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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 52
Aprile 2004

Editoriale: Preghiere

Ci scrive Vincenzo Lombino: "non credo che esistano poesie o prose atee di alto livello… per scrivere si deve credere in qualcosa. Non importa che dio sia il nostro, quello mussulmano, o buddha, o semplicemente credere di essere dio o credere di aver visto dio in un vagabondo o un ladro o uno stupratore. In ogni caso si deve credere per fare arte."
Ecco allora in questo Faranews scritti che ci sembrano così intensi e vibranti da essere classificabili come preghiere (laiche o religiose, prosastiche o poetiche): Pare che tutto di Ardea Montebelli, La preghiera nell'Antico Testamento di Corrado Giamboni, Whale Song di Alessandro Ansuini, Preghiera (laica) dell'ospite di Michele Ruele, Dachau 2004 (Il ricordo dimenticato) di Drazan Gunjaca, Laudato diritto e rovescio di Paola Turroni, Caino di Andrea Parato, In mare, nel gommone - Oggi Chaplin di Clementina Sandra Ammendola, Per quali geometrie - Mare del Poema di Christian Sinicco, Undicizerotreduemilaquattro di Tahar Lamri. Ricordiamo i fantastici laboratori di scrittura a Riccione AgolantiLab. Segnaliamo infine alcuni siti interessanti. Buona Pasqua.

Pare che tutto

di Ardea Montebelli

Pare che tutto
si voglia nascondere
perché essere qui
richiama e respinge.

***

Mi conforta la Tua fedeltà
interminabile risposta
alla mia coscienza,
custode dei miei abbandoni
dei miei canti.

***

Ma dimmi per amore di chi
si placa nell'intimo il dolore?
C'è talvolta un incalzare
ma siamo lontani tutti
da noi stessi.

***

Per farti invecchiare
invoco gli angeli
uno per uno.

La grazia ora stende le ali
stranamente ci sollecita
mostra quanto si può essere felici
quanto feconda sia
questa nostra terra.

***

Sono le mie occasioni
una promessa
forse una sosta breve
per far pace con la terra.

***

Nell'assenza di Te
la mia preghiera
divora il silenzio.
In prossimità dell'assenza
tutto si rimanda.
Tu sei il bene
tutto il bene
un sentimento che permane
quando meno l'avverto.
Rotoli dentro le mie pene
cospargi il mio canto
e domandi
sì domandi ovunque la bellezza.

***

Ci sono altri luoghi
per rinnovarsi e per guarire.
Avvicinandosi al significato
in qualunque posto
tutto sarà bene.

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La preghiera nell'Antico Testamento
appunti su un incontro di don Giovanni Nicolini

di Corrado Giamboni

"Signore, insegnaci a pregare". La sera di mercoledì 3 marzo era questa l'invocazione che poteva venire alla mente di chi si fosse trovato nella chiesa di Sant'Antonio per partecipare all'incontro sulla Preghiera nell'Antico Testamento tenuto da don Giovanni Nicolini. La chiesa era piena, e parte della responsabilità era del relatore. Don Giovanni, mantovano di origine, è parroco a Bologna. In precedenza è stato vicario episcopale per la carità con il cardinale Biffi. Ha conosciuto Rossetti e Lanza del Vasto, e si presenta come un "vecchio" ma nessuno ci crede, sia per l'aspetto che per lo sguardo profondo e semplice, pronto a stupirsi.
La preghiera cristiana è la preghiera degli Ebrei – esordisce. E la preghiera di Gesù diventa l'enfasi suprema di questa straordinaria tradizione. Una tradizione, quella ebrea, che considera l'uomo come un'entità tarata, bisognosa e indegna, verso la quale però Dio si volge. Niente di più giusto allora che cominciare la preghiera quotidiana con le parole del Salmo: "O Dio, vieni a salvarmi". E se si prega insieme a qualcun altro l'invocazione si rinnova: "Signore, vieni presto in mio aiuto".
La preghiera vera è preghiera del povero, non può essere altro che questo, continua don Giovanni, perché l'uomo è povero ed è in sostanza incapace di pregare.
Però attenzione, tutte le religioni più importanti vanno nella direzione contraria a questa: in esse è l'uomo che tenta di purificarsi e di innalzarsi verso Dio, la sua preghiera è soprattutto una lotta con se stessi e con i propri limiti, e la possibilità di pregare diventa un merito, una capacità che si raggiunge a caro prezzo al termine di un lungo perfezionamento. Si pensi per esempio ai percorsi ascetici delle discipline orientali. L'Ebraismo invece, e con esso il Cristianesimo, vede Dio venire all'uomo, e quanto più l'uomo si rende indegno, tanto più Dio impara a scendere per poterlo prendere, salvare. L'intera Bibbia può essere letta come la storia di un Dio che va a cercare la sua creatura, e che "impara" ad andare sempre più in basso per raccoglierla. Questa particolarità di un Dio che si piega in giù, di per sé già atipica nel quadro delle religioni, nel Cristianesimo assume il paradosso, lo scandalo di un Dio-uomo che storicamente si incarna e viene ucciso in un modo infamante, e ciò fa del Cristianesimo non più una religione, ma essenzialmente "un fatto".
Ma dobbiamo tornare agli Ebrei prima di poter parlare dei Cristiani. L'uomo per gli Ebrei è povera cosa, è memore di una perdita, di una caduta che ha compromesso per sempre un'armonia iniziale, e importantissima per gli Ebrei è l'esperienza della vita terrena, mentre quella ultraterrena è ammantata di una forte malinconia. Nella vita terrena poi, fondamentale è la compagnia con i propri simili. L'essere umano nell'antropologia ebraica è veramente se stesso e conosce veramente se stesso soltanto quando entra in relazione con un altro essere umano, perché ogni uomo ha in sé il proprio principio di perfezione e lo può sviluppare solo in un rapporto. Attenzione, qui dobbiamo fare i conti però con un'altra antropologia, quella greca. Noi culturalmente siamo in buona parte greci. E i grandi filosofi greci praticavano ed esaltavano la solitudine come punto di arrivo. Noi ci troviamo un po' a metà tra queste due eredità, quella greca e quella ebraica, anzi, si potrebbe dire parafrasando la frase di un papa all'inizio delle persecuzioni naziste e fasciste, che spiritualmente siamo ebrei. Però culturalmente siamo greci. E questo ci causa qualche problema.
Dunque la preghiera sarebbe il percorso discendente di un Dio che ci salva, perché questo uomo minuscolo non sarebbe capace di un iter verticale. È una logica quanto meno paradossale, e forse anche irritante per chi è abituato a calcolare i risultati in base ai meriti. Ma è la logica che Dio si è scelto, e che trova molte conferme nelle Scritture a partire dalla parabola della pecora smarrita. Questa parabola rappresenta un'applicazione di una logica di non facile comprensione, cominciando dalla domanda retorica iniziale. Le domande retoriche sono quelle che avrebbero già la risposta scontata, e infatti questa fa: "Chi di voi, avendo perduto la centesima pecora, non uscirà fuori a cercarla?" Verrebbe da rispondere: nessuno, visto che ne abbiamo già novantanove al riparo, e quella che si è persa ha le sue responsabilità se è nei guai. Invece Dio non si dà pace, come non si dà pace il padre di quell'altra parabola, che ha il figlio smarrito, "prodigo", e questo per sua scelta esplicita.
È un po' come se Dio si colpevolizzasse per aver perso lui la pecora o il figlio prodigo, è come se non fosse stato capace lui di tenerli vicini a sé – don Giovanni si scusa per l'ardire.
Ma è questa la struttura portante della nostra fede: Dio che ci viene a cercare e a salvare perché da soli non ne siamo capaci. Divina condiscendenza chiamano i Padri della Chiesa questo mistero. Persino nel sepolcro Dio non sta fermo per le sue creature: Cristo appena ucciso discende agli Inferi e viene a cercarci fin dentro la nostra morte, giù giù fino ad Adamo ed Eva.
La passione di Cristo esprime in modo adeguato la passione di Dio per l'uomo. Il nostro amore verso di lui in confronto fa ridere, noi siamo capaci solamente di risposte inadeguate, estremamente fragili.
La preghiera dunque è la visita che Dio mi fa, è l'appuntamento che lui mi fissa. Il mio grido dal profondo "de profundis", non rimane inascoltato da Dio. L'incontro avviene nei bassifondi dell'uomo e non in alto, perché in alto l'uomo non ci va, e più crede di andarci meno sale. Lo scacco in cui siamo è totale. Chi non lo avverte è come il fariseo che prega orgoglioso, mentre chi lo avverte non può che sentirsi piccolo, indegno, e dire: sono un peccatore.
Non è: siccome io mi converto lui mi ama. Ma è: siccome lui mi ama, forse potrò convertirmi.
E il dono all'uomo è così totale che per la preghiera Dio ci dona anche le parole, che poi gli restituiamo, proprio come fanno i bambini con la parola papà o mamma, che imparano a pronunciare a poco a poco. E la pronuncia di qualsiasi parola è sempre personale, è sempre l'espressione di un'individualità, e diventa la preghiera di ciascuno.
Al termine di questo incontro piuttosto spiazzante, il primo fra tre - i prossimi si terranno mercoledì 10 e mercoledì 17 marzo sempre nella chiesa di S. Antonio ˆ don Giovanni ci regala una frase di S. Ambrogio: il mondo dei peccatori è migliore di quello dei giusti, perché costringe Dio alla misericordia.

"Io ho quasi 64 anni, e sono stati 64 anni da gran signore, di regali da parte di Dio, ma anche di delusioni sue da parte mia, perché io non sono migliorato. Lui invece sì. Si può dire che Dio è migliorato? Sì, se ha saputo adeguarsi ogni volta a me. Dio deve imparare ogni volta come fare. Adesso mi sembra di volergli più bene, io mi trovo bene con Lui, anche se ha un carattere difficile, è un iperteso, ma anch'io lo sono."
Il secondo incontro sulla preghiera con don Giovanni, con questo amico di Dio, si è svolto nella chiesa, piena, di Sant'Antonio. Don Giovanni, come completando una sua riflessione, dice iniziando che di fronte ad una così evidente fame e sete della parola di Dio non bisogna cadere nell'insidia di un accaparramento professorale. Per questo stasera non gli dispiacerebbe essere interrotto da qualche intervento…
Poi comincia, parlando di una figura molto importante nel Vecchio Testamento, e anche molto simpatica a Cristo: Giona. Il profeta Giona è un disobbediente: appena Dio gli dà le indicazioni sul luogo dove dovrà andare, cioè verso la città di Ninive, lui scappa dalla parte opposta. Il racconto di Giona, che occupa solamente tre pagine e mezzo nell'intera Bibbia, è tuttavia uno dei più conosciuti. A volte non è questione di quantità. Forse perché Giona è molto "umano", è molto vicino a noi. Quante volte siamo stati invidiosi del bene degli altri? Quante volte ci ha esasperato il male, soprattutto quello altrui? Giona è uno che mostra un estremo disappunto davanti al perdono "eccessivo" di Dio per gli abitanti di Ninive. Al punto che chiede a Dio di morire piuttosto che farlo assistere ad uno spettacolo simile: gli abitanti di Ninive tutti perdonati! Ma il racconto di Giona è soprattutto didattico e ci vuole insegnare che la misericordia di Dio è diversa dalla nostra. Dio dialoga con Giona, cerca di farlo ragionare, di renderlo meno duro. E' un racconto didattico, denso, non privo di ironia.
Don Giovanni ci mette però in guardia: attenzione ad equivocare sull'annuncio della misericordia di Dio, essa non significa che Dio è di manica larga e che perdona con leggerezza. Poi cerca di spiegarsi meglio. Giona, proprio perché così dispiaciuto dell'eccessiva misericordia di Dio, ci ricorda indirettamente che in quella misericordia c'è il Suo sangue, c'è il Suo dolore ogni volta rinnovato. Ecco, la misericordia di Dio è infinita, ma infinito è anche il Suo amore, e forse anche il Suo dolore a causa nostra, e qui siamo in pieno dentro ad un mistero. Noi liberti, noi schiavi liberati.
Forse Giona ha cercato di fuggire dalla misericordia divina perché questa gli poteva venire richiesta a sua volta. Ed essere misericordiosi vuol dire anche saper morire per amore.
Dio ha bisogno di noi - quasi viene fuori dal racconto di Giona che noi siamo il Suo riparo, così come la piantina di ricino lo è stata per Giona, che senza quell'ombra si sente morire – e per noi Dio si sa sacrificare totalmente, non si tira indietro. Prendere parte alla salvezza è anche in questo diventare come Lui. La vita cristiana è comunque una vita da gran signori, nel senso che abbiamo ricevuto un patrimonio enorme, ed ora abbiamo il problema di come spenderlo. Un po' come una vincita, una grossa vincita.
Ricordiamolo: il Signore è buono e ci vuole bene. Amore è il nome di Dio. Ma più spesso l'immagine di Dio viene associata a quella di un giudice. Il che è anche vero, ma il suo criterio è particolare, difficilmente risulta essere il nostro, e si chiama misericordia. È un atteggiamento che forse più di tutti possono conoscere i genitori nei confronti dei loro figli, un atteggiamento complesso, che presuppone sempre e comunque una grande partecipazione, un amore anche al di là di sé. La differenza fra la giustizia umana e quella divina è che la prima è vendicativa, la seconda salvifica.
Poi don Giovanni passa a quello che aveva programmato per stasera, la lettura del Salmo 106, con i suoi continui riferimenti alla misericordia di Dio che risponde all'angoscia di chi lo chiama. Solo che si è fatto tardi, Giobbe ci ha portato via tutto ilo tempo. Ma gliene siamo grati comunque.

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Whale Song

di Alessandro Ansuini

"Per me è una splendida preghiera atea… una preghiera contro la società, la guerra, una preghiera sulla sofferenza del poeta" (Vincenzo Lombino)


Gestisci i miei denti con cura, madre gestazionale senza orologi, fa che la notte non stridano levigandosi l'un l'altro, tu che hai composto la parola che diede unicità alla carne, lascia che i miei occhi si impossessino di una fede, che non sia la tua, che non mi costringa a chiedere perdono ogni volta che a oltranza la disubbidirò, e stendi una luce leggera e calma e distante su tutta questa paura.
Come il canto di una balena.
Covami, e redimi questi mani, sono composto di quattordici abiure e un barattolo di colla, il mio nome è scritto nelle venature di un nocciolo di pesca, il mio cuore ha il dente dell'uovo per uscire dal tuo guscio, rimetti a me le ottanta balene arenate su una costa della Nuova Zelanda, fa che una contrattazione di borsa mi commuova come lo sguardo di sedicimila cuccioli, toglimi la curiosità dagli occhi, allevami e rendimi saturo, e della Via Lattea unisci i puntini, e trai la sagoma di un nuovo animale, che non sia capace d'aggregarsi, che non sappia guardare in alto verso quella casalinga del cielo sofferente d'anemia mediterranea, toglici gli arti, e in una fossa scavata dentro il cranio di un filosofo ammassaci, come una nidiata di serpenti, e lasciaci incapaci di pensare quel tanto che basta per farci capire che pensare non serve, a svelarci o trascendere.
Stendi una luce leggera e calma e distante come il canto di una balena, su tutta questa paura e adesso.

http://ansuiniracconti.splinder.it/

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Preghiera (laica) dell'ospite

di Michele Ruele

Ospite mio, mio vicino, amico,
dàmmi acqua e pane
un vino buono e coperte per la notte
fammi sentire concluso il mio viaggio anche se domani ripartirò
anche se ripartirò invogliami a fermarmi
compagno, sodale, prossimo
insegnami tre parole della tua lingua
dimmi come la tua civiltà tratta gli animali
in che conto tenete la fantasia e l’arte
cosa sono per voi il presagio del futuro
l’indecidibilità
il sentimento dell’ignoto
l’enigma
con quali scelte forzate i vincoli del destino
alleato, mio caro, fratello
raccontami come hai conosciuto tua moglie, dove sono i tuoi amori,
che cosa sperano i tuoi figli
che cosa sono per te stupore e meraviglia
che cosa sai fare con le mani, che cosa vale per te l’intelligenza
di che cosa hai paura, come curi il tuo corpo
da dove provengono i tuoi diavoli e i tuoi dei
affine, uomo amabile, mio simile
donami anche tre piccole cose materiali
donami caffè appena fatto quando arriverò e quando partirò.

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DACHAU 2004 (Il ricordo dimenticato)

di Drazan Gunjaca

Ogni tanto maledico il giorno in cui ho iniziato a scrivere. La scrittura mi ha avvicinato a tante tragedie altrui che qualche volta vorrei, è più che umano, non aver mai sentito, incontrato o visto. Faccio sempre più fatica a far fronte ai miei ricordi, e col tempo si accumulano anche quelli degli altri. Una persona si abitua a tutto fuorché alle tragedie. Non è possibile abituarsi, puoi solamente sopportarle o fuggire, se ne hai la possibilità. Comunque sia, una volta che la guardi in faccia devi scegliere tra le due facce della realtà. Tra uomo e "uomo". Il buon vecchio S. Isakov, prima del suo ultimo viaggio, malato e vecchio com’era, decise di visitare Dachau ancora una volta. Di scrivere le impressioni con mano tremante, a lettere grandi, perché la sua vista è sempre peggio…

“Caro amico,
Una mattinata fredda e triste a Monaco di Baviera. Sto aspettando il taxi. Finalmente arriva e ne esce un giovane cercando con gli occhi il mio bagaglio. Non ho niente oltre a questo po' di anima che mi rimane. Per fortuna, lui non li vede, i resti dell’anima. Gli dico in tedesco di portarmi a Dachau. Mi guarda un po' perplesso ma senza fare commenti. Non dice niente. Guardo i campi prima di arrivare a Dachau, macchiati di bianco dalla neve che si sta sciogliendo. Appaiono così innocenti. Quegli stessi campi sui quali per giorni, mesi e anni si accumulava la cenere del vicino crematorio. La neve in quegli anni non era bianca, per quanto cadesse fitta. Sovvengono i ricordi. Vedo una striscia di fumo che si innalza verso il cielo portando con sé migliaia di Eveline, Natase, Ane, Radmile… Le nuvole avevano un colore grigio uniforme particolare, senza sfumature, non ho mai più visto niente di simile. Anche quando c’era bel tempo stavano lì, tra noi ed il cielo, tinte di questo colore strano. Il colore del fumo. Anche la pioggia era grigia. Cadeva sull’erba, bagnava i fiori campestri intorno al campo di concentramento… E nelle sue gocce restituiva le Eveline e le Natase… In quei campi bagnati si sono sposate con la terra… per la cerimonia cantavano gli uccelli, e i topi e le formiche preparavano per loro le prime notti…
Anche oggi, dopo tanti decenni, c’è una leggera brezza che passa sopra quei campi, canticchiando poesie mai cantate, disturbando questo silenzio sacro. Non ci sono più quelle urla terribili… Solo l’eco nella mia testa. Faccio sempre più fatica a distinguere i suoni. Quelli dall’esterno da quelli che ho dentro.
Sto d’avanti al portone del campo di concentramento. Chiuso. Non ci sono più le guardie. C’è ancora il filo spinato, con le torrette per le sentinelle vuote. Pago il taxi. Il giovane prende il denaro e si allontana in fretta, turbato. Perché? Di cosa ha paura? Aspetto l’orario di apertura, alle 10. Arriva una vecchia Opel rossa dalla quale esce un uomo che mi guarda come se fossi arrivato da un altro pianeta. I suoi occhi chiedono cosa sto facendo qui. Ritorno alla prima gioventù, gli spiego. Non mi capisce. O almeno non dimostra di capire. Scuoto le spalle ed entro lentamente nell’edificio principale del museo. Deserto. Solo enormi fotografie appese ai muri piene di uniformi a righe e sguardi spenti… Gente senza nome né cognome. Gente coi numeri.
“Il mondo è perfido e triste” mi romba in testa Nabukov. Cammino da solo nelle sale deserte dell’ex campo di concentramento. Ex? Non resisto. Conati di vomito. La vecchiaia non riesce a sopportare troppi ricordi tutti in una volta. Esco in fretta. Il più veloce possibile. Fuori, un passerotto mi guarda da una zolla d’erba ingiallita. Mi fissa. Mi sta aspettando? Come se volesse dirmi qualcosa. Mio Dio, lo spirito di chi si trova in quel corpicino? Forse di Anna Frank? Forse sta volando di campo in campo in cerca dell’infanzia rubata… Dev’essere il suo spirito, così piccolo, non protetto e innocente. Gli occhi spalancati. Così guardano solo i bambini. Le cose belle e quelle brutte. Mi avvicino. Non ha paura. Gli siedo accanto ed inizio a parlare. A lei. Tutto quello che è successo da quando me ne sono andato da qui. Tante cose e niente. In effetti, molto. Troppe cose brutte e qualche buona. Cerco di ricordare le cose buone e di raccontargliele. Non ci riesco. Qualcun altro dentro di me le sta dicendo che anche oggi si uccidono i bambini. In tutto il mondo vanno incontro alla morte a cuore aperti. Anche peggio. Persino i bambini hanno iniziato a uccidere. In nome di quelli che hanno bisogno di campi di concentramento, ghetti, muri, isolamenti…
Passeggio per il viale dei vecchi pioppi che portano ancora i chiodi arruginiti ai quali impiccavano la gente... L’uomo riesce a convincere anche i pioppi a ricordare, ma non sé stesso. Si è preso il diritto di dimenticare. E lo usa in modo selettivo. Il metodo della minor resistenza. Quel metodo tanto amato dai grandi leader.
A cosa serve Dachau oggi? Non ci va più nessuno. Il ricordo dura finché c’è coscienza. Dachau è stata dimenticata. Sta morendo anch'essa. Sta scomparendo dalla realtà. La incontri ogni tanto in qualche libro di storia che capisci sempre più difficilmente. Forse riprenderà a vivere. Forse proprio in questo momento qualche leader ci sta pensando in qualche birreria… Forse le nevi di nuovo non saranno più bianche. Quando dimentichi, tutto diventa possibile, non è vero?
Quello di cui i leader non parlano non è successo. Quello di cui parlano doveva succedere. Leggi le loro memorie, la peggior letteratura che l’uomo abbia mai scritto, e vedrai.
Mio caro amico, non so cosa farai di questi pensieri confusi, ma sono sicuro che non li dimenticherai. Scusami per le lettere macchiate… Dicono di non avere un inchiostro resistente alle lacrime…

Tuo S. Isakov

www.drazangunjaca.net/snovinemajucjenu/ita/ITA_opiscu.htm


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Laudato dritto e rovescio
segnalazione di merito al Premio Tracce, Pescara, 2001

di Paola Turroni

… due maglie diritte, una maglia rovescio, una maglia diritto per due volte, una maglia diritto, nove maglie rovescio, ripetere, due maglie diritto per tre volte…
Attraverso le nocche delle sue dita scorre un filo di lana azzurra. Una stola di punti intrecciati cade sopra le ginocchia. Il filo di lana lungo il polpaccio segue il ritmo dello spostamento da un ferro all’altro, sembra scendere, invece che salire, da un sacchetto di plastica sotto il sedile dove rotolano due gomitoli, uno più grande e uno più piccolo, trattenuti a stento dai tacchi dei suoi stivali ogni volta che il metrò frena.
… Laudato sie, mi’ signore, cum tucte le tue creature
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui…
I polpastrelli induriti delle sue dita infilano il legaccio nel sandalo, le vene gonfie sul polso sembrano assorbire il tremolio che proviene dalla strada. Appoggia la mano sulla caviglia, con una carezza la distende dalla fatica. Un pneumatico si blocca stridendo davanti al suo viso lasciando un segno scuro sul tratteggio bianco dell’asfalto, mentre il rumore dei motori sale e scende dalla sua attenzione.
… accavallare la prima maglia sulla seconda, lavorare la maglia successiva a diritto, poi accavallare la maglia rimasta sul ferro destro su quella appena lavorata…
La pancia di un uomo trattenuta da bretelle schiaccia il bracciolo del sedile. Penelope si scosta per permettere al ferro di girare, si distende la gonna sulla pelle opaca. Qualche livido di freddo e di rabbia. Gesti che le interrompono il lavoro e per i quali chiederà perdono un giorno. L’uomo incrocia i polsi sullo stomaco e si lascia assopire dalla culla del treno, il rimbombo del tunnel che proviene da un finestrino aperto in fondo alla carrozza è il canto di qualche sibilla rimasta sotto la terra della città.
… per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et preziose et belle…
Un autobus si ferma vicino al suo braccio, sollevando i lembi sfilacciati del saio, Francesco lo distende lungo le gambe per tenersi stretto un po’ di caldo. Qualche livido di freddo e di rabbia. La frenata lo costringe a spostare la direzione dello sguardo, la tensione necessaria alla richiesta, fuori o dentro la stanchezza. Un uomo scende i gradini senza chiedere permesso, il suo corpo lento è un intralcio sopra la terra della città.
… lavorare insieme a diritto le prime due maglie, passare la maglia ottenuta sul ferro sinistro e lavorarla a diritto insieme alla maglia successiva…
Un bambino entra correndo e salta sul sedile di fronte, batte la mano sul posto occupato chiamando la madre che arriva più lenta, con un carrello colmo della spesa. Una frenata fa cadere le arance, rotolano intorno ai piedi dei passeggeri. Penelope mette i ferri in tasca e aiuta la donna che non riesce a piegarsi a raccoglierle, i gomitoli si sfilano intrecciando la lana ai pali di sostegno. Il bambino ride, rincorrendo un’arancia che non si ferma.
… per frate vento
et per aere nubilo et sereno et omne tempo,
per lo quale a le creature dai sostentamneto…
Il fumo nero di una motocicletta che romba al semaforo gli attraversa la gola, insieme alle parole che non ricorda. Francesco strizza gli occhi cercando un angolo di cielo dentro cui tendere le braccia e dare un gesto alla preghiera, mentre solleva lo sguardo un ombrello gocciolante lo costringe ad abbassare la testa. Una donna cammina piano, allunga una braccio per attraversare, il semaforo lampeggia, ma la borsa è più pesante delle sue gambe. Francesco tossisce trattenendo le labbra asciutte sul petto, le parole si fermano tra i denti, è un pane vecchio che non sazia.
… una maglia diritto, sette maglie rovescio, due maglie diritto, cinque maglie a rovescio, una maglia diritto, tre maglie diritto, tre maglie rovescio, due maglie diritto…
Penelope sa che ogni gomitolo è fatto per essere consumato. Ogni fatica di matassa è solo tempo guadagnato per l’attesa. Sta imparando ad aumentare le maglie nel centro dello scialle così nessuno si accorge dell’ampiezza dell’abbraccio. Mind the gap, un passo sopra un varco stretto e mortale, il buio su cui viaggia ogni mattina. Gente di gomma rimbalza sul giubbotto troppo grande che fa due giri intorno al petto, stringe il sacchetto con la lana sotto il braccio e guarda le punte consumate degli stivali che calpestano cicche appena spente.
… per frate focu
per lo quale annallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robusto et forte…
Francesco sale sul marciapiede e raggiunge l’angolo del palazzo. In fondo si perde la fine della via, insegne intermittenti alternano minacce, appoggia le spalle al muro. Lo spazio conquistato gli permette di svuotare la bisaccia dell’ultima mela, privata del morso della mattina. Francesco è cresciuto lontano e ogni volta è lontano da qualche parte, cerca un silenzio che non giochi a scacchi con l’ascolto, le vie di una città tenuta in piedi da segnali muti che provocano rumori senza direzione.
… puntare il ferro destro sotto il filo orizzontale che unisce due maglie e portare lo stesso sul ferro sinistro, quindi lavorare questa nuova maglia a diritto…
L’aria fredda e umida entra dalla bocca del metrò, tanti buchi di prova per l’inferno fanno della città formaggio per i topi. Penelope si ferma in cima alle scale a fare respiri, prende il tempo di riempire un corpo incavo. Un momento per rimettere tutto in discussione e scegliere di nuovo. Appoggia la schiena alla ringhiera guardando le facce di chi passa. La sua maglia allunga il viaggio ogni giorno per scoprire in quelle facce di che viaggio hanno bisogno.
per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi frutti con coloriti fiori er herba
Francesco non ha voce, la preghiera ritorna nello stomaco privata del rito. Passa un bambino correndo e scende le scale della bocca del metrò urtando la corda del saio che gli stringe due volte la vita. Francesco si ferma sotto il varco delle lodi, prima di un tunnel che ignori la fatica delle vie e riscopra il flusso di persone che camminano. Un momento per rimettere tutto in discussione e scegliere di nuovo.
Le guance arrossate di Penelope contengono il suo sorriso, respiro tiepido sulle mani giunte davanti al viso. Si sfrega le mani per riscaldarsi, le nocche rimbalzano l’una sull’altra.
Francesco appoggia la schiena alla ringhiera e guarda ancora indietro. Sorride piano mentre sussurra una lode, le nocche appoggiate l’una sull’altra.

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Caino

di Andrea Parato

"perché è duro rispondere alla tua voce" (D.M. Turoldo)

Tu che ami il misero
e prometti di levarlo
dal fango, dove sei?
Io superbo povero ti invoco
su china speranza
dove contemplo vigliaccherie abitudinarie
dove perduto miro il cielo.
Perché proprio a me vieni,
mentre tutto stride immobile
per non decidere e non causare
altro danno?
Attendere
che accada
l'addio, il ritrovo.
Come potevi pretendere altre mosse
che non fossero venate di porpora? E come
puoi amarmi così solo
imperfetto
chi poi mi salverà da me stesso?
chi perdonerà
questa mia mano?
Un segno invoco, e so cosa chiedo,
un segno per poco
sulla testa mai china
sulla mente finita:
la mano tua stendi, accogli l' aperta mia
trasforma questo gesto vuoto d'orrore
in vita sensata.

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In mare, nel gommone - Oggi Chaplin

di Clementina Sandra Ammendola

Vorrei, in mare
palloncini rigonfi di rosso frizzante,
festoni, stelle filanti e bandierine
colorati con tante manine.
Vorrei, nel gommone
regali ripieni da carte e biglietti.
Carte sigilate da abbracci e
biglietti smisurati da sguardi.
Vorrei, in mare
versare delle candele
soffiare dei fiori
scivolare sulle caramelle.
Vorrei, nel gommone
assaggiare torte movimentate
da nastri di cioccolata e
da musiche di compleanno.
Vorrei arrivare con
mani, fiori e candele,
sguardi, palloncini e carte,
abbracci, biglietti e caramelle.

 

Oggi Chaplin

“Dobbiamo vederci e basta”, ricordo Mauro dire con decisione.
L’appuntamento è alle diciotto, in via Garibaldi angolo via della Consolata. Sono arrivata in anticipo, aspettiamo: è un bambino a tenermi compagnia; mi guarda, dall’alto, senza paura. Chissà da quanto è lì. Il suo cielo è azzurro con delle nuvole vicine; il mio è grigio colorato dai palazzi severi della città.
L’orologio, appeso all’esterno del Caffè Roberto, dà un’ora impossibile; mi accorgo che è fermo a mezzogiorno e venticinque. Controllo il mio cellulare, le diciassette e cinquantasei, ci siamo. Appoggio la bottiglia di mezzo litro d’acqua sulla base della colona del palazzo dove c’è il bambino e mi sistemo i capelli dandogli movimento. Mi allontano dall’angolo, cammino verso l’interno di via Garibaldi, do uno sguardo alle vetrine del palazzo con la colonna, mi rispecchio e noto il vuoto. Il palazzo contiene un cinema chiuso.
Torno in dietro, sono già passati i quattro minuti, penso, per le diciotto, l’ora del nostro appuntamento. Il bambino continua a fissarmi, sul suo muro, sporco, c’è una scritta, DOVE SEI? Due motorini sono parcheggiati sul marciapiede. Il volto noto di Mauro non c’è ancora. Una signora attraversa la strada in bicicletta mentre una decina di persone è ferma al semaforo. L’autobus 52 riparte scaricando un gruppetto di uomini e donne sulla fermata.
Cammino verso l’entrata del cinema, in via Garibaldi. Il cinema è chiuso senza spiegazioni: non è chiuso per ferie, non è chiuso per riposo, non è chiuso per ristrutturazioni. E’ chiuso e basta.
Mi appoggio sul muro, vicino alla porta, cerco il mio cellulare. Qualcuno mi passa vicino con un cartellone. Lascio il cellulare nella borsa e osservo un uomo che appende il cartellone sulla porta del cinema, dall’esterno. Mi avvicino, poche persone fanno lo stesso.
“Lo sapevate?” ci chiede l’uomo e ci consegna dei volantini con delle caramelle.
“Qualcosa ho letto sul giornale, allora è vero?” dice una signora con un completo di lino bianco e una borsa della profumeria in mano.
“Lo chiudono per una jeanseria. Sì una jeanseria al posto di un cinema” sostiene arrabbiato il signore del cartellone e dei volantini. “Abbiamo presentato una petizione al Comune ma credo sia inutile” .
Il suo lavoro con il cartellone è finito. Nel cartellone è scritto, appunto, Cinema chiuso per jeanseria, lo sapevate?
“Un altro angolo di via Garibaldi per le vetrine costose?” domanda un ragazzo dei capelli corti corti, maglietta e pantaloni di cotone consumati, borsa a tracolla di velluto verde oscuro.
“Un altro angolo di via Garibaldi perso, direi” conclude il signore del cartellone e dei volantini ancora arrabbiato.
Le persone cominciano a parlare tra di loro, un bambino piange con il suo gelato per terra; mi allontano e sono di nuovo sotto il bambino dell’angolo. Lo fisso, osservo il suo volto, con tante domande. Un bambino che è rimasto appeso sul manifesto dell’ultima proiezione del cinema Chaplin:

OGGI
CHAPLIN
IO
NON
HO PAURA

“Cià, com’è? Cosa fai, preghi?”, mi chiede Mauro che spunta da chi sa dove; abbasso lo sguardo, mi giro e osservo il suo volto stanco.
“Ciao, bello, abbiamo perso, di nuovo, un’altra volta, ancora, adesso” e lo saluto con un abbraccio lungo.

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Per quali geometrie - Mare del poema

di Christian Sinicco redattore di Fucine Mute

Per quali geometrie
come maschere dell'oceano sopra l'oceano, sospesi
in questi dove, sopra questi perché essere qui
rincasate? È già un attimo

il nostro tempo, i gradini
il vento di novembre li strappa. Infine
con lo sguardo di ciò che è dietro l'aria danza,
il vero e il falso annullano, le pareti accanto

i nostri no staccano dalla bocca
e ci sono colonne che portano i segni di questa marea
costruite di là da campi, non senza lacrime ogni sera
nella cucina, seppellite assieme a una sigaretta.

Senza nulla ormai al balcone, risalendo
i palazzi, i silenzi, il signore morente con piante alla finestra
di fronte pare quasi quel ritratto, ma a battere
sono i martelli del suo carattere: battono

questo non battere più
incudini di ingranaggi, si inabissa incavo
come a portarci negli uomini, a riempire di materiale
mancanze che non si possono riempire.

Nella nostra immaginaria devozione
un programma, lo stesso di ieri e la ripetizione,
questo sarà, un sogno e tutti questi potrebbe
oltre ogni accensione, dispositivo, meccanismi;

l'erba del giardino, la crescita ad ogni rassegnazione,
dentro casa non avrebbe potuto più rassicurarvi molto
e questo nome, con il cancro allo stomaco,
fu prima la libertà senza i nostri specchi

nel dimenticare, farsi città e germoglio.
Ma come sottrarsi alla menzogna?
Come dimenticarsi in questa costruzione
il dolore, le finalità, il non sapere

il nostro amore? I tavoli sono rovesciati, i punto
rappresentazioni di infinito, le aperture sul vuoto
l'eco di sentirvi questa periferia
e questa instancabile sconfitta non è altro

che la nudità di cui avete bisogno
come maschere dell'oceano sopra l'oceano, sospesi
in questi dove, sopra questi perché essere qui.
Qui, che è già un attimo.

***

Da Mare del poema, frammento n. 3

Era morente in un letto piegato dagli anni.
La vecchia aveva sogni e visioni e ancora pregava Dio e aveva forza e sentimenti; abbracciava così i nipoti prediletti e baciando accarezzava la testa e ringraziava per aver visto di nuovo quella generazione presentarsi al capezzale vivente della sua.
Allora stringendo un rosario la sera pregai con lei ed era umile e semplice come una benedizione per ogni cosa, e per la vita che se ne andava non le pesavano le sofferenze che la impedivano.
Le vie del borgo non percorreva da anni oramai; non aveva vissuto le trasformazioni del cemento. Né le immondizie alle periferie conosceva, le basse e sporche metropoli…
Non conosceva il pensiero dei filosofi, i muri imbrattati di un telegiornale.
Nulla di tutto immaginava.

Le dormii accanto, un giaciglio adattato per l'occasione; non c'erano più stanze a disposizione nella casa. Pulite e profumate lenzuola cullavano i desideri della notte, pieni di sapienza e di amore - sogni irreali non esistevano, e nemmeno i demoni nella stanza; le pareti colavano da una grotta di muschi turchini e gialli, il respiro era di un gran gigante che giocava…
Modellava con la cera le immagini dei santi, e lasciava nel bosco tranquilli quei ritratti, a splendere alla luna negli anfratti…
Adornava la stanza, attaccando ghiacciai e nevi perenni; scorreva a valle, con la freschezza dei secoli disciolti…
Il gigante non ignorava né i drammi, né le tragedie: conosceva annusando i venti…

Il suo Sposo era morto lontano, in un paese cercando tesori: aveva trovato rubini e diamanti splendidi e grossi.
Una storia triste di emigranti, forse la più triste e dolorosa, quella dell'amato.
Ma il suo nome era Grazia, e le dita lattee raggrinzite con cui possedeva il rosario nero, dicevano che non aveva mai perso la speranza. Grazia non aveva dubbi. Il suo Sposo era morto. Sapeva la realtà meglio di qualsiasi altro.
In un attimo quei sogni si tramutarono in realtà.
Avvenne il giorno in cui ero presente, prima di addormentarmi. Avvenne il giorno che al capezzale erano presenti intere generazioni di un popolo, e un Re si tolse il mantello e la coprì parlando dello Sposo; ebbe un buon tepore.
Così mi avvicinai anch'io, sorridendo a quel Re e alla Grazia morente.
Lei strinse la mia mano.
Diceva che ero un angelo venuto dal cielo.

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Unidicizerotreduemilaquattro

di Tahar Lamri

E dal tetto del treno apparve all’improvviso, in questa mattina invernale di cristallo, uno squarcio di cielo indesiderato. Un boato e il grido di un neonato squarciano il silenzio. E la morte, la morte si fa strada nella sabbia del sonno, nel dondolìo del treno che accompagna i pendolari alle loro occupazioni. Poteva essere un giorno qualsiasi questo uno più uno del terzo mese solare, ma…
Ana cullava le sue nostalgie colombiane, un attimo prima Ana pensava al suo paese Santa Marta bagnato dalla pioggia tropicale. Pensava ad Andres, suo figlio quindicenne, lasciato là in un paese insicuro, dove morire nel proprio letto è considerato un lusso. Pensava che fra due giorni l’avrebbe chiamato due volte. E come ogni marzo avrebbero festeggiato, a modo loro, il suo compleanno. Gli avrebbe dato la notizia che aspettavano da molto tempo: i documenti sono pronti per il ricongiungimento famigliare.
Inès, là di fronte ad Ana, leggeva con il sorriso negli occhi, il messaggio che aveva stampato questa mattina prima di uscire: “Non sono mai andato via per poter tornare. Sono qui lì altrove, i miei abbracci o il mio unico infinito abbraccio, inventato soltanto per te, ti appartiene per sempre, perché dentro di te, dentro di me. Le mie mani hanno dolcemente solcato il tuo corpo e lavandoti i piedi ti ho ospitato per sempre in me. Riti antichi, lavare i piedi all'ospite. Certamente hai notato che i nostri corpi si sono ritrovati naturalmente e naturalmente si sono incastrati l'uno nell'altro in una infinita acqua primordiale. Ma non so se hai notato il profumo che aleggiava attorno a noi: terra appena bagnata dalla pioggia. Oltre al tuo profumo di té verde, che potevo sentire soltanto io, e che ritrovo ancora oggi, ancora stamattina dopo la doccia, sul mio braccio, fra la costellazione dei nei che ti piace tanto.”
Inès al momento del boato, prima che Dio si affacci irato ancora prima dello squarcio di cielo non desiderato, stava sorridendo fra sé, il sorriso si alternava al tuffo al cuore. Vicino a lei era seduto Angel, che pensava di fare un giro in Italia quest’estate per vedere finalmente “La nascita di Venere” da vicino. Angel pensando guardava con tenerezza quella mamma, a cui non seppe dare nome, assonnata e tesa ad allattare la sua bimba, quasi bianca, come l’aurora che annuncia un giorno nuovo. La mamma era nera, “angolana” si è detto Angel.
Dietro Angel, in quel momento preciso, fra la calma del sonno che stenta a lasciare gli occhi, il dondolìo, lo sferragliamento del treno e il terribile boato, sta seduta una ragazza giovane, senza età, che sognava sensazioni e profumi e abbracci e baci e sorrisi e parole sussurrate e acqua che scorre in una remota stanza d'albergo.
In quell’attimo Anton aveva aperto la porta del giorno ed era entrato in questo undici marzo, come in ogni giorno, con un’allegria sfacciata. E Gabriela si è ricordata di non aver tirato fuori la carne dal freezer. E Isabel era incinta di sette mesi quando la morte li ha falciati tutti i due, senza neanche chiedere il sesso del nascituro. Andava a fare un’ecografia. Yolanda amava molto la trasmissione televisiva “Un, dos, tres”. Era l’unico suo difetto. E Alberto assorto nella lettura della biografia del pittore Cristobal Toral, non si è reso conto di nulla. Non ha nemmeno sentito il boato. Maite andava a perfezionare il mutuo per l’appartamento nuovo appena comprato e che ogni giorno sognava arredato in modo diverso. E Alvaro “Alvarito”, falciato sulla strada del liceo, avrebbe compiuto 17 anni alle 18.00., da lì a poco avrebbe ricevuto i CD di Limp Bizkit, Linkin Park, Jarabe de Palo. E Manuel che lascia tre bambini di 8, 4 e 2 anni. E Ramon che stamattina era in bagno e non ha fatto in tempo a dare un bacio a sua moglie già in ritardo al lavoro.
E fra il boato e noi, la notizia fece il giro del mondo e migliaia di telefonini impazziti di preoccupazione si sono messi a squillare alla faccia di Dio, da tempo latitante. Dio che guardava, senza capire, la striscia rossa che corre lungo il treno spezzata come le ali di un uccellino indifeso.

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Siti interessanti

Impatto Sonoro www.impattosonoro.it
Spirito e parola www.suffragio.it/suffragio/sanguesale/san3.htm
Progetto Lorenzo www.barbiana.it
Fonte Avellana www.fonteavellana.it/spiritualita_camaldolese_I.htm
SMA www.missioni-africane.org/index/rci/bsag.htm
RaiLibro www.railibro.rai.it
Future shock www.futureshock-online.info/index.html
Paolo Galloni www.paologalloni.it

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