Logo Fara Editore Fara Editore

L'universo che sta sotto le parole
home - fara - catalogo - news - scrivi - faranews
Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore





Numero 31
Luglio 2002

Editoriale: La terapia della scrittura

Quanti scrivono per vivere, o meglio per dare o trovare un senso alla loro esistenza? E quanti raggiungono una dignità letteraria?
I brani che proponiamo in questo numero? A voi il giudizio.
La Lettera di commiato del ventottenne Giosuè Borsi si aggrappa ad un senso ulteriore. Davide Danio ci offre un suo lucido Incubo. Imed Mehadheb si chiede cosa accade quando si paga Un prezzo più alto del giusto. Una poesia di Andrea Campanozzi, un racconto di Corrado Giamboni e la segnalazione di alcuni siti interessanti concludono il numero. Nel prossimo i vincitori del concorso iiim.

Giosuè Borsi (1888-1915)

 

Lettera di commiato (21 ottobre 1915)

Mamma,

questa lettera, che ti giungerà soltanto nel caso che io debba cadere in questa battaglia, la scrivo in una trincea avanzata, dove mi trovo da stanotte coi miei soldati, in attesa dell’ordine di passare il fiume e muovere all’assalto. Volevo scriverla con minor fretta e con più calma, oggi, se, come tutto faceva credere, fossimo rimasti ancora accampati per un giorno a Zapotok. Iersera già mi disponevo ad addormentarmi sotto la mia tenda, e pensavo con vera gioia che oggi avrei avuto una intiera giornata tranquilla per prepararmi al grande cimento; all’alba avrei ascoltato la messa e mi sarei comunicato, poi ti avrei preparato questa lettera di commiato, e finalmente, in pace col mondo, con me stesso e con Dio, avrei atteso la sera meditando e pregando, parlando ai miei soldatini, pronto a tutto, ben preparato a ogni avvento, pienamente distaccato da tutti i legami terreni.
Invece giunse l’ordine repentino di levare le tende e prepararci alla marcia d’avvicinamento. Ci guardammo, io e il tenente Maltagliati, il mio compagno di tenda: – Ci siamo! – Ci stringemmo la mano con quella dolce effusione fraterna che solo chi è stato in guerra può capire. In breve fummo armati e in ordine; riunii il mio plotone; feci l’appello, e corremmo al comando di battaglione per riepilogare attentamente tutto il piano d’attacco con le carte topografiche alla mano. Poi il colonnello ci disse qualche parola, ci strinse la mano ad uno ad uno. Finalmente ci siamo messi in marcia sotto la luna, abbiamo salito il monte, siamo discesi dall’altro versante e, giunti sulla riva dell’Isonzo, ci siamo disposti in linea. Fino all’alba ho lavorato coi miei soldati a scavare la nostra trincea, vi ho disposto tre delle mie squadre e ne ho condotto una quarta con me, in questa trincea coperta, lasciata dagli avamposti. Sotto questa trincea scorre l’Isonzo, che vediamo dalle feritoie in tutta la sua incantevole bellezza. A monte, sulla nostra sinistra, è il punto della riva dove sarà gettato il ponte per il nostro passaggio. A valle si trova la testa di ponte di Plava, con due reggimenti pronti a rincalzare la nostra avanzata. In faccia a me, sulla riva opposta del fiume, si stende un bel paesino ridente. È Descla, uno degli obbiettivi dell’azione affidata a noi. All’alba di stamani è cominciata la battaglia, col fuoco delle nostre magnifiche e formidabili artiglierie. Lo spettacolo è stato terribilmente superbo e maestoso. Tutte le posizioni nemiche sono state bombardate da una gragnola di proiettili d’ogni calibro. Tutte le trincee degli avversari sono state sconvolte ad una ad una, feritoia per feritoia, con una precisione matematica, inesorabile. Una pattuglia austriaca, che occupava una trincea sulla mia destra, s’è vista rimanere sepolta, e due soldati sono stati scagliati in aria come fuscelli. L’artiglieria avversaria ha risposto debolmente e senza risultati. Sul camminamento coperto che conduce alla trincea occupata da me, e dove forse i nemici hanno scorto qualche movimento di soldati, è caduta una quarantina di granate, di cui soltanto cinque o sei sono scoppiate, senza recare il minimo danno. Presso la nostra trincea ne sono cadute una ventina, di cui una sola ha colto nel segno, ferendomi un soldato e spezzando un fucile. Adesso siamo arrivati al pomeriggio. Sulle nostre ali s’è impegnato un fuoco di fucileria violentissimo e rabbioso, mentre l’artiglieria continua l’opera propria. Poco sappiamo di quel che accade presso di noi. Io ho mangiato poco fa, ho scambiato qualche parola e qualche biglietto con gli ufficiali dei due plotoni che ci fiancheggiano, Maltagliati del primo e Viviani del terzo. I miei soldati sonnecchiano, l’attesa si prolunga, e ho pensato di cominciare a scriverti, nella speranza che il tempo non mi manchi per dirti almeno una parte dei pensieri e degli affetti che si trasboccano dall’anima per te, mamma mia.
(…)
Qua, staccato dal mondo, sempre con l’immagine della morte imminente, ho sentito quanto sono forti i legami col mondo, quanto gli uomini abbiano bisogno d’amore reciproco, di fiducia, di disciplina, di concordia e d’unità, quanto siano necessarie e sacrosante cose la patria, il focolare, la famiglia, quanto sia colpevole chi le rinnega, le tradisce, le opprime. Amore e libertà per tutti, ecco l’ideale per cui è bello offrire la vita. Che Dio renda fecondo il nostro sacrificio, abbia pietà degli uomini, dimentichi e perdoni le loro offese, dia loro la pace, e allora, mamma, non saremo morti invano. Ancora un tenero bacio.

Giosuè

Torna all'inizio

Incubo (I)
(di Davide Danio OPM)

E sia.
Il tempo dell’ozio non è ancora finito.
Il mondo di dolore non finirà mai.
Ed allora che fare, chiudersi nella camera della mente per intraprendere un nuovo viaggio, in compagnia di un fantastico amore che passi le giornate sorridendo e le notti facendo l’amore come nessun’altro prima, viaggiare con questi per valli assolate e prati sempreverdi, scalare monti, senza sentire la stanchezza, avere sempre forze nuove per andare avanti. Crearsi le difficoltà solo per poterne ridere. Guardare la morte e sorriderle.
Creare occhi mai visti, mani che possono toccare tutto, suoni magici e profumi inebrianti, baci che sanno d’argento vivo. Nel mondo dove è tutto chiaro accompagnarci e stringerci, le mani sempre appresso e la voce debole di forti parole.
Farsi Dio supremo, creatore del bene, del proprio bene.
Senza mai aprire una finestra le mani diverranno cartapecora e gli occhi potranno vedere solo ombre.
La città non cambierà, vedo ancora le armate alle porte, al di fuori delle mura, stanno avvicinandosi ma non arriveranno mai, i miei occhi non saranno abbastanza forti per volerle vedere. E così sia. La pausa sarà lunga e io potrò reinventare la vita, non sarò solo, quando ci si lascia piovere addosso non si è mai soli.
E con nuove compagnie potrò scoprire nuovi giochi e tutto sarà più bello, paralizzarci assieme sarà il nostro gaudio, ridere e continuare a ridere.
Ridere di se stessi, in fondo.
E quando tutto ciò ci avrà stufato potremmo reinventare un nuovo amore, cercare un cuore altrettanto paralizzato e conquistarlo, lasciarci conquistare, senza renderci conto che era tutto già scritto nei nostri capelli.
E il nuovo mondo che creeremo sarà altrettanto cieco che noi, nel letto bacerò labbra e occhi e mani e piedi, cercherò qualcosa che ho perso nel tuo pube, senza trovar niente, senza saper che cosa cerco realmente. Andrò dentro te, sempre più a fondo, dove tutto è sempre più buio. Sarò solo dentro il tuo pube.
Finalmente solo con me stesso.
E finalmente potrò fermarmi un attimo e pensare.
Allora, tornato feto capirò che feto ero e feto sono ancora e mi renderò conto che sarà ormai troppo tardi per cambiare e feto resterò.
Avrò il tempo di guardare indietro a quei giorni in cui il pensiero era più veloce della mano e vedrò me stesso in un'altra vita.
Mi renderò conto di non aver mai baciato l’argento vivo.
Di non aver mai avuto mani appresso, mai mani vicino il mio cuore.
Che quel castello in cui credevo di vivere null’altro è che una ragnatela, tessuta con una perfezione terribile, come nel peggior incubo; il mare è pieno di sangue e i miei occhi sono coperti da un filtro.
Sarà allora che il mio corpo inizierà a tremare e la mia pelle divenuta molle sentirà il dolore lancinante di tutti gli spilli conficcatisi, che mai avevo scorto, che mai avevo voluto vedere.
Un grido lancinante mi taglierà la menbrain ed io sarò abbandonato nel profondo di colei che credevo fosse mia ma che scopro essere null’altro che il mio riflesso, un’immagine speculare che ho creato per non accorgermi di essere solo, per avere una compagnia.
Io, divenuto feto in preda ad un ragno demoniaco non avrò più le forze per muovermi, tenterò di dimenarmi ma avrò ormai dimenticato come sognare e le mie gambe, ormai atrofizzate non saranno più in grado di correre.
Io.
Solo.
Come mai prima.
Come sono sempre stato.
E non potrò far altro che continuare a vivere, unico vedente in un mondo cieco.
E quando lei mi vedrà piangere sarà disperata, non mi riconoscerà più, non potrà mai capire perché la rifiuto, si domanderà perché non la guardo più con gli occhi di ieri. Ma ieri ero cieco.
E continuerò a stare accanto ai compagni di ieri per l’impossibilità di cambiare, per l’atrofia che ormai avrà rapito il mio corpo ed ogni qualvolta che penserò alle valli che volevo attraversare, ai monti che dominavo, alle labbra che sognavo sfiorare, nuovo sangue riempirà i fiumi ed il mare sarà sempre più rosso.
Ed ogni volta che mi guarderò allo specchio la morte riderà di me.

(Davide Danio OPM, Alassio 1979, è iscritto all’università di Genova presso la facoltà di Scienze Internazionali e diplomatiche, attualmente in Francia per l’Erasmus. Nel 1998 crea insieme a Danzio Bonavia e Veronica Patti il progetto OPieMme Poesia. Un tentativo di avvicinare alla poesia e alla lettura i giovani. Una voglia di cambiamento, una ricerca di nuove soluzioni, una ricerca di se stessi. Ha tenuto readings in diversi locali accompagnato da gruppi o basi musicali cercando di scindere poesia e musica. Attualmente sta lavorando a due raccolte di poesie: “Pianti di un adolescente nudo” e “L’odore del viaggio”.)

Torna all'inizio

Un prezzo più alto del giusto
(da Un tè alla menta, romanzo inedito di Imed Mehadheb, via Pianezza 300, 10151 Torino)

Sei rimasto sul letto, accasciato su te stesso a guardare il cielo attraverso la finestra spalancata, poi ti sei steso intrecciando le dita dietro la testa; i tuoi occhi fissavano il soffitto della stanza immersa nell’alto silenzio. Che cosa accade quando una persona si persuade di avere pagato con le esperienze un prezzo più alto del giusto? Hai meditato. Il rimpianto diventa troppo. Ma, come ha detto lo zio R’zuga, l’uomo saggio deve cercare sempre il lato buono in qualsiasi situazione… una parola! Ti sei sollevato, ti sei arrotolato un impeccabile spinello con le mosse lente delle tue dita ormai esperte, l’hai osservato, l’hai lisciato e stavi per accenderlo quando ti sei ricordato che Monia ti aveva chiesto perché ti drogavi. Perché mi drogo? Ti sei domandato. Hai cercato di ricordarti, senza riuscirci, del dialogo che il bambino del racconto Il Piccolo Principe di Antoine De Saint-Exupéry aveva avuto con un ubriacone. Allora ti sei alzato e hai preso da uno scaffale della tua biblioteca il libro, sei ritornato a sederti sul letto e, aprendolo, è caduto un cartoncino blu sul quale è disegnato un cielo e una falce di luna, che guarda una donna mentre getta manciate di stelle a un paio di tigri che stanno ai suoi piedi. Hai voltato il cartoncino e hai letto:
Fay Prendergast - Storyteller
Via Reggio 15 (…)

Ti sei ricordato della tua docente di Linguistica inglese che ti aveva regalato Il Piccolo Principe quando studiavi in carcere, hai carezzato il volume e lo hai aperto alla pagina che ti interessava, poi hai letto ad alta voce:

Il pianeta appresso era abitato da un ubriacone. Questa visita fu molto breve, ma immerse il piccolo principe in una grande malinconia.
– Che cosa fai? – chiese all’ubriacone che stava in silenzio davanti a una collezione di bottiglie vuote e a una collezione di bottiglie piene.
– Bevo – rispose, in tono lugubre, l’ubriacone.
– Perché bevi? – domandò il piccolo principe.
– Per dimenticare – rispose l’ubriacone.

… E ciò che leggevi, Omar, ha soffocato le tue parole fino a renderle impercettibili…

Per dimenticare che cosa? – s’informò il piccolo principe che cominciava già a compiangerlo.
– Per dimenticare che ho vergogna – confessò l’ubriacone abbassando la testa.
– Vergogna di che? – insistette il piccolo principe che desiderava soccorrerlo.
– Vergogna di bere! – e l’ubriacone si chiuse in un silenzio definitivo.
Il piccolo principe se ne andò perplesso.
I grandi, decisamente, sono molto, molto bizzarri, si disse durante il viaggio.


Quella lettura ha provocato dentro di te il peso sonoro di un’eco infallibile. Hai trascinato avanti e indietro la tua vergogna poi ti sei arrestato. Nell’ambito della filosofia, hai meditato, l’individuo reagisce alla frattura con la collettività estraniandosi da un lato, dalla vita politica richiudendosi in una moralità individualistica e, dall’altro, dichiarandosi non più polítes ma kósmopolítes. Io ho bisogno di radicarmi nell’assenza di luogo. Ho bisogno di esiliarmi da ogni patria terrestre. È questa la libertà che cerco, la libertà di non essere obbligato a subordinarmi ad alcuna appartenenza. Aria, spazi, per esprimere il mio carattere sovversivo, in rottura spontanea con ogni imbrigliamento. Hai tracciato altre righe su e giù per la stanza poi hai preso Il Piccolo Principe per posarlo sullo scaffale, e il tuo sguardo si è soffermato sulla fila di romanzi sudamericani in lingua italiana, la lingua che hai adottato per esprimerti. Dovevo cominciare a leggerli sei mesi fa, ti sei detto poi hai guardato le cartelle impilate e hai aperto la prima per leggere i dati anagrafici di una donna, la cui fotografia era trattenuta insieme a altri fogli con un punto di cucitrice.

Nelly Betancourth
Nata nel 1934 a Facatativa, nella Regione di Cundinamarca.
Colombia.

Hai seguito con la punta delle tue dita i nomi dei suoi sette figli e due figlie uccisi, uno dopo l’altro, dai killer del Cartello di Medellin, per ordine di Pablo Escobar. Hai serrato le mascelle poi hai chiuso la cartella. Ne hai aperto un’altra, contenente fogli graffettati, con una trascrizione della cassetta audio che hai cercato dentro un cassetto del tuo scrittoio. L’hai infilata nel riproduttore e ti sei seduto sul letto ad ascoltare, seguendo la trascrizione, la voce registrata di Nelly mentre, malata di tumore, raccontava la storia della sua vita a suo figlio William, un tuo amico, per consegnarla a te. Di tanto in tanto, Nelly si interrompeva per soffiarsi il naso ed asciugarsi le lacrime, poi emetteva un profondo sospiro, ombra di sentimenti non più correggibili perché nutriti dal ricordo; e riprendeva a raccontare come suo padre, latifondista, l’aveva costretta a interrompere gli studi ritenendo che la donna doveva essere valorizzata solo come anfora della vita e santificata presso il focolare. Ma Nelly, in silenzio, aveva lottato contro quella fissità arcaica di una donna che doveva solo riprodurre e riprodursi. Il suo racconto era sorretto da una memoria lucidissima, ma a volte, le parole sembravano emergere da una nebbia dolorosa da sciogliere. Nelly raccontava di essersi sposata con il primo uomo che le aveva fatto la corte, un bracciante agricolo al quale si era data per obbligare il padre ad accettare la sua scelta, forse la sua vendetta. In seguito, suo marito era fuggito con la seconda moglie dell’anziano suocero, una giovane Miss Cundinamarca, poi l’aveva riportata a Facatativa incinta. Allora Nelly aveva cercato di divorziare ma in Chiesa le avevano citato il Vangelo:

Gesù rispose:
– Non avete letto ciò che dice la Bibbia? Dice che Dio fin dal principio maschio e femmina li creò. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una cosa sola. Così essi non sono più due ma un unico essere. Perciò l’uomo non separi ciò che Dio ha unito.
(Mt 19,4-6)

Il racconto di Nelly aveva raccolto le sue forze per scendere a fondo e diventare introspezione, bilancio, costruzione di senso a cui aggrappare ciò che le restava da vivere. Lei, cattolica fino al midollo, era stata ripudiata dal padre ed era andata col marito a Medellin, dove lui, ogni tanto, spariva per stare con l’amante di turno, lasciandola nella miseria, ad arrangiarsi vendendo cibo ai camionisti per crescere i figli. Quando il marito era scomparso, probabilmente ucciso, e i figli erano relativamente cresciuti, Nelly aveva frequentato corsi serali e si era diplomata. Poi aveva appagato, in parte, la sua fame di conoscenza laureandosi in Pedagogia poi in Psicologia. Ma nel frattempo, uno dei suoi figli, affiliato al Cartello di Medellin, aveva commesso un errore e Pablo Escobar aveva condannato a morte tutta la sua famiglia, solo Nelly doveva rimanere viva. Il figlio più giovane di Nelly, William, sfuggito alla morte per mano del suo migliore amico perché sua madre si era inginocchiata davanti al killer pregandolo di non sparare, aveva cercato protezione presso il Cartello di Calì, fino alla morte di Pablo Escobar.
Hai chiuso la cartella che tenevi tra le mani, preziosa memoria non spontanea ma rimuginata, sofferta e paziente della madre di un tuo amico che, quando eravate detenuti, si era rivolto a te per aiutarlo a scrivere una breve biografia che doveva consegnare alla psicologa, e, mentre raccontava la sua storia ti erano salite le lacrime agli occhi e subito dopo avevi avuto una intuizione: raccontare in un romanzo il dolore di Nelly e lasciare scorrere davanti agli occhi del lettore un secolo di storia latinoamericana, dall’imperialismo statunitense, alle dittature, alle guerriglie e al narcotraffico.
Nell’oscurità della tua tristezza è baluginato un raggio, un tremolante, appena visibile raggio di felicità. La felicità di avere un amico che non ti aveva deluso e che Nelly Betancourth aveva creduto in te. Ma per quanto facessi per continuare a carezzare quel tenue raggio, molti dolori ti si sono affollati nella mente. Una commozione ti ha guadagnato al punto che non ti riusciva più di respirare e con un lungo sospiro che è stato quasi un gemito, seguito da ansiti, ti sei precipitato in bagno, hai aperto il rubinetto del lavandino e hai messo la tua testa sotto l’acqua fredda. Lì, da solo, senza testimoni, ti sei sbarazzato della ragione e del contegno e hai pianto tutte le tue lacrime.
Quando ti è sembrato che la morsa di ferro che ti stringeva il petto si fosse allentata, scosso da brividi, hai guardato nello specchio e hai visto attraverso il velo di lacrime e acqua il tuo volto che pareva mangiato dalla barba. Ti sei spogliato, hai aperto il rubinetto della doccia e ti sei seduto sotto l’acqua calda a dare altro sfogo alla piena del tuo dolore. Infine ti sei asciugato, ti sei fatto la barba e hai indossato una tuta da jogging. Ti sei avvicinato alla finestra e hai seguito con lo sguardo le persone e il movimento nella strada, come se fossi un prigioniero condannato ad osservare la vita dal muro di una prigione. Hai chiuso gli occhi, lasciando che la luce radiante del nuovo giorno t’irrorasse la mente. Poi hai acceso il computer e ti sei collegato a Internet.
Hai digitato http://www.runtheplanet.com/itasable.htm, hai consultato alcune webpage di corse nel deserto; infine, sei sceso al piano terra, dove giungeva un acciottolio di piatti e di bicchieri e sei entrato in cucina dando il buongiorno a tua madre:
“Buongiorno, Omar.” Ha ricambiato lei.
Sei rimasto a guardarla in silenzio e lei, nel desiderio di indovinare che cosa passasse nella tua mente, parecchie volte ti ha posato gli occhi in viso, poi ti ha chiesto:
“Ti preparo un caffè?”
“Non bevo caffè. Ti sei scordata un’altra volta!”
“I gusti di una persona possono cambiare da un giorno all’altro, Omar. Tante cose non le facevi prima.” Ha replicato tua madre in tono di rimprovero.
Hai taciuto per un istante, seccato, ma poi hai giudicato simulato quel tono e le hai detto con un sorriso tirato:
“Vado a correre in spiaggia. Fra tre settimane parto per il Marocco.”
“Con Sara?”
“Quale Sara, non la vedo da sette mesi!”
“Lei è sempre venuta a chiedere di te.” Ha detto tua madre ed è sembrata pronta a diffondersi sull’argomento, ma poi, con uno sforzo evidente, si è trattenuta.
“Vado nel deserto, forse riuscirò a partecipare alla Marathon des Sables; prima però devo procurarmi un buon certificato medico.”

(IMED MEHADHEB è nato a Tunisi nel 1961 e vive in Italia dal 1982. Ha scritto in italiano i racconti "Meteco" (1998) in Parole oltre i confini pubblicato da Fara editore, "I Sommersi" (1999) in Anime in viaggio pubblicato da adn kronos LIBRI, "Inverno" (2000) in corso di stampa; tutti premiati al Concorso Letterario per Scrittori Migranti Eks&Tra. La fiaba "Xia Xujie" (1999) è stata pubblicata sul mensile elettronico Faranews agosto 2001 Sensi rivelati. Insignito di due Medaglie del Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi. Detenuto dal 1989.)

Torna all'inizio

TV
(di Andrea Campanozzi)

- hey man, slowdown. Idiot slow down* -

Sulla paglia
del mio quartiere
un vortice
ha detto forte
le sue preghiere.
Aprofittando della pioggia
più d'uno ha pianto,
io per esempio
che pure guardo la TV
con cocciuta osservanza
e al peggio sono sempre pronto.
Poi, quando gli orologi
ripresero a correre
in un senso da valere la pena,
luride tornarono
le stuoie ai balconi,
i ragni di plastica ridevano
dei loro bottini gocciolanti;
furono ancora perfino
i dirimpettai.
E anche io
che pure sono sempre pronto al peggio

Andreia

* RadioHead, The tourist
--------------------------------------------------------
il.posto.dei.funghi@libero.it
"Il posto dei funghi lo so io e io solo"
I. Calvino

(Andrea Campanozzi si può definire non solo poeta, ma anche scrittore e intellettuale engagé)

Torna all'inizio

L'Outsider
(di Corrado Giamboni)

L'uomo si gettò dal piano ridendo. Il piano gli restituì una nota, lunga, che girò per la casa. L'uomo, ora per terra, osservava da lì la stanza: i piedi delle sedie, piedi leonini, le zampe del tavolo, scuro tavolo in legno pesante, gli angoli murali dove forse formiche camminerebbero. Forse. Scorticò con le unghie corte delle dita una mattonella composta da pietruzze diverse e colorate. Poi sbatté a terra il palmo della mano un numero di volte sufficiente per imprimere macchie di sudore sul pavimento acronimo. Mani grasse le sue: l'uomo era pesante. Anticipiamo che cinque minuti più tardi, prono, egli avrebbe pensato alla stretta di mano come ad un'usanza troppo bizzarra, assolutamente da smettere.
L'uomo tirò fuori dal taschino dei jeans il bigliettino giallo pro-memoria e leggendovi l'appunto si riconobbe nella sua scrittura e nella sua solita stupidità: ANDARE DAL BARBIERE PER GIOVEDÍ. GIURO. – c'era scritto in stampatello nella sua lingua. La sua lingua non era l’italiano.
Si compiacque per qualcosa e subito l'assalì un terrore che conosceva. Provò a rotolare verso la porta. Rotolava. Provò a spostare il vaso di cocco. Il bellissimo vaso regalatogli da qualcuno si spostava. Un meccanismo perfetto. Piegò le ginocchia, entrambe, stirando i legamenti non senza rumore. La sua schiena aderiva ora al pavimento di marmo: la camicia azzurrina ne risentiva formando indelebili pieghe.
Guardò un punto indefinito sul bianco soffitto. Rifletté sull'uso sociale, stranissimo a pensarci bene, di stringersi la mano; magari in sequenza, più persone, prendersi la mano, questo organo terminale specializzatissimo. Un'usanza politica dunque. Ci rifletté ancora un attimo, provando ad astrarre. Un'usanza da cessare: troppo bizzarra o piuttosto, primitiva. L'organo-mano prendeva (ed era preso da) un altro organo-mano al fine di stringerlo, per circa uno-due secondi: e da quel codice di forze, esprimibile in Newton nel S.I., le due personali-tà, insomma i due uomini o donne ne avrebbero tratto una garanzia di sicurezza, di non-più-estraneità: una "presentazione" appunto come veniva chiamata solitamente. Non era assurdo bizzarro buffo? No, era da cessare, assolutamente era un'usanza da cessare.
Mentre così pensava cercando l’esattezza del pensiero, i rumori della stanza, i soliti rumori della stanza, lo raggiunge-vano anche lì e lo sbalordivano. Il battiscopa grigio si scomponeva nel seguitare lo zoccolo del muro perimetrale. Pareva, ad uno spettatore disattento e ovvio, naturale quel cingere a quel modo la stanza dall'interno, conseguenza automatica dell'operato del muratore. Invece era una cosa magica.
I rumori della stanza, i soliti rumori delle stanze lo raggiungevano anche lì sbalordendolo. Erano i rumori secchi e senza eco che provengono da lontano. Da un’altra vita come. Provenivano da un fondo che egli ora trovava, sgomento, dentro di sé. Chiuse gli occhi. Una sorta di stagno. Buio. Popolato. Ostile e non ostile. Inserì gradualmente la testa sotto il mobilbar, strisciando. Mobilbar chiamano alcuni quel mobile in sala atto a contenere i liquori e dove - ma non sempre - trovano posto i bicchieri piccoli, a volte colorati, che si usano per bere detti liquori. Questi bicchieri piccoli sono impolverati normalmente nelle case normali, nelle case cioè dove i liquori si bevono giusto quando arrivano i parenti, soprattutto la domenica pomeriggio, o quando arrivano certi amici, o quando alla televisione danno dei programmi particolari - questo dipende da famiglia a famiglia - generalmente sport, ad esempio Formula 1. Con la testa sotto il mobilbar l'uomo restò ad occhi chiusi. Per paura: per paura dei ragni. Ragni ci potevano essere lì sotto, davvero? Non riuscì a sostenere oltre la domanda: uscì da lì sotto sfilando la testa con dentro la testa paure antiche.
Il lampadario appariva posticcio, immenso. Luccicava. Era da spolverare.
Cinguettò – o almeno così gli parve di fare – rispondendo ad un uccellino là di fuori. Era un uccellino piccolo estivo di quelli che stanno dentro gli alberi e pigolano, e strappano il cuore a sentirli.
Si sentiva bambino anche lui.
Non avrebbero dovuto trattarlo così.
Quant'era che stava lì, così in quelle condizioni, perché non si alzava subito perché non andava?
L'uccellino continuava il suo pio pio pio pio piripì, un vero codice. Siamo noi uomini a dire che il linguaggio è prerogativa nostra. Ma gli animali allora? Pio pio poi sicuramente volò via perché il codice cessò. Gli occhi si aprirono. Cominciava a impolverarsi. A stare per terra ci si impolvera. Ma non c'è altro modo per poter conoscere l'universo del pavimento. Questo universo si conosce solo se ci stai: solo se ti sdrai proprio per terra. Come un bambino. Come uno scarafaggio.
Il mobile più bello era forse l'armadione: anch'esso in legno scuro, con sei zampe tornite. Da lì sotto metteva paura. Scappò via. (Perché poi quel mobile sarebbe dovuto cadere proprio in quel momento e proprio su di lui? Che idea senza senso, che idea egocentrica, senza senso.) Starnutì e della polvere si spostò a emiciclo via da lui correndo sul pavimento e poi fermandosi come in attesa. Ce n'era molta, messo così poteva vederla, il gioco di luci a riflettere lo favoriva, poteva vederne uno strato coerente. Polvere ovunque. Soffiò sotto la poltrona. Soffiò fortissimo sotto la poltrona. Cadde allora la foto degli sposi dalla colonnina che aveva urtato col piede. Si era rotto il vetro e anche il telaio del quadretto si era rotto. Roba vecchia. Polvere anche lì. Fu lì lì per piangere, di stizza.
Il signore e la signora Cronn si erano sposati quarant'anni prima nella chiesa detta del Cristo, in paese. Erano fedeli per mancanza di alternativa e per l'assoluta aderenza della loro vita a quelle cose. La notte che si conobbero, ripeteva la signora Cronn, fu la notte più bella della sua vita. Lo ripeteva spesso soprattutto ai figli – alla figlia. Che comunque fu tutto fiato sciupato: la figlia fu fatta a pezzi durante la guerra, non si volle mai sapere bene come. Il signor Cronn era divenuto il migliore orologiaio del paese, in un tempo in cui gli orologi erano la vera misura del tempo. Doveva lavorare anche il sabato le sue dieci ore, ma questo non gli pesava. La gente faceva i chilometri perché lo si conosceva di fama: passavano gli anni prima di dover tornare da lui. In quanto a lui, l'orologio che già era stato di suo padre gli venne regalato il giorno che egli si sposò: era l'unico ricordo che di lui aveva.. Ciò avvalo-rava incommensurabilmente uno strumento molto preciso. La casa era il regno del silenzio e della preghiera. Ogni tanto la signora Cronn piangeva: voleva dire che avevano litigato. La signora Cronn parlava pochissimo ed era attenta agli equili-bri dei figli. Quando si esprimeva era espansiva, pura, era efficace in ogni cosa che faceva. Questo agli occhi dei figli e del marito: oggettivamente non era affatto bella. La casa forse non era mai stata tanto luminosa. Fu quell'anno che la ingrandirono che durante i lavori furono fatti dei ritrovamenti, proprio nel cortile. Vennero ritrovate anfore e molti oggetti di terracotta quell'anno, e monete. Vi fu dato rilievo sul giornale e un'équipe di studiosi rimase delle settimane a fare le ricerche. Essi avevano familiarizzato con tutti nella casa: era bellissimo. I bambini non vedevano l'ora di imparare a leggere. Non riuscivano a immaginare che cosa mai potessero racchiudere tutti quei segnini. O forse l'immaginavan, eccome. Da piccoli era un giocare continuo. La casa era aperta a tutti ed era incredibile la semplicità con la quale vi si facevano le cose. Poi ci furono gli avvenimenti ben più grossi e ben più importanti della guerra. Che alla fine non aveva distrutto molto ma aveva cambiato tutto. La guerra era iniziata molto prima ed era finita molto dopo.
Fu lì lì per piangere. Era angosciato più che stizzito, era angosciato anche a causa dei vetrini che avrebbero potuto ferirlo. Quelli piccoli non era facile trovar-li, neanche da lì. Gli diedero un bel da fare prima di trovarli tutti. Tanto che gli venne freddo.
Pioveva? Sì, dal rumore di fuori. Avrebbe voluto orinare per terra. Come un cane. Water per cani – pensò – se i cani avessero dei water così come li abbiamo noi non piscerebbero più per terra, diventerebbero sempre più educati anche negli altri aspetti della loro natura. Ne trarrebbero un giovamento almeno triplo.
Gli tempestava il cervello quella sentenza: "LA LEGGE CHE SI È DATO IL MONDO È L'ORDINE. A SCAPITO DI TUTTO." La legge che si è dato. Il mondo. La legge. Che. Il mondo. A. Scapito. Tutto.
Si ritrovò a giocare con una pantofola che aveva abbandonato in un angolo molte ore prima. Si addormentò così, e quando si risvegliò aveva ancora la pantofola in mano, il braccio disteso, le formiche al braccio.
Formiche terribili. Decise di alzarsi.

Torna all'inizio

Siti interessanti

Antenati http://www.girodivite.it/antenati/antenati.htm
ateatro http://www.olivieropdp.it
Femmis http://www.femmis.org
Lingue http://www.ilovelanguages.com/index.php?category=Languages%7CBy+Language
Multimage http://www.umanisti.it/multimage/poesieribelli.htm
Ellin Selae http://www.areacom.it/arte_cultura/ellinselae/testi/ellin.html
Bombacarta http://www.bombacarta.net/
Village Voice http://www.ozoz.it/village_voice.htm
Heming-way http://www.heming-way.it/default.asp

Torna all'inizio

 

grafica Kaleidon © copyright fara editore