altre parti del paese
 per poi essere abbandonati su due piedi in mezzo ad una piazza a venezia
 in riva ai navigli a milano alla stazione dei treni a roma
 sotto i portici di bologna o in un carruggio ombroso e umido in liguria
 c he facciamo?cosa vuoi fare?
 non so che dite?
 iniziano a formarsi le prime ombre sotto i passi
 2 | un reduce a due passi dalla spiaggia vivo come un reduce sopravvissuto alla propria vitaal gusto dell’abitudine
 al passaggio dei gesti che ripetendosi gemmazione dopo gemmazione
 hanno incrostato il mondo lasciato un segno nelle cose
 scavando a fondo dentro in seno alla fisica terrestre
 come quando un tuffatore si getta dalla stessa rupe
 centinaia e centinaia di volte alla stessa maniera
 senza variare la crescita del movimento dei muscoli
 senza alterare d’un grado il coefficiente di penetrazione nelle 
          acque
 scocciando la visione notturna dei pesci e dei granchi che colonizzano 
          quel tratto di mare
 che anche loro alla fine proseguono a banchettare
 con tutto quel trafelamento di antenne chele e vibrazioni
 come un reduce resto invischiato (spesso) nel recupero della memoria
 ho la stanza piena di statue lasciate a metà
 incompiute
 come quella vita che s’è estinta un giorno
 con la perentorietà d’un gesto secco
 di un no pronunciato con estrema decisione
 è vera quella diceria secondo la quale
 intorno ad un piccolo gesto graviti la decisione ultima di vivere o 
          morire
 di amare o piangere
 di partire per il fronte o alimentare la produzione industriale a scopo 
          militare
 intorno a quel gesto infinitesimale si compie un olocausto del non ritorno
 detta quella frase o quella parola
 o non detta non fatto quel gesto (rimpianto dunque per il resto dell’eternità)
 il giorno può addirittura assumere le sembianze della notte
 e la notte accendersi in un luminoso ristoro dei sensi e dei colori
 la verginità viene persa un sola volta
 nonostante le bugie che l’uomo intende edificare all’occorrenza
 esiste una coscienza del pianeta che vive in un qualche luogo estremo
 non manipolabile come la profondità di un albero
 dove anno dopo anno si registra la vita interna dell’organismo
 ma anche i mutamenti esterni provocati nell’ambiente
 così un uomo nelle sue goffe ambizioni
 nel suo caracollarsi in giro per le strade
 le distese di erica i deserti e la volta celeste
 depredando altri essiri viventi della carne
 altri esseri umani dei desideri dei sogni delle illusioni
 parla con la malformazione delle gengive
 l’ampiezza del sorriso
 il gonfiore dello stomaco e dei glutei
 il modo di baciare le labbra di un amante
 a due passi dalla spiaggia
 coi gabbiani che si rincorrono sulla sabbia
 per rubarsi un resto rilasciato dalle onde del mare
 
 Tiziano Fratus 
          (1975) ha pubblicato lumina (2003), l'inquisizione 
          (2004, tradotto integralmente e presentato alla Casa Fernando Pessoa 
          di Lisbona), il molosso (2005), la torsione 
          (2006). La sua poesia è stata ospite in molte manifestazioni, 
          rappresentata a teatro, tradotta in cinque lingue. Ha diretto inoltre 
          il monologo in versi l'autunno per eleni (2002), i 
          videopoemi nell'uomo (2004) e il picchiatore 
          (2005). Dirige Torino Poesia 
          e ManaifatturAE Torna all'inizio
 Su Tardara 
          di Licia Cardillo Di PrimaEditori Riuniti, Roma 2005
 di Marco 
          Scalabrino L’incipit è sullo Stretto. Al primo rigo 
          della prima pagina, Gino Roveri sul Caronte, uno dei traghetti che fa 
          la spola tra l’Isola e la penisola italiana, rientra dopo dodici 
          anni; e al secondo, la Sicilia, che emerge dal mare. Ecco diciamo subito 
          che, Gino Roveri, benché risulti il personaggio fulcro della 
          vicenda, non ne è, almeno a mio avviso, il protagonista, per 
          la cui identificazione dovremo ripiegare altrove. È Settembre. 
          Il paese di Rocca Regina è un canestro di confetti grigio perla. 
          In quella stanza aggredita da un silenzio penoso, le donne tutte vestite 
          di nero, sembrava però si celebrasse un rito antico, codificato: 
          la morte al buio rappresentava se stessa. Solo il morto, Renzino Puglisi, 
          sfuggiva alla finzione. Gino Roveri si segnò ripetutamente e 
          si baciò la punta delle dita. Una morte assurda, sentiva egli 
          sussurrare in un’aria di rassegnazione e di fatalità che 
          si respiravano. A Tardara – è il nome della forra, ossia 
          cava, burrone – e davanti al baglio, affiorano i ricordi: Renzino 
          e Gino amici d’infanzia, compagni di scuola. Qui si sa tutto di 
          tutti, ma nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno parla, sostiene 
          don Giuseppe. In una sorta di confessione, è messa a nudo l’anima 
          dei Siciliani e in discussione uno dei capisaldi della cultura e della 
          società siciliane: la famiglia, che è un marchio ... 
          lu criscenti. La famiglia è come il pane, è nuova 
          e vecchia nello stesso tempo, ha dentro il passato, il presente, l’avvenire. 
          Renzino, nessuno gli ha perdonato di non essere dello stesso criscenti 
          di suo padre, l’hanno ucciso perché era di un’altra 
          pasta, non è voluto entrare nel gioco. Oltre a Renzino Puglisi 
          e al suo sogno di cambiare il mondo, colpiti davanti al baglio con tre 
          colpi al cuore, due altri uomini nel giro di due mesi saranno uccisi: 
          Vito Zito, il proprietario della Tardara, e Menico Russo, che la Tardara 
          aveva quindi acquistato. Ma che se ne fa Menico Russo, un impiegato 
          comunale, di una cava abbandonata? si interroga Gino Roveri. Non vi 
          anticiperò, ovviamente, gli sviluppi che porteranno alla soluzione 
          del caso. Sappiate però che a Gino Roveri e alle sue indagini 
          si unirà, in un fronte di omertà che si andrà disgregando 
          in ragione soprattutto del ruolo capitale che assumeranno le donne – 
          una fra tutte Rita, la vedova di Menico Russo –, l’acquisita 
          consapevolezza – che sa di rivoluzione dalle nostre parti – 
          che la parola fa l’uomo libero, che chi non si può esprimere 
          è uno schiavo, che parlare è un atto di libertà, 
          che, come professa Ludwig Feuerbach, la parola è per se stessa 
          libertà. Ed ecco è giunto il momento, riprendendo l’ipotesi 
          lanciata in apertura e soppesate le considerazioni esposte, di palesare 
          il vero protagonista della vicenda, che reputo sia il “contesto” 
          sciasciano in cui si snoda il groviglio. E proprio questo apprezzamento 
          contribuisce a situare il lavoro nel filone dell’impegno, per 
          la denuncia, in una trama per dirla giustappunto con Leonardo Sciascia 
          da "materia saggistica che assume i modi del racconto", dello 
          ntrallazzu e della criminalità mafiosa e del clima da 
          essa imposto. Non mi rimane che chiudere con un ultimo stralcio, dal 
          timbro gattopardesco, da Licia Cardillo: la festa è un uragano 
          che scuote il siciliano dal torpore per farlo entrare in un’altra 
          dimensione: quella dell’ebbrezza. 
 Licia 
          Cardillo Di Prima è nata a Sambuca di Sicilia dove vive e 
          lavora. Giornalista pubblicista, è autrice del romanzo storico 
          Il Giacobino della Sambuca (Editori Riuniti 2000), 
          Premio Anteka Erice e della raccolta di racconti Fiori di aloe 
          (1997). Ha curato l'adattamenti teatrali e ha collaborato con il Mediterraneo 
          e con la Repubblica (edizione siciliana). Per il saggio Marco 
          Antonio Colonna ed Eufrosina Corbera le è stato attribuito 
          il Premio Parnaso promosso dalla fondazione Leonardo Sciascia di Racalmuto, 
          da Kairos a Canicattì. Torna all'inizio Novecento I e II
 di Luca Ariano
 Quei primi scioperi
 - la piazza non era gremita
 come nelle storie,
 e il tuo pugno chiuso in foto
 con l’orologio in evidenza.
 Quel manipolo di sbarbati
 alla mattina, al pomeriggio
 e anche alla sera e poi...
 poi il tempo di distrarsi
 e il tuo volto non si riconosce più.
 Avessi aperto un negozio di scarpe
 o un locale trendy – sempre pieno;
 il bambino, cocco della mamma,
 sempre in palmo di mano ora non sa
 a chi gridare, ora che l’eco della casa
 rimbomba tira grembiuli altrove.
 Lui si allontana in moto,
 pare quasi una cartolina anni cinquanta,
 col vento di salso che sale dall’autostrada
 e tu prepari il tuo viaggio,
 il tuo gommoso ritorno in treno.
 Atto II
 Non c’era quando la stradas’asfaltava della schiuma oleosa
 della pioggia e tu lì in quel tiepido
 sole di marzo, per ogni soffio di nube.
 Sceso di corsa dalla carrozza
 per un biglietto quasi vergato a mano,
 a sottolineare la febbre galoppante
 delle sragioni.
 In questa notte al Pratello Bologna
 pare una canzone di Guccini
 ma state solo scimmiottando i padri
 e certo quei negozi pakistani
 non sono osterie da rivoluzioni.
 L’emulazione nel delirio collettivo
 d’un bagno notturno ma è lo specchio
 opaco d’un altro decennio
 con ancora l’odore delle bombe sotto gli occhi.
 Un vecchio osserva le cosce d’una ragazza
 e ritorna ai frettolosi amplessi
 tra mecerie e sirene quando un bacio
 poteva esser l’ultimo prima del calar della polvere.
 
 Luca Ariano è 
          nato nel 1979 a Mortara (PV), vive tra Vigevano e Parma. Ha pubblicato 
          nel 1999 la raccolta di poesie Bagliori crepuscolari nel buio 
          presso Cardano di Pavia. Numerose sue poesie sono apparse su riviste 
          e siti letterari tra cui Frontiere, 
          Faranews e FuoriCasa.Poesia 
          e su antologie tra cui Oltre 
          il tempo/Undici poeti per una Metavanguardia, curata da Gian 
          Ruggero Manzoni per le Edizioni Diabasis (2004) e La 
          coda della galassia, a cura di Alessandro Ramberti, FaraEditore 
          (2005). Collabora con il sito internet Pagina 
          Zero, Il Foglio Clandestino 
          e La Clessidra ed è tra i redattori della rivista Ciminiera. 
          Nel 2005 è uscita la sua seconda raccolta di poesie Bitume, 
          con la prefazione di Gian Ruggero Manzoni, per le Edizioni del Bradipo 
          di Lugo di Romagna.  Torna all'inizio Il pranzo in campagna di Giovanni 
          Tuzet Parliamo seriamente. Vorrei porre alcune interrogazioni 
          a proposito dell’evento che si prepara, vista la numerosità 
          di coloro che ad esso interverranno. Sarebbe possibile visionare il 
          menù che ci viene riservato? Trattasi di menù turistico, 
          visto che non tutti siamo indigeni? È possibile parcheggiare 
          la macchina di fronte al ristorante? È previsto un servizio navetta? 
          Se sì che orari osserva il servizio? Quale sarà la disposizione 
          dei tavoli e delle sedie a noi riservati? Considerando 60 centimetri 
          medi di spazio per ogni commensale, riusciremo a stare tutti nella stessa 
          sala senza che nessuno dia le spalle ad altri? Si paga il coperto? Se 
          sì, in caso di intemperie sono previsti badili per neve? Sono 
          ammessi i cani? Se no, va rivisto il numero dei partecipanti? A che 
          ora ci troviamo in centro per la partenza? A che ora si rientrerà? 
          In caso di bisogno, ci sono i bagni? L’acqua corrente è 
          stata introdotta nell’uso della società campestre? Le posate 
          vengono cambiate tra una portata e l’altra? Ma poi ci sono le 
          posate? Onde evitare il traffico dell’ora di punta, non sarebbe 
          opportuno arrivare in loco per le 12.15? Non sarebbe meglio evitare 
          la tribù antipagana che esce da Messa? Chi è Luís, 
          uomo, donna o altro? Per partecipare al pranzo bisogna essere iscritti 
          a qualche associazione? Se un membro della felice tavolata ordinasse 
          consommé, verrebbe capito? È previsto l’antipasto? 
          È previsto l’aperitivo? Se decidessi di non mangiare il 
          primo, potrei donarlo a Luís? A che ora chiude il locale? Ma 
          è aperto? Chi se n’è sincerato? Abbiamo il telefono? 
          Se sì, avete chiamato? La % di polveri sottili in quella zona 
          è entro il limite di guardia? Ci sarà il problema delle 
          targhe alterne? Se il numero dei disoccupati in Italia cresce, è 
          colpa nostra o loro? È consigliabile l’uso di catene? Al 
          ristorante accettano buoni pasto? Nel caso, prendono anche quelli scaduti? 
          Se a un bipede non va di stare a fianco di un altro bipede può 
          cambiare posto? Deve giocare il Jolly? Quanti Jolly ha ogni bipede? 
          Il decreto che vieta il fumo è applicabile? Si fuma lo stesso? 
          Se sì, cosa si può fumare? In caso di meteorismo si possono 
          somministrare farmaci adeguati? La giornata proseguirà al cinema 
          parrocchiale? Che film danno? Ma c’è ancora il cinema parrocchiale? 
          Al nostro arrivo, verremo accolti dalla Pro Loco? Ci sarà il 
          Presidente? Ci sarà uno spettacolo di Drag Queen? Si possono 
          introdurre all’interno del ristorante macchine fotografiche? Si 
          possono scattare foto o saremo obbligati ad acquistare gadget? Qualcuno 
          alla fine dirà come ci siamo comportati? Verremo giudicati senza 
          saperlo? Ci sono animali feroci in libertà? Si può ruttare? 
          Si può ruttare con femmine a fianco? Si può rimanere a 
          fianco di femmine senza ruttare? A che ora è previsto il caffè? 
          È compreso nel prezzo? Chi paga? Colui che ha prenotato il pranzo, 
          ha prenotato una stanza per appartarsi? C’è ancora il proibizionismo? 
          Si possono bene alcolici nei locali? Se no, come fanno sessi opposti 
          a divertirsi fra loro? Siete favorevoli alle coppie gay? Ci saranno 
          coppie gay al pranzo? Se sì, chi sono? Se no, ci travestiamo? 
          Se qualcuno tiene alla privacy, lo mettiamo in un tavolo a parte? Dove 
          ci troviamo? Chi e quanti siamo? Ho già fame e Voi? Questo scritto nasce da una lettera di Davis Romanini 
          che qui ringrazio. 
 Giovanni 
          Tuzet (Ferrara, 1972) è laureato in Giurisprudenza all’Università 
          di Ferrara e dottore di ricerca dell’Università di Torino 
          in Filosofia del diritto e dell’Università di Paris XII 
          in Filosofia della conoscenza e Ontologia. Dopo il dottorato ha svolto 
          attività di ricerca presso l’Università di Losanna 
          e l’Università di Ferrara. Attualmente insegna Filosofia 
          del diritto presso l’Università Bocconi di Milano. Ha pubblicato 
          numerosi articoli e scritti su riviste di filosofia e letteratura. Ha 
          pubblicato tre raccolte di poesia: Suggestioni di poesia 
          (Officina Grafica S. Matteo, S. Matteo della Decima, 1993), 365-primo 
          (Liberty House, Ferrara, 1999), 365-secondo (Liberty 
          House, 2000). Ha pubblicato la silloge Logiche 
          e mancine nell’antologia Nodo Sottile 4 (Crocetti, 
          Milano, 2004) e un’altra silloge dallo stesso titolo nell’antologia 
          La coda della 
          galassia (Fara, Santarcangelo di Romagna, 2005). Con A. Melillo 
          e C. Sciaraffa ha pubblicato la plaquette San Giorgio e il Drago 
          (LietoColle, Como, 2005). Ha curato il volume Simboli in versi 
          (Editreg, Trieste, 2004). È redattore di Atelier, 
          rivista di letteratura. Torna all'inizio Su Conatus e 
           Aladar di Alessandro 
          Ramberti  Conatus 
          è una Antologia di poesia contemporanea a cura di Lorenzo 
          Giuggioli e Simone 
          Molinaroli con Prefazione di Roberto Carifi. I poeti hanno stili 
          e rese diversi anche se mi pare predomini un certo sperimentalismo e 
          la poesia-racconto a volte con rancorosi autocompiacimenti sensuali 
          o con poco ironiche provocazioni. Credo che fra i poeti raccolti la 
          classe di Martino Baldi emerga in modo netto e assoluto, il suo raccontare 
          in versi ha mestria e espressività che lasciano un segno autentico 
          e durevole: "Fu un giorno memorabili / e nessuno se ne avvide" 
          (p. 23); "Non le parole nude resterenno / ma il labrinto di rughe 
          del tuo volto" (p. 27); "E invece non muore la memoria / sono 
          io che mi consumo a poco a poco / sulle strade di sempre" (p. 28). 
          Di altri autori mi hanno colpito versi sparsi: "Ogni forza occlusa 
          / sprigiona un'opprimente debolezza" (Gianluca D'Andrea, p. 38); 
          "M'incanta l'idea soprendente / Che tutto dall'unghia alla mente 
          / Non resta mai lo stesso" (Emanuele Fant, p. 57); "Ci muoviamo 
          – insetti indaffarati / in mattine arrivate come rughe" (Lola 
          Malone, p. 64); "venti giorni fa / è scomparsa l'aria. sarà 
          un compleanno in apnea" (Simone Molinaroli, p. 75); "Alla 
          fine ho deciso: faccio il trasloco / sgombero il corpo, quindi / mi 
          sfilo i neuroni / cavo gli organi e le ragnatele: / scivola in mattini 
          di cloroformio / lungo le arterie della città / un camion lungo 
          come un catetere" (Santi Spadaro, p. 123). Conatus 
          è un libro con oscillazioni (alcuni autori sembrano dover ancora 
          trovare un loro stile, una forma espressiva autentica e non episodica) 
          ma con frammenti che non si dimenticano. 
 Aladar 
          è una plaquette (Ass 
          Cult Press 2003) di Giuseppe 
          Cornacchia redattore di Nabanassar 
          un sito per la letteratura del terzo millennio occidentale. Autore molto 
          presente nel web, ad esempio nel sito di Chiara 
          De Luca e in quello di Gianfranco 
          Fabbri. La sua è una versificazione volutamente priva di 
          sofisticazione, e anche i suoi messaggi sono porti senza fronzoli, spesso 
          con un pi’ di sarcasmo e autoironia. C’è una fotografia 
          di sghembo (e rivelatrice per il taglio che mette in evidenza particolari 
          paradossali) della quotidianetà che sa raggiungere una efficacia 
          comunicativa illuminante e inquietante, adoperando una sentenziosità 
          priva di aplomb: “ogni domenica mattina. Vado in chiesa / mi sento 
          come se / partecipassi dei fratelli / pur senza stare insieme.” 
          “Dammi un’amica prima che accada / Un mio 
          peccato.” “Ti amo nel filo dell’anima” “Gli uomini parlano e si gonfiano / Noi donne facciamo 
          fatti / E loro se ne accorgono.” “Il modo di dire le cose / senza parole inutili 
          / lo chiamo Poesia”. 
 Torna all'inizio Quando finiamo di porci domande  di Drazan Gunjaca È da mooolto tempo che non scrivo. Per scrivere ci vuole un 
          motivo almeno sopportabile. Io non ce l’ho più. Cerco di 
          capire se la perdita della vena corrisponde alla perdita di senso e 
          mi viene la pelle d’oca alla conclusione che nasce spontanea. 
          Quando tiro le somme e penso a ciò che l’attività 
          letteraria mi ha dato, vado in depressione e mi meraviglio di come dopo 
          ogni caduta finisco sempre più in basso, anche se ogni volta 
          penso di aver toccato il fondo. Pia illusione. Il fondo non c’è. 
          Non esiste. L’unica costante è il cadere continuo, con 
          sporadici e brevi momenti in bilico sull’orlo dell’abisso 
          esistenziale, e le ferite, sempre più profonde. Le cicatrici 
          non le conto più come facevo un tempo. Infatti, che senso ha scrivere di tolleranza, umanesimo e argomenti 
          simili in un mondo in cui l’unico Signore è il denaro, 
          e tutto il resto sono mere illusioni per coloro che non ne hanno? Guardatevi 
          attorno e aprite gli occhi. Quale potente della Terra, formale o nascosto, 
          se ne cale dell’umanesimo se non è possibile guadagnarci 
          su? Non uno. Qualche volta i potenti se ne ricordano, se riescono a 
          capitalizzarci su a spese di coloro che quell’illusione l’hanno 
          creata. In effetti, una buona parte di noi vive di queste illusioni, 
          mentre loro ci campano sopra. E ovviamente, se la passano meglio di 
          noi. In tutto ciò dove mi trovo io e il mio ambiente circostante?
 Mi pare che da queste parti scrivere per promuovere queste illusioni 
          rappresenti un tentativo inutile di dare senso al nonsenso. Suona troppo 
          metafisico? Cavolo, da queste parti è considerata un’offesa 
          al pubblico pudore. Mi aggrappo a una qualche illusioncina che riesce 
          a durare addirittura un paio di giorni. In certi casi anche una settimana, 
          sempre che non la prenda troppo sul serio.
 Vabbè, ora voi vi chiederete: perché cazzo sto scrivendo 
          questo testo? Che colpa ne avete voi per dover sopportare questo mio 
          sproloquio? Nessuna. La colpa è di un mio amico, scrittore di 
          Belgrado, che mi assilla di continuo a scrivere qualcosa sul fatto che 
          ho ricevuto tanti premi letterari all’estero, mentre non ho avuto 
          alcun riconoscimento nel mio paese. La colpa è anche di Igor 
          Mandic´. Perché Igor? Perché evito, scampo come 
          ili diavolo dall’acqua santa, gli schermi televisivi straripanti 
          di trasmissioni orrende e di conduttori ancor più orrendi... 
          domenica pomeriggio, per caso mi trovo davanti allo schermo e dentro 
          c’è Igor... risorto dopo alcuni anni, con il nuovo libro 
          e con riflessioni al confronto delle quale le mie cadute negli abissi 
          esistenziali sono puro ottimismo... Ma, non finisce qui. Lui ha pur 
          sempre qualche annetto più di me, ha più esperienza ed 
          è quindi più consapevole delle cose presenti e future. 
          Sul passato è inutile spendere parole. Esso ha detto ciò 
          che aveva da dire in un modo tale che anche il più ritardato 
          degli asini ha potuto capirlo... A dire il vero, ciò non significa 
          che tutti hanno compreso ciò che è stato detto. Anzi. 
          Dunque, Igor. Il più grosso problema del buon uomo è che 
          non ha avuto sufficiente coraggio per suicidarsi. Ecco, mi ci voleva 
          proprio un tale approccio “positivista”. Se almeno facesse 
          lo sforzo minimo di impacchettare questo suo nichilismo in una confezione 
          dono, tanto da offrirmi la possibilità di trovare un centro di 
          gravità per il decennio che corre e fugge. Nisba! Dopo la sua 
          intervista, avrei voluto suicidarmi per entrambi. E sì che mi 
          piace leggere i suoi libri. Però, questa volta... questa volta 
          mi ha fatto a pezzi. Ah, dimenticavo di dire che il buon Igor è 
          una delle menti più eccelse della letteratura croata contemporanea, 
          il che è ragione sufficiente per tutti i mezzi di comunicazione 
          di massa per evitarlo a chilometri... Non ho idea di come sia riuscito 
          a “conquistarsi” quell’intervista in TV. Sarebbe stato 
          meglio sia per lui sia per me se anche questa volta fossero riusciti 
          ad evitarlo.
 Ho tralasciato la risposta all’amico belgradese. In verità 
          è cosi semplice e palese che esplicitarla mi sembra fuori luogo. 
          Però, va bene, giacché sono partito, tanto vale giungere 
          alla meta. Quindi, perché non ho ottenuto alcun riconoscimento 
          nel mio paese? Alla domanda posso rispondere in «lingua docta» 
          o «in volgare». O in entrambi i modi. Prima rispondo in 
          «lingua docta»: Perché nel mio paese le idee e l'etica 
          che promuovo nelle mie opere sono oggetto di stigmatizzazione. Esse 
          sono accettabili a livello a condizione che non tocchino le nostre consuetudini, 
          il nostro patrimonio culturale pre- e post-bellico, che non coincide 
          con i proclamati traguardi paneuropei della nostra élite al potere, 
          ma che ha parecchi contatti con i mezzi con cui si vogliono raggiungere 
          questi traguardi...
 Rispondendo «in volgare»: «Nessuno se ne frega della 
          tolleranza e dell'umanesimo.»
 Tuttavia... Grazie, amico. Finché ci sarà almeno una persona 
          che si porrà la domanda ha senso andare in cerca delle risposte. 
          Quando finiremo di porci le domande, tutto sarà finito. Da tutti 
          i punti di vista. Sia reali che quelli metaforici. Però… 
          sempre questo piccolo dannato «però». Come un sassolino 
          nella più comoda delle scarpe. Pero', se ponete le domande dovete 
          essere pronti anche ad ascoltare e a vivere con e nonostante la risposta.
 
 Drazan Gunjaca ha pubblicato 
          con noi Congedi 
          balcanici e Roulette 
          balcanica. Torna all'inizio Italia di Corrado 
          Giamboni  Salirono per le terrazze, poi per altre scale. Lontano, 
          nello scorcio di mare, s’alzava, tra fiamme rosa, il mosaico della 
          sera. Entrarono nei vicoli. Ancora quattro passi, e anche la piazza 
          era percorsa. Non c’era anima viva. Sui sedili di pietra, qualche 
          foglia d’ulivo accartocciata. Due mani erose, e tagliate ai polsi, 
          si stringevano sulla lastra della fontana. Il paese un tempo, a dispetto 
          del nome, doveva essere abitato da gente mite.La invitò a sedersi vicino a lui, sulla pietra levigata del sedile 
          che rilasciava lenta il calore accumulato durante il pomeriggio. Era 
          stata una giornata molto calda, molto estiva.
 - Sei mai stata qui?
 - Mai. È un posto molto bello.
 - Ci venivo spesso da piccolo, con i miei nonni. Siediti. Dimmi chi 
          è Italia.
 - Italia e Stella sono la stessa persona.
 - Perché non me ne hai mai parlato prima?
 - Non me la sentivo. Oggi però l’hai scoperto in quel modo, 
          al telefono... Credimi, non mi è facile parlarne...
 - Non devi sentirti obbligata... Siediti qui.
 - Camminiamo, preferisco camminare.
 Lei si alzò, assecondando un rivolo d’aria che le turbinava 
          vicino.
 - Quando seppi che ero incinta non riuscivo a rendermene conto. Mi ricordo 
          solo che cominciai a sognare ad occhi aperti… io e Attilio insieme, 
          con la nostra bambina… Invece poi, quando lo dissi ad Attilio...
 - Come reagì?
 - Come terrorizzato, non disse nulla. Mi ricordo che mi avvicinai per 
          accarezzarlo e lui si irrigidiva come spaventato. Quando mi guardò 
          mi ricordo che aveva gli occhi lucidi ma non piangeva. Uscendo mi disse 
          che ci saremmo visti più tardi o forse l’indomani. La cosa 
          che mi aveva più colpito, e ferito, era che non mi aveva detto 
          niente, non una parola. Ho aspettato una sua telefonata quella sera, 
          non ho mai aspettato nient’altro così. Alla fine lo chiamai 
          io, ma mi dissero che non era in casa. Di certo aveva una gran paura 
          della reazione di suo padre, e questa era sufficiente per toglierli 
          ogni forza.
 Erano saliti sulla terrazza più alta, che svelava per intero 
          il panorama del mare con i puntini accesi e ammiccanti dei pescherecci. 
          Non era la prima volta che egli poteva ammirare e salutare il mare da 
          quella posizione, ma quella sera tutto ciò divenne scenario al 
          racconto della bambina che non sarebbe dovuta nascere. Stella. Italia.
 - Non so come feci a tenerlo nascosto ai miei per così tanto 
          tempo: le nausee, i cambiamenti in me, finché un giorno, passato 
          il quarto mese, mia madre non mi fece la domanda diretta, e io le risposi 
          di sì. Fu un dolore per lei il fatto che glielo avessi tenuto 
          nascosto così a lungo. Mi strinse, e io le dissi che mi sentivo 
          una bambina che aspetta un’altra bambina. Io fin da subito ho 
          saputo che sarebbe stata una femmina. E pensavo sempre a quel nome, 
          Stella. Il problema però era che non riuscivo a immaginarmela 
          reale, nata in questa realtà, che le era ostile. Mia madre mi 
          teneva stretta, mi diceva di non avere paura.
 - E tuo padre?
 - Per lui ci è voluto più tempo. Mia madre aveva detto 
          che ci avrebbe pensato lei a dirglielo, e mi accorsi che era successo 
          quando lui mi evitò per un po’. Tra l’altro nello 
          stesso periodo gli avevano comunicato un trasferimento per lavoro, il 
          che comportava che avremmo dovuto seguirlo tutti, ancora una volta.
 - E Attilio poi come ha reagito?
 - Attilio non si faceva mai vivo, ero io a rintracciarlo per telefono. 
          E non erano belle telefonate, io non sapevo cosa dire, lui mi diceva 
          che non poteva parlare, che c’erano i suoi nell’altra stanza, 
          e che non sapevano niente, e che se l’avessero saputo l’avrebbero 
          ammazzato. Non usava mai questo termine, ammazzato. Comunque si allineò 
          subito con loro. Mi disse che avrei dovuto prendere delle precauzioni, 
          mi rinfacciò le cose alle quali avrei dovuto pensare io, non 
          parlava mai di sé. Poi tornava a dire che i suoi non avrebbero 
          dovuto sapere nulla. Avresti dovuto conoscerli i suoi, suo padre, l’ingegnere, 
          un uomo tutto d’un pezzo, uno di quei padri che fanno salire i 
          figli in macchina solo se si sono tolti le scarpe. Un uomo di successo, 
          molto in vista, e la moglie che lo assecondava in tutto. Io credo di 
          essermi innamorata di Attilio anche per quella sua insicurezza profonda 
          che si portava dentro.
 - Un bel problema un nipote inaspettato.
 - Un imprevisto da non prendere neanche in considerazione. Attilio aveva 
          finito la maturità e si sarebbe dovuto iscrivere all’università, 
          ingegneria, con lo studio del padre che lo aspettava. Anzi, si era già 
          iscritto. A lui del resto andava bene così. Al telefono continuava 
          a rispondere alle mie domande ripetendomele.
 - Cioè?
 - Io gli chiedevo: “E adesso?”, e lui: “E adesso cosa?”. 
          Oppure gli chiedevo della bambina e lui diceva: “La bambina cosa?”
 Deserti i vicoli, appena illuminati anche quelli che riportavano alla 
          piazza della fontana. Il percorso del ritorno tante volte interrotto 
          per adeguarsi al ritmo del racconto. Egli, mentre ascoltava quella storia, 
          si rese conto di quanto poco conoscesse quella donna. Ed ebbe la sensazione 
          che l’amore a volte chiede di essere verificato con modalità 
          strane.
 - Tu quanti anni avevi?
 - Quasi sedici. Non sapevo che cosa fare, mi sentivo molto sola. L’unica 
          persona che mi ha sempre dato coraggio è stata mia madre. Mi 
          diceva di non avere paura, che ce la saremmo cavata tutti. Ma non aggiungeva 
          nient’altro di concreto. A volte quando io piangevo, e mi capitava 
          spessissimo, piangeva anche lei. Mio padre sembrava più distante, 
          sembrava addirittura compatirmi quando mi passava vicino e mi accarezzava.
 - E tuo fratello?
 - Mio fratello era troppo piccolo. Mi ricordo però che tutte 
          le volte che suonava il telefono mi gridava: “E’ per te!”.
 Un raro passante, frettoloso, concentrato sui propri passi, ruppe l’isolamento 
          della piazza, animata solo dalle fonazioni amplificate dei televisori, 
          al di là delle finestre spalancate. Era una bella serata d’estate.
 - Poi ci fu il mio compleanno, che tristezza, pochissimi gli invitati, 
          solo Rosa fra le mia amiche, e Attilio all’ultimo momento non 
          venne. Non mi ricordo neanche se mi fece il regalo. Mi ricordo però 
          che a un certo punto fui contenta che non ci fosse, davvero, ed ebbi 
          anche chiaro che potevo fare a meno di lui. Fu una grande liberazione 
          ed insieme un grande dolore, come uno strappo di crescita. Mia madre 
          continuava a dirmi che in qualche modo ce la saremmo cavata anche senza 
          di lui e la sua famiglia. Che nel frattempo era venuta a sapere, ma 
          non si era fatta sentire.
 - Che triste, però.
 - Poi un pomeriggio ci fu la telefonata dell’ingegnere. L’ingegnere 
          cercava mio padre, ma lui non c’era. Perché l’ingegnere 
          era il datore di lavoro di mio padre. Può dire a me, gli dissi. 
          Non perse tempo e mi disse che sarebbe stato meglio pensare all’aborto, 
          e che comunque, al di là di tutto, mi mettessi in testa che la 
          storia con suo figlio non aveva un futuro.
 - E tu?
 - E io niente, rimasi zitta. Capii che dovevo fare tutto da sola. Che 
          dovevo abortire me lo consigliarono in più di uno. Ero troppo 
          giovane, dicevano. Era stato un errore e non c’era che una soluzione 
          realistica, e che la soluzione veramente sarebbe stata il pensarci prima, 
          ma che ormai il male minore… Però io non ero convinta. 
          A volte mi sembrava anzi di essere felice, una parte di me non era mai 
          stata così felice, ma non lo dissi a nessuno, neanche a mia madre 
          che sempre più spesso piangeva anche lei. Non sapevo che cosa 
          fare ma sapevo che non volevo abortire.
 - E alla fine è nata.
 - Alla fine è nata, e tu l’hai scoperta in quel modo, mi 
          dispiace. Ma era stato così anche per me due settimane fa. Te 
          l’ho detto, l’avevo data in adozione che aveva pochi giorni. 
          Praticamente l’ho abbracciata appena nata, poi l’ho salutata 
          regalandola alla vita. Sai quella frase che dice che i nostri figli 
          non sono figli nostri, per me è stato così da subito. 
          Comunque, almeno era nata. Mi avevano assicurato che la famiglia l’avrebbe 
          trattata bene, e io ho cercato di chiudere in fretta quel capitolo, 
          di ripartire da zero. E’ stata dura, ma grazie anche ad alcune 
          persone ho ricominciato. E grazie anche a te. Poi la sua telefonata, 
          inaspettata. Sono Italia, ha detto, all’inizio pensavo fosse uno 
          scherzo. Ha voluto rintracciarmi lei, l’ha voluto come regalo 
          per il suo diciottesimo compleanno. Quando ho capito che era lei mi 
          sono sentita morire, di felicità. Ha detto che sa che io esisto 
          da quando ha dieci anni, e ha detto che vuole vedermi.
 - E tu?
 - Non lo so, sì che lo voglio, ma non so come reagirò. 
          E sai qual è la cosa più buffa? E’ che è 
          stata adottata da una famiglia di immigrati. E l’hanno chiamata 
          Italia. Credo avessero i nonni o i bisnonni italiani, e ora sono ritornati. 
          So che sono brasiliani, lei sa il portoghese e sa anche ballare benissimo, 
          e vuole fare l’insegnante di ballo. Io che non sono mai stata 
          portata per il ballo. Mi ha fatto impressione quando ha detto che ha 
          il fidanzato, ma in effetti se lei fosse stata come me, a quest’ora 
          io sarei già nonna.
 Abbiamo 
          parlato molto al telefono.
 Sì, ho molta voglia di vederla.
 Stella Italia, sembra un po’il 
          nome di un albergo, no?
 
 Corrado Giamboni 
          è scrittore 
          e, con l'eteronimo Massimo 
          Pensante, poeta: "Negli ultimi dieci giorni ho incontrato amici 
          a cui ho letto in pubblico cose che avevo scritto anche per loro; ed 
          era la prima volta. Ho incontrato Claudia Cardinale, esattamente. È 
          morto un mio amico e maestro, don Tullio Contiero. Non ho saputo realmente 
          spiegare a mio figlio perché un miliardario ha preso a testate 
          in mondovisione un altro miliardario, poiché è anche questo 
          o soprattutto questo che mio figlio si ricorderà dei Mondiali. 
          Queste cose hanno influito su di me negli ultimi giorni, più 
          altre, precedenti, che forse verranno fuori in qualche modo.."
 Torna all'inizio Su Corpo di guerra 
          di Lucilio SantoniStamperia dell’arancio, Grottammare (AP), 2002
 di AR
 13 fotogrammi poetici di un eccidio, seguiti dalla descrizione “filmata” 
          di un corpo violato, torturato, morente. Un libro privo di retorica, 
          e intenso come lo sanno essere le parole che vanno a toccare la verità. 
          Riportiamo alcuni frammenti la cui forza comunicativa (“com-munis” 
          in latino significa portare il peso assieme, condividere una responsabilità, 
          una carica) non ha bisogno di commenti:
 “La luce d’oggi non lascia immaginare un poter 
          essere, né un essere presente, né un essere stato. Resta 
          solo uno scivolare verso il fondo, per cercare chi ancora non s’è 
          fatto ombra, silenzio puro.” (p. 11) “I vostri occhi torneranno all’orizzonte, 
          per non vederlo, / in un inutile dolore sommerso dall’etnia della 
          polvere.” (p. 19)“Non è giusto che le cose durino al lungo, / pensò 
          guardando il disertore che non voleva cadere.” (p. 21)
 “e farò in modo che le tue opere vengano 
          in processione da me, nel mio corpo / che vuole risorgere e non importa, 
          no, nient’altro.” (p. 25) “Giace con tutte le dita delle mani slogate. Gliele 
          avevano ritorte e quasi frantumate affinché non potesse usarle 
          per difendersi, per scacciare da sé quegli orrendi soldati resi 
          goffi dai pantaloni abbassati, simili a pinguini in calore. Giace lei, 
          ora, legata al suolo da filamenti di sangue e liquidi organici.” 
          (p. 38) Su questi testi è stato realizzato un CD 
          del Manifesto
   Lucilio 
          Santoni ha tradotto da Melville, Stevenson, Lorca. Coordinatore 
          della Scuola di Scrittura Moby Dick, ha diretto la collana video Poeti 
          Marchigiani Contemporanei. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo 
          Dopo le orde dei numeri (N.C.E., 1991), Il guerriero 
          fantasioso (Clueb, 1993), Apologia del perdente 
          (Guaraldi, 1995). Torna all'inizio
 Due poesie di Fabrizio 
          Centofanti poetica cinetica dicono che il suono dell'arpa
 sia segno di poesia, ma in altre corde,
 che turbano il sonno di mezzanotti fonde,
 oscurità dormienti di tormenti legati
 a respiri, a incanti, il poeta si riposa,
 come protesta contro la lira stanca,
 l'arpa che sbanca nei divani
 di trepide signore, le teste appesantite
 da millenni di biscotti in polvere.
 
 terre emerse
 sognare è sapere, dicevi, per questo
 dormire è cambiare, vedere fanali improvvisi,
 su strade d'azzurro. il palazzo ha un giardino
 di pietra, cancelli melodici chiudono
 ritmicamente la via.
 sapere, trovare il guardiano che grida
 da porte di ghiaccio.
 è solo la luce, pensavi, che fende,
 che scricchiola piano, la tenebra
 il tutto che illumina,
 invano.
 
 Fabrizio 
          Centofanti è laureato in Lettere moderne con una tesi su 
          Italo Calvino. Sacerdote diocesano a Roma dal 1996, opera soprattutto 
          nel campo della spiritualità e dell'approfondimento della Sacra 
          Scrittura. Ha pubblicato due volumi su Calvino e Rebora, oltre a numerosi 
          saggi e articoli di natura letteraria. Nel 2005 è uscito il volumetto 
          Le 
          parole della felicità (Laurus Robuffo). Torna all'inizio   Frammenti del Riccardo 
          III di Shakespeare  tradotti da Massimo 
          Sannelli GLOUCESTER Oggi l’inverno del nostro scontentodiventa gloria nel sole di York.
 Le nubi che oscuravano la Casa
 stanno, morte, nel seno dell’oceano.
 Ecco alle tempie i segni del trionfo,
 e le armi trasformate in ornamenti,
 e i nostri allarmi tetri in dolci incontri,
 le brutte marce in danze di piacere.
 Ora il dio Marte rilassa lo sguardo;
 perché non vola sui cavalli ornati
 per atterrire l’altra schiera, e ora
 si atteggia piano in camere di donna:
 Marte asseconda qui il liuto lascivo.
 Ma io non sono nato per gli svaghi
 né per servire lo specchio amoroso.
 Mi ha fatto un rude stampo; senza grazia
 che vada dietro ai fianchi di una ninfa,
 io che non ho la bella simmetria
 e in cui Natura ha fabbricato l’uomo
 al contrario, deforme e non finito,
 mandato dentro il mondo che respira
 con mezzo corpo appena, cosa storpia
 odiata anche dai cani – benché cane.
 Nel tempo della pace effeminata
 la mia sola delizia è la mia ombra:
 perché ne osservo la deformità.
 Poiché non sarò mai il buon amante
 che sa parlare con i giorni miti,
 io decido di agire da cattivo,
 per l’odio contro l’ozio del bel tempo.
 E ho tramato intrighi e altri pericoli
 piegando profezie, calunnie e sogni:
 tra re Edoardo e Clarence mio fratello
 dovrà nascere l’odio; e se Edoardo
 è buono e giusto quanto io sottile
 e traditore e falso, oggi Clarence
 entrerà in una cella: è stato scritto
 che un certo “G.” ucciderà gli eredi
 di re Edoardo. Giù, pensieri, giù!
 Fino all’anima, giù! Arriva Clarence.
 
 
 GLOUCESTER
 Non può vivere. E non deve morire,prima che George non sia volato al Cielo.
 Andrò da lui, per eccitarlo ancora,
 in odio contro Clarence, con calunnie
 fasciate bene di argomenti seri.
 Se l’idea riuscirà, a Clarence resta
 solo un giorno di luce; e il giorno dopo
 il Dio pietoso accolga re Edoardo,
 e lasci a me la fatica del mondo.
 Voglio anche sposare l’ultima figlia
 di Warwick. Importa che abbia ucciso
 io suo marito e suo padre? Per farmi
 scusare le sarò marito, e padre.
 Voglio questo: senza l’amore vero
 e per un altro fine, che io raggiungo
 con questa unione… Ora corro troppo!
 Clarence respira ancora e il re è re:
 ma, appena andati, conterò il mio avere.
 ANNA
 Lasciate l’alto carico(se una gloria può stare
 racchiusa nel sudario).
 Lasciatelo! Io dirò
 il lamento del santo
 Làncaster, morto presto.
 Povera Forma nuda
 del re sacro, grigia ombra
 della Casa di Làncaster,
 reliquia senza sangue
 del sangue del mio re:
 sia giusto che io chiami
 la tua anima, io povera
 Anna, che fu la sposa
 di Edoardo, ucciso,
 che fu tuo figlio, ed una
 sola mano vi perde.
 Nelle stesse finestre
 da cui uscì la vita
 cola il balsamo vano
 dei miei poveri occhi.
 Maledetta la mano
 che fece questi tagli;
 maledetto lo spirito
 che volle osare tanto;
 maledetto ogni sangue
 che sparse questo sangue.
 Sopra l’odiato autore
 della tua morte, cada
 una sorte peggiore
 di quella che io voglio
 per i serpenti e i ragni,
 i rospi ed ogni cosa
 velenosa che vive.
 Suo figlio sia un osceno
 aborto innaturale,
 e distrugga ogni grazia
 a sua madre, e sia erede
 della stessa rovina.
 Sua moglie sia distrutta
 dalla morte di lui:
 più distrutta di me
 tra il mio re e il mio signore.
 E ora andiamo a Chertsey
 insieme al sacro carico
 che viene da San Paolo,
 e lì sia seppellito.
 Fermatevi, se il peso
 vi ha stancati: mentre
 su questo corpo io piango.
 
 
 IL FANTASMA DI ANNA
 Riccardo, la tua sposa,la disgraziata Anna,
 la tua sposa non ebbe
 con te una sola ora
 di pace: e colma ora
 di mostri il tuo riposo.
 In battaglia, domani
 pensa a me, sii senza
 la tua inutile spada,
 dispera, muori!
 E tu
 anima quieta, Richmond,
 dormi sereno, sogna
 il successo e il trionfo:
 per te la moglie del nemico prega.
 
 
 GLOUCESTER
 Datemi un altro cavallo! curatemi!Gesù, pietà di me… No, era un sogno.
 La fiamma brucia, è blu. La notte è piena.
 Sulla carne che trema sudo freddo.
 E ho paura? Paura di me?
 Sono solo. E Riccardo ama Riccardo:
 io sono io. C’è un assassino? No.
 Sì: io. Allora fuggi. Da me stesso?
 La vendetta è migliore? Io su di me?
 Ma io mi amo. Perché? Per qualche bene
 che io mi sono dato? Veramente
 odio me stesso per i delitti e l’odio.
 Sono un uomo cattivo. Non è vero!
 Parla bene di te, pazzo; e, da pazzo,
 non ti gonfiare. La coscienza ha mille
 lingue, ogni lingua ha una storia diversa,
 ogni storia mi chiama criminale.
 Il giuramento rotto e l’omicidio
 più crudo, ogni peccato in ogni grado,
 vanno alla sbarra e gridano: «colpevole,
 colpevole». Da ora in poi non spero nulla.
 Non ho l’amore di nessuna anima,
 né la pietà del cuore, se muoio oggi.
 E mi è dovuta? Io stesso non la trovo,
 qui in me. Prima, sembrava che ogni anima
 di ogni ucciso fosse in questa tenda:
 giuravano vendetta, sul sangue di Riccardo.
 
 Massimo Sannelli 
          (qui sopra con Chiara Daino in uno spettacolo su Emily Dickinson) 
          vive e lavora a Genova. Scrittore, traduttore e critico, è in 
          uscita il suo Philologia 
          Pauli. Il corpo e le ceneri di Pasolini, con una prefazione di Gian 
          Ruggero Manzoni e l'aggiunta di un poemetto-improvviso. La traduzione 
          di frammenti di "The Tragedy of Kink Richard the Third" di 
          Shakespeare è stata commissionata dall'attrice-autrice Chiara 
          Daino e dal regista e attore Roberto Bobbio, per uno spettacolo nell'autunno 
          2006. I suoi siti personali sono www.microcritica.splinder.com 
          e www.sequenze.splinder.com 
         Torna all'inzio Mistica fedeltà 
          vs idolatria dell'istante (omelia, cattedrale di Prato) di Bernardo Francesco 
          M. Gianni Luce gloriosa della gloria santa del Padre immortale, 
          celeste, santo, beato, o Cristo Gesù!Giunti al tramonto del sole, scorgendo la luce della sera, cantiamo 
          il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, Dio.
 Tu sei degno in ogni tempo di essere celebrato da voci sante. Figlio 
          di Dio, che doni la vita, per questo il mondo ti dà gloria!
 Carissimi e carissimi dell’amata chiesa che è 
          in Prato,In quest’ora vespertina che è di incontenibile emozione 
          per il mio cuore, non ho altra ricchezza da offrirvi che questa sublime 
          e antichissima glorificazione della divina trinità che proprio 
          24 ore fa, al calar del sole, nella cattedrale di Firenze, il patriarca 
          ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I cantava nella mirabile liturgia 
          bizantina dei vespri.
 Vorrei far iniziare da questa lode donataci dalla tradizione orientale 
          il mio ringraziamento (la mia eucaristia) al Signore e a tutte le membra 
          della Chiesa di Prato, a iniziare dal suo venerabile e sapiente Padre, 
          l’amatissimo Vescovo Gastone che mi onora di questa immeritata 
          accoglienza qui, presso la Sua autorevole ed ascoltata cattedra episcopale, 
          qui presso le spoglie venerate del Suo predecessore il mai dimenticato 
          Vescovo Pietro, qui in questa stupenda basilica cattedrale che, custodendo 
          da secoli la veneratissima Sacra Cingola della Beata Vergine, appartiene 
          non solo alla gente di Prato ma anche alla chiesa intera, anzi vorrei 
          dire a tutte le diverse chiese, e in specie proprio alle chiese orientali, 
          le chiese della comunione ortodossa così devote di Maria Santissima 
          Madre di Dio.
 Sono profondamente grato alle diverse, tantissime membra della chiesa 
          pratese per la fervida intercessione con cui tutti voi, in parrocchie, 
          in comunità religiose, in tante famiglie, avete accompagnato 
          e sostenuto me e il mio confratello don Stefano in questo recentissimo 
          dono di immensa grazia che è il nostro ministero ordinato, dono 
          che è grande responsabilità sia verso il Vangelo di Cristo 
          sia verso tutto il popolo di Dio e come tale: responsabilità 
          bisognosa di essere assunta con il sostegno misterioso ed efficace della 
          preghiera di tutti coloro che – come voi – hanno a cuore 
          il vero bene della chiesa e della credibilità della sua testimonianza 
          di amore di fede e di speranza nel nostro mondo
 Con risoluta e umile dedizione vorremmo infatti contribuire ad una abbondante 
          fecondità di frutti nella vigna che il Signore ci ha voluto affidare. 
          In questo senso ognuno di noi ha ascoltato oggi una parola assai impegnativa 
          ma anche consolante da parte del Vangelo di Giovanni. Nella tradizione 
          dei profeti la vigna era infatti la suggestiva immagine con cui si evocava 
          il popolo d’Israele; un popolo però che tradendo la parola 
          di Dio e dedicandosi all’idolatria lasciava morire i vitigni genuini 
          donati dal Signore per trasformarsi in tralci degeneri di vigna bastarda, 
          come con severa enfasi accusava il suo popolo il profeta Geremia. Fratelli 
          e sorelle ci sia di grande consolazione sapere che questa vigna è 
          divenuta lo stesso Signore Gesù: egli è la radice vitale, 
          fedele e immortale di questo nuovo popolo, di questo nuovo Israele, 
          di questa nuova vigna che è la chiesa: non tuttavia per questa 
          gratuità di amore non dobbiamo sentire interpellate la nostra 
          libertà e la nostra responsabilità: vi è infatti 
          una decisiva condizione per fruttificare in questa nuova vigna: saremo 
          tralci capaci di portare frutto se rimarremo in Gesù: rimanere 
          è un mirabile verbo molto caro a Giovanni, il discepolo prediletto: 
          questo verbo bene esprime la perseveranza e la dedizione fiduciosa e 
          del discepolo che non vuole mai scostarsi dal petto ardente del Suo 
          maestro e al contempo l’amorosa fedeltà del nostro Signore 
          Gesù che con piena reciprocità ci dice che “chi 
          rimane in me e io in lui fa molto frutto”.
 Dopo molti secoli sono certamente cambiate le idolatrie che tanto facevano 
          arrabbiare i profeti e tanto rattristavano il Signore Iddio: “rimanere 
          in Gesù” , un verbo che esprime una mistica fedeltà 
          che dobbiamo assumere nella nostra vita quotidiana, è un impegno 
          che ci deve vaccinare da altre seducenti idolatrie: giusto pochi giorni 
          in un importante quotidiano nazionale il filosofo francese Marc Augé 
          metteva in guardia dalle cosiddetta dittatura dell’incerto presente, 
          questa sorta di idolatria dell’istante, del presente, del contingente. 
          Essa sgretola due dimensioni fondamentali del cuore credente, la memoria 
          e la speranza, che sole aprono all’eternità, al gusto, 
          alla passione, alla fatica di aprire il cuore all’eternità, 
          un cuore memore dei benefici ricevuti e aperto alla speranza di un futuro 
          pienamente in Cristo.
 Rimanere in Gesù significa dunque educare il cuore a passioni 
          e a desideri che assomigliando al Signore e alla sua parole hanno in 
          sé il gusto e l’esigenza dell’eternità, una 
          eternità beninteso che non si astrae mai dalla nostra storia 
          ma nella verità si fa carità operosa e concreta: abbiamo 
          infatti ascoltato dalla prima lettera di Giovanni questa bellissima 
          esortazione che deve diventare la specialità di ogni credente: 
          figlioli non amiamo a parole, né con la lingua, ma coi fatti 
          e nella verità: la verità che è la Rivelazione 
          dell’amore del Padre che viene narrato dal Signore Gesù, 
          i fatti che sono quella capacità permanente , austera e perseverante 
          di rimanere fedeli , di rimanere costantemente vicino alle esigenze 
          forti di amore, perdono e riconciliazione che sono proprie del Vangelo.
 Questa logica non è la logica del mondo: non a caso il Vangelo 
          ci ricorda che per amore il Vignaiuolo pota non solo i tralci che non 
          fanno frutto, ma anche quelli che fruttificano perché possano 
          fruttificare ancora di più. Questa è la logica paradossale 
          del Vangelo di Cristo, ma potremmo dire di più: dell’intero 
          mistero pasquale , paradosso di una morte su di un legno secco e severo 
          che è la croce ma che in forza dell’obbedienza misteriosa 
          del Figlio e dell’amore del Padre diventa albero fruttifero di 
          vita nuova.
 Il grande scrittore francese Léon Bloy sintetizzava con efficacia 
          questo paradosso: “O Cristo che preghi per quelli che ti crocifiggono 
          e crocifiggi coloro che ti amano.”
 Fratelli e sorelli sappiate sempre, nell’ora oscura della sofferenza, 
          quando i vostri cuori conoscono soltanto la lama della cesoia, che l’amore 
          fedele del Padre non mancherà di trasformare in fecondità 
          l’apparente sterilità del vostro dolore: coi vostri patimenti 
          completate ciò che manca alla sofferenza di Cristo e con la vostra 
          fede paziente e perseverante educate il vostro prossimo a rimanere in 
          Cristo, ad attendere con lui e da lui frutti di una nuova primavera 
          di risurrezione, dopo essere stati uniti alla morte di Cristo stesso, 
          nell’inverno di questo mondo e del tempo presente, come con grande 
          suggestione scriveva Origene.
 Del resto ci conforti la stessa paradossalità che ritroviamo 
          nel brano degli Atti degli apostoli: Paolo corre il rischio di essere 
          ucciso dagli ebrei che lui voleva convertire e tuttavia subito dopo 
          l’apostolo Luca osa scrivere che la chiesa era in pace per tutta 
          la Giudea, essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del 
          conforto dello spirito santo. Lasciamo dunque dilatare dallo spirito 
          santo il nostro cuore sovente incerto, dubbioso e pauroso, tante volte 
          ragionevolmente sofferente eppure capace ancora di lasciarsi stupire 
          dalla fedeltà di Gesù, dalla sua presenza che è 
          radice vitale ed efficace di frutti stupefacenti di vita nuova, di perdono, 
          di amore.
 Ve lo posso testimoniare giungendo oggi da quel piccolo laboratorio 
          di speranza che è ogni piccola comunità monastica, scuola 
          di carità, di riconciliazione, di perdono, di conversione.
 Dalle finestre del mio monastero, dalle grandi porte della nostra basilica 
          ogni giorno non posso non volgere lo sguardo sulla pianura che si distende 
          ai piedi della collina: so che là tutti voi vivete, tutta la 
          nostra città di Prato si lascia abbracciare dalla terrazza di 
          San Miniato, e sono ad assicurarvi e in primo luogo ad assicurare il 
          padre vescovo Gastone che ogni sera guardando il sole che tramonta oltre 
          le colline del monte albano, scorgendo le ombre della sera, invoco per 
          tutti voi un nuovo oriente, una rinnovata luce di vita nuova, quella 
          che solo ci sa donare il nostro Signore Gesù, radice verace, 
          feconda e vitale di tutta la storia dell’uomo. Amen
 
 Bernardo Francesco 
          M. Gianni è nato a firenze il 28-xi-68. Laureato in Lettere 
          antiche su un testo umanistico di Coluccio Salutati, entra in monastero 
          nel 1996, a San Miniato al Monte. È monaco benedettino olivetano, 
          professo perpetuo dal 2001, "prete" dal 2006. Per contatti: 
          Abbazia di San Miniato al Monte
 Le Porte Sante, 34 – 50125 Firenze
 tel. 055.234.27.31 - fax 055.234.53.54 - mail: sanminiato@tin.it
 Torna all'inizio In una rete di linee che 
          s’intersecano: La simmetria imperfetta  di Luigi Metropoli Il prisma scompone la luce, ne restituisce colori fulgidi, 
          abbaglianti densità cromatiche che accarezzano la materia, rivelandone 
          inaspettati particolari, sorprendenti trompe l’oeil.Johan Thor 
          Johansson non è Alessandro Ramberti, ne è solo la 
          proiezione fantastica, l’imperfetta simmetria dell’uomo. 
          È il suo trompe l’oeil, la mistificazione che aleggia con 
          la fantasia.
 Johan Thor Johansson mostra un mondo in cui l’inverosimile (con 
          la sua portata rivelatoria) è un aspetto piuttosto consueto del 
          reale, ne è la prospettiva più autentica (inautentica?), 
          quella che si avvicina al vero (al falso?). Così i giochi prospettici 
          e i rovesciamenti evidenziano le sfaccettature segrete delle cose nonché 
          i recessi più remoti di noi stessi (Johan Johansson è 
          Alessandro Ramberti nella sua realtà parallela, forse il prodotto 
          di un’allucinazione davanti allo specchio).
 Il protagonista della storia è egli stesso uno che cerca (“ein 
          Suchende”, potremmo dire, per entrare immediatamente in area germanica), 
          all'interno del suo essere e agire, in relazione a ciò che accanto 
          a lui accade e a chi accanto a lui vive.
 Allora eccoci nel cuore del libro in cui specchi, labirinti si moltiplicano 
          all’infinito, rimandando a nessun altro che a se stessi: lasciano 
          scappar via il senso, quasi in una dimensione borgesiana e combinatoria 
          (La√ è il titolo speculare di alcuni capitoli 
          del libro), di letteratura al quadrato. Poi la grotta e la scalata impervia 
          di una montagna, tipici topoi romantici della letteratura tedesca, situazioni 
          da viandante goethiano verso lo Harz o di discesa nella profondità 
          della terra (ma leggiamo: anima), tipica di quegli straordinari poeti-scrittori 
          tra Weimar e Jena, nei quali misticismo e contemplazione misterico-alchemica 
          della natura si fondono (alcune atmosfere ricordano racconti come Der 
          Blonde Eckbert di Tieck, esperienze mistiche che rimandano alla 
          formazione “esoterica” di un novalisiano Heinrich von 
          Öfterdingen).
 In più risulta fortemente straniante l’ambientazione: l’Islanda, 
          che naturalmente riporta alla mente i Canti dell’Edda, 
          esplicitamente citati nel libro; con le sue divinità pagane, 
          le enigmatiche kenningar che muovono ad un senso altro delle cose; con 
          i suoi ghiacci che nascondono incandescenti fluidi magmatici (e affiora 
          alla mente Hebbel che riassume allo stesso modo, nei suoi diari, l'unicità 
          dell'Hekla, il vulcano di ghiaccio dell'isola).
 Tuttavia non è solo letterarietà quello che brilla ne 
          La simmetria 
          imperfetta, ma anche una serie di vicende ed esperienze alle quali 
          l'autore attinge e che fanno parte del vissuto del Ramberti uomo: l'avventura 
          giovanile di scout che lo hanno condotto ad un confronto con la natura 
          (scalate di rocce e escursioni per grotte), i viaggi per studi e ricerche: 
          letteratura e vita, anima ed esattezza.
 Ancora una volta, dunque, i riverberi della letteratura sulla vita e 
          i riflessi di quest'ultima sulla prima.
 Nell'intera vicenda si cala, senza il minimo contrasto, l’anima 
          profondamente cristiana dell’autore (ma chi dei due? Alessandro 
          o Johan?) ed emerge prepotentemente l’aspetto etico-religioso 
          di tutto il libro (ne siano testimonianza le citazioni di Confucio, 
          dal Paradise Regained di Milton, la carità 
          “paolina” che chiude il libro) tale da rendere la fiaba 
          una parabola morale.
 Nell'intreccio di una letteratura autenticamente naturale, popolare, 
          primitiva, ingenua (tanto per restare ad un romanticismo tedesco di 
          marca schilleriana) con la controparte ”sentimentale”, con 
          il massimo di artificio risiede la ragione dell'opera, così come 
          dall'incontro di una nordica tensione speculativa e di una mediterranea 
          genuinità religiosa germoglia l'orientamento etico che ne sottende 
          la funambolica architettura.
 Così tra il linguista islandese Johansson e il linguista mancato 
          Ramberti (per sua stessa ammissione: e si vedano a tale proposito gli 
          intarsi linguistici che popolano il racconto, anche a mo' di chiave 
          enigmistica dell'opera) si crea la sottile continuità, l'imperfetta 
          simmetria, dello scrittore-moralista che vede la letteratura come “etica 
          al quadrato”.
 
 Luigi Metropoli 
          è nato nel '79 in provincia di Salerno. È il più 
          tipico prodotto dell'italica 
          precarietà, specie in area meridionale: sta svolgendo uno 
          stage presso il proprio comune di residenza come collaboratore di un 
          assessorato, collabora con un consorzio sociale, all'occorrenza impartisce 
          lezioni private e, nel tempo libero, si tiene occupato con un dottorato 
          in italianistica, naturalmente senza borsa. Tutto nella massima indeterminazione 
          economica. Essendo, pertanto, fuggiti tutti gli dèi, i santi, 
          i protettori e i navigatori si autodefinisce agnostico, latouchiano, 
          utopista e cuoco. Ha solo tre attitudini: leggere poesie, vedere film 
          il più possibile introvabili e inguardabili (è un inguaribile 
          frequentatore dei notturni salotti ghezziani nei fuori-orario della 
          tv) e, in ultimo, bere vino (con conseguenti elucubrazioni sul prezioso 
          nettare, noiose e sfiancanti per i poveri malcapitati che ne subiscono 
          l'ascolto). Nessuna delle tre è utile alla propria vita lavorativa, 
          ma in compenso esercitano gravi ripercussioni sull'attività del 
          proprio fegato. Gestisce il blog www.vocativo.splinder.com, 
          collabora con il blog di (divulg)azione poetica LiberInVersi, 
          scrive astrusi articoli enologici per l'e-zine Collettivo Soda. 
          Per chi fosse interessato al suo curriculum la sua mail è fosfeni@hotmail.com 
          (il numero di cellulare non ve lo dà solo perché non è 
          in grado di parlare al telefono).  Torna all'inizio 
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