Logo Fara Editore Fara Editore

L'universo che sta sotto le parole
home - fara - catalogo - news - scrivi - faranews
Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 62
Febbraio 2005

Editoriale: In questo tempo misurato

Faranews vi offre in questa edizione scritti di una intensità non comune: il tempo è un topos mitico, ma qui nuovi racconti, nuovi suoni e ritmi di parole "misurate" vi avvolgono e forse vi sconvolgono con energia dinamica e vivace.
Ricordare è fare entrare in vibrazione le emozioni di un vissuto ri-vissuto: un modo di rendere ciclica la linea inesorabile di chronos e quindi di eluderne in parte la misura. Ecco, lasciamoci allora trasportare dalle suggestioni di queste pagine che travalicano l'orizzonte dell'ora: La ferra legge dei volti di Ottavio Brigandì, In parole scarne di Chiara De Luca, Prove dada di Giovanni Tuzet, Appunto 4 - Fuori dal tempo misurato di Roberta Bertozzi, Cosi è di Michele Ruele, Chimismi futuristici di Enrica Musio.
Frequentate ogni tanto le pagine del nostro sito: in uscita l'Antologia Pubblica e il volume dei vincitori dell'ultimo concorso Pubblica con noi. È uscito anche il bando del nuovo concorso Prosapoetica terra-di-nessuno. Segnaliamo in calce altri concorsi. Buona lettura e in bocca al lupo!

La ferrea legge dei volti

di Ottavio Brigandì

Ho sognato, o ricordo,
dentro un agosto antico, ingigantito,
quando l'oblio bollente di un'isola
recinta dalla coltre del meriggio
veniva, nel silenzio di canicola,
da bimbo preferito a compagnia
assillante di zie
per, assorto e non visto,
osservare da riva
sollevarsi
dal fondo,
prodigiose di colore,
bolle enormi.
Incurante,
di giallo e nero pesta
e come galleggiante
nella caldera del proprio vulcano,
mormorava Vulcano al proprio mare
siciliano in dialetto
informe, familiare,
non tanto del poema acquamarino
in movimento, quanto
di storie singolari, avventurose;
narrava di bellissime
spose.
Limpidamente ho le sentite,
già trepidanti fra
mille riflessi vetrati, all’ombra
delle rocciose arcate concentrarsi;
poi coraggiosamente gettarsi in avanti,
colme di seno le braccia, e di affanni,
e di risate da quel loro cuore focoso;
e, contornate da un latteo sciame
festoso di sorelle, finalmente
esplodere negli occhi spalancati
di me sposo; e qui piangere col sole,
sparse nel loro bel bouquet sulfureo
e verde: loro mio fiore, lambite
dal volo effimero delle farfalle.


Ottavio Brigandì è nato nel 1974; originario di Luino (VA), vive e lavora a Milano. Di formazione tecnica, grazie alla militanza in un gruppo politico luinese, RedAzione, si fa promotore negli anni di alcuni convegni letterari. Nel 2004, per le Edizioni G. Laterza, è coautore insieme a Fabio Cavallari di Fuori dalla metafora del volo, dialogo sulla condizione lavorativa contemporanea che tocca temi quali libertà, alienazione, desiderio, bellezza avvalendosi fra l’altro di poesie da lui scritte; e proprio sulla composizione lirica verte l’impegno attuale.

Torna all'inizio

 

(da) In parole scarne

di Chiara de Luca

poiché si tratta di una storia
con un suo inizio, svolgimento,
e una fine aperta
perché questo incontro che cerco abbia senso, ti chiedo
dal cuore uno sforzo di pazienza e attenzione: leggere
queste poesie nell’ordine in cui sono state disposte
che è l’ordine a fatica ricostruito dei volti,
delle situazioni, della disperazione,
della speranza che riaffiora
confusamente nella memoria.
grazie.

chiara

abisso

Sono stata una bambina
mite, paffuta, ricciolina, poi
cominciò per gioco di coraggio
sfida, sorridente imposizione
forse punizione
volontà di controllare
ciò che mi pareva
di poter domare
perché la mia attenzione
abbandonasse quello che mancava
cominciò smettendo di mangiare
ciò che più faceva bene
bevendo il meno che potevo
esasperando tutto quello che facevo
e in breve fu pulsione
all’inazione
fu un lasciarsi scivolare
godendo del dolore
per espiare chissà cosa
fu incapacità d’amare
quel mio corpo che cresceva
negazione di un orrore
che nessuno conosceva
fu inerzia, fu abbandono
la vita rifiutata
come un dono.

Continuò per abitudine al dolore
cercando labirinti oscuri
perché la luce quando viene
dal buio forte
acceca
le giornate sintomi
della malattia che mi crescevo
anamnesi il passato
dove tutto era
smarrito
Morire era un vizio che sapevo
di dover abbandonare
era un rimandare
la vita al giorno dopo
e il giorno dopo
al giorno dopo ancora
all’infinito ora
dopo ora
Così tardi l’ho scoperto
che la vita è cielo aperto
che anche allora volevo, forte
respirare.

Caddi per la prima volta a dodici anni
esplorai l’abisso e ritornai
alla luce, la mia vita quasi
pochi amici, i fogli
l’atletica, i libri
il sole e le scommesse
con me stessa contro il male
ricaddi a sedici anni e ancor di più
sprofondai sospinta dal pensiero
che il verdetto di anni prima
fosse la condanna a vita
capii che l’abisso non finiva e non so come
ci trovai la luce e la rinchiusi
dentro l’anima, venne libertà
con la condizionale dell’angoscia
di cadere ancora, poi l’esilio
volontario, il sipario su tutto
ciò che è stato, la fine dell’inutile
espiazione, dopo anni
la piena assoluzione.

Troppi ancora additano
i colpevoli negli irraggiungibili
modelli imposti da spettacoli TV,
veline, giornali e passerelle
ma il boia è l’incapacità
a salvare il mondo, impossibilità
dal fondo di compiere
il miracolo:
regalare la felicità
a chi per te
e nonostante te
non ce la fa
più, e così inumanamente tu
lo senti solo, come poi sarai,
col tuo dolore e il suo,
alla mercé
del mai
Nulla nell’anoressia rimane
d’estetico se non
la circolarità impeccabile
del male.

Non leggevo riviste patinate
ma tra i primi libri Le parole sono pietre
perché c’era una bambina
di spalle in copertina
Non avevo esempi da emulare
né invidia nel guardare
donne magre e belle
non m’interessava
scimmiottare le modelle
non ricordo desiderio
di attirare l’attenzione
ma deriva paziente
verso l’autodistruzione
Una sparizione da nascondere
dentro abiti a cipolla come gusci
dove sprofondare fino al collo
Mi sarebbe andato bene anche morire
senza dimagrire.

Cercavo gli angoli allora
- e oggi ancora
a volte ci ritorno –
perché lì sembrava che finisse
il campo di battaglia insanguinato
dove incessante si giocava
la guerra civile della mente
tra la voce nera
e roca di continuo a urlare
Tu non conti un cazzo
tu non vali
niente! e quell’altra candida
sfinita,
a tratti,
a sussurrare
impercettibilmente,
Non crederci, chiaré, è Lui
che mente…

Il cibo era la tortura
che faceva più paura
ogni boccone una frustata
per costringere alla vita
a me non consentita
Mangiare era peccato perpetrato
contro la necessità
dell’espiazione, la caparbietà
dell’ossessione
a ciò non esisteva
alcuna assoluzione.

Avevo perduto in tutto
percezione del mio corpo
trasformato in nero
abito di lutto
e di me vedevo
un angelo distorto
in demone dimentico e contorto
da spasmi di silenzio
perduto in cieli ampi
di dolore, in cerca
disperata di un bagliore.

Se solo potessi ricordare
almeno in parte gli infiniti
attimi di trance in cui ho smarrito
il filo del pensiero, in cui ho perduto
tempo, spazio, senso, e mi è rimasto
bianco acceso e immisurabile
di cui non sopravvive niente
quando folle nella notte cerco
e piango forte
gli anni che ho perduto.

Dell’adolescenza non avrò
illusioni da narrare
canzoni per rivivere
emozioni, dolori o turbamenti
foto che racchiudono
attimi tenuti col sorriso
nel ricordo, non avrò
storie d’amore da gonfiare
vecchi giornali da sfogliare
piccole imprese, uscite nella notte
risa, riti, pianti, miti,
liti, baci, santi, botte,
civetterie, manie, follie, non avrò
il primo rossetto, un’ombra di mascara,
cattive né buone compagnie
iperboliche utopie
storie infelici e fedeli amici
Dell’adolescenza non avrò.

C’era un’energia tirata fuori
da chissà quale inesauribile
voragine nel buio
un forza che scavava
e mai si placava:
all’uscita da scuola, il terrore
di fermarmi, di tornare
a casa per vivere, mangiare
camminando giorni interi
solcando il disprezzo della gente
la paura di occhi in fuga
l’impotenza della compassione
quando non è
che convenienza
lasciando che il silenzio
lievitasse nella mente
(non ho mai provato
un freddo più gelato
aculei di ghiaccio sulla pelle
brina dentro il sangue)
forse muovere le gambe era sentire
che vivevo, che potevo - - -

Non ho più smesso di girare
per le strade con il walkman
avvolta nella musica a cercare
di proteggere il silenzio
dagli insulti come schegge
sulla pelle dimentica d’amore
fu allora che appresi mio malgrado
a leggere il labiale.

Lo specchio era il nemico
perché mi restituiva
perché mi rivelava
che andavo alla deriva
che dovevo agire
cessare di svanire
ma se una volta sola
avesse urlato
che potevo fare
che - - -

Un bel giorno a scuola
sul calendario appeso
i capi della cricca disegnarono
uno scheletro. Era il giorno
del mio compleanno.
È allora che ho capito
che mai avrei voluto
somigliare a loro
e da allora non ho fatto che cercare
a fiuto il dolore degli esclusi.

(…)

Chiara De Luca si è laureata in Lingue a Pisa. Ha frequentato la scuola europea di traduzione letteraria di Firenze e il master in traduzione per l'editoria dell'Università di Bologna, dove sta terminando un dottorato in letterature dell'Europa Unita. È traduttrice da inglese, francese e tedesco. Ha tradotto per Gedit le raccolte poetiche La vita promessa di Guy Goffette e Manhanling the Deity di John Deane. Una scelta di poesie dalla sua prima raccolta, per custodire l'amore, è comparsa su «Poesia» (luglio-agosto 2004). Il poemetto Anoressia è il suo secondo libro.

Torna all'inizio

 

Prove dada (1996-1999)

di Giovanni Tuzet

vogliamo un regalo di natale?
vogliamo uno sconcio regalo di natale.
per sentirci ancora una volta nichilisti.
per sentirci ancora una volta stronzi.
per sentirci liberi; per sentirci ingrati.
liberi di schiamazzare sporchezze.
liberi di starnazzare zozzerie.
liberi di squamazzare nel misero pozzo degli indiavolati.
liberi di godere di nulla; per nulla liberi.
mordendoci la coda-gola,
mostrando il fianco ai filosofi ginnasti
(ribaltano il no nel sì sì nel no
negare è affermare il negare, affermare)
e magari vorremmo sapere le parole del greco
Teofane e del fiammingo Ockeghem,
ma sappiamo solo ridacchiare
delle vulve delle papesse e delle sante senza poppe;
magari sapere preghiere pittori d’icone
monaci cantori,
ma l’apostolo pende dal fico e il fantasma,
riconosciutosi, s’uccide.
come il sociologo assolve il piccolo omicida,
figlio del grande abbandono,
così per noi, catarri del vero,
eredi e successori del novecento,
chiediamo il perdono delle colpe,
chiediamo il perdono
pel nostro peccare
sapendo di ripeccare
sino a quando, almeno,
seminandoci il capo,
il cielo non doni parole nuove.

primo giro di valzer: come la vita.
e il capodanno è passato senza emozione
con la neve a farlo più sprecato ancora,
i re magi in più hanno perso i doni per strada.
secondo giro: come l’amore.
era meglio il vento di Pirano
era meglio istriano il malvasia,
col mare buttante sassi in strada
e gli slavi assassini,
sulla rupe del persuaso
pensavo di lasciare lo studio la poesia
pensavo di aprire un’osteria.
terzo: come la morte.
il calzolaio strabico e anziano ha lustrato
le scarpe predetto giri di valzer,
vaticinato il colpo di coda di sé morituro allegro
e di me la velleità ragazzo elegante e pallido,
entrambi giunti ai margini del giro
re magi brilli per superbia ed anemia.

stazione centrale
stormi di negre a fasce fosforescenti
senso panico ora è lusso di scemi

una donna bassa, con occhi vitrei,
ha ordinato una grappa che il cameriere
vecchio ha servito, la donna ha bevuto
chiaramente in un sorsosolo ha riposto il
bicchiere che un uomo inutile ha rovesciato
per terra dove c’era segatura perché
qualcuno aveva vomitato ed il cameriere
vecchio ha tossito come una bestia sul mio caffè
nelle sale d’attesa, cercheremo il narcotico degli orfani
senso panico ora è lusso di scemi
l’orizzonte impazza d’inani quarzi

un’uxor fuxia, dal treno, si lascia oscillare la testa,
completamente andata, insensata, quasi tecnica
doxa a file, i sifoni digitali, fece-fede lo fa
fola di toxici muscoli in cartello pixel
un’ultima folla ferente la fretta, ballotta,
compra xenia e parte per l’Armenia, poliglotta, maculata.

A
oh la grande cucurbita accesa che riflette
i flussi dei cieli scarlatti con i coppi
morti degli afghani languenti al
sole zoppo degli opuscoli zitti
con i furori estatici dell’eclisse
benvenuta in cielo con gli
amici selvaggi degli artisti cornuti
che giocano al mazzo dei
sandroni degli unguenti falsi

B
in aumento in anticipo le gravi
troie che affliggono i locali
sinceri dove gli erranti bifolchi
separano le stuoie inerenti il
cielo dell’amore con i vasi
opachi dell’essenza fiorita però
molto secca mentre covano molti
presepi per sorprese repentine
sibilline sintomatiche degli
unguenti che lambiscono le tette
gloriose delle usate amiche.

loro: dada ballo di
dottori vostronori, d’aguardiente
bianca bolla di bel niente, di
dentiere giocoliere
loro: dada ballo di
dottori vostronori, belli dadi
da lanciare, vostrorrori, fra
dentiere giocoliere

Giovanni Tuzet è nato a Ferrara nel 1972. È laureato in Giurisprudenza all’Università di Ferrara e dottore di ricerca dell’Università di Torino in Filosofia del Diritto e dell’Università di Paris XII in Filosofia della Conoscenza e Ontologia. Ha pubblicato tre raccolte di poesia: Suggestioni di poesia (S. Matteo della Decima, Officina Grafica S. Matteo, 1993), 365-primo (Ferrara, Liberty House, 1999), 365-secondo (Liberty House, 2000). È stato fra gli organizzatori del festival letterario Occorrono parole, tenutosi a Pieve di Cento (Bologna) nell’autunno 2000. Ha coordinato il festival letterario Simboli in Versi, tenutosi ad Aquileia (Udine), nel maggio 2002. È redattore di Atelier, rivista di letteratura.

Torna all'inizio

 

Appunto 4 - Fuori dal tempo misurato

di Roberta Bertozzi

“l’uomo morale esige la sospensione del tempo”
(Jean Améry)

Siamo prodotti di memoria e oblio. Memoria, come nei versi di José Hierro, dove “immaginare e ricordare / si sovrappongono e confondono”. Oblio, che ha una funzione importantissima per la nostra sopravvivenza: ci permette di continuare, di chiudere i conti col passato. Il passato, tragico, sanguinario, umano troppo umano, non torna mai; se ritorna è solo nella forma edulcorata della tradizione, di quello che del passato è salvabile, passabile, infinitamente riscrivibile e tracciabile. Ha scritto Wislawa Szymborska in una delle sue bellissime poesie: “Ereditiamo la speranza – / il dono di dimenticare – / vedrai come generiamo / bambini tra le rovine”. Le rovine sono mute: niente di più falso. Siamo noi a farci sordi. Dimentichiamo. Ora, secondo il buon senso comune, chi non dimentica è vendicativo, cova astio, manca di praticità: in altre parole non si adegua alla legge biologica del tempo che vuole la cancellazione delle ferite, il loro, naturale, rimarginarsi. Ma gli uomini morali, quelli che abitano il paradosso, non dimenticano. Portano la memoria come uno scandalo, lottando contro l’oblio, tenendo vivo il taglio, il punto in cui nel tempo si è aperta una verità, buona o cattiva che sia. Significano, con questo gesto irrevocabile, la parola epoché. Taglio del tempo. Intervento sul tempo per estrapolare una essenza che si faccia significato, che si dia come risposta. Isolamento. Che diviene paradigma, materiale per il paragone, per lavorare una somiglianza. Allora la poesia. Allora tutto il fare morale della poesia che esige la sospensione del tempo, la sua cristallizzazione in compito duro, in scavo, in richiesta. In una misura fuori dal tempo misurato, da quel tempo lineare che in fuga verso un ideale futuro ci toglie dalle spalle il remoto, ci mette in una distanza di sicurezza, innescando una irresponsabilità verso il passato e quindi rendendo plausibile, moralmente giustificabile, il suo accantonamento. Portare tutto il tempo, portarne il dolore del ritorno: la memoria è il tempo che si è indurito qui, che va attraversato, contro l’oblio, contro la sua calcificazione nel nulla di una rovina.

www.calligraphie.it

Roberta Bertozzi è nata a Cesena, città dove vive e lavora. Collabora con diverse riviste letterarie. È stata fra i vincitori del nostro concorso IIIM.
Ha pubblicato la raccolta di poesie Il rituale della neve, Raffaelli Editore, Rimini, 2003 e la plaquette levatrice, Raffaelli Editore, Rimini, 2004. Collabora con diverse riviste letterarie.

Torna all'inizio

Così è

di Michele Ruele

A teatro, l'altra sera, un Pirandello - Così è (se vi pare) - nell'allestimento di Giulio Bosetti.

In un capoluogo di provincia. – Oggi.
Approfitto dell’intervallo per farmi una fumata. Non ho granché da pensare, come mi succede sempre quando sono appena uscito da teatro: sto lasciando che i pensieri ricevano una forma da sé, senza insistere a dargliene una posticcia.
Il freddo di gennaio è secco e limpido. Già: oggi pomeriggio ho osservato la luna appena sorta in mezzo al cielo sereno, adesso se ne sta appesa da una parte come una lampadina solitaria.
Sul retro dell’auditorium dove s’è radunata la folla del sabato sera c’è un’oscurità insolita. È la strada che faccio molte volte al giorno, questa, una scorciatoia per tornare a casa, o da casa andare verso scuola o in libreria…
Non mi sono accorto prima dell’uomo a pochi metri. Contro il lume della luna, ho davanti a me una maschera scura e il cappello gli nasconde tutta la fascia superiore del volto.
Forse è un tecnico o qualcuno della compagnia venuto fuori a fumare, anche lui. L’uscita del palco è proprio da questa parte.
È un po’ ingobbito, e poi distinguo il mento affilato.
Mi sembra che abbia voglia di parlare, ma forse non si fida. O forse vuole chiedermi di accendere. Vado io verso di lui. È sempre incerto. Gli sono ormai a due passi. Ci ritroviamo nel taglio di un angolo di ombra, lui nel nero e io alla luna. C’è il rumore abbastanza distante del traffico e di quando in quando le porte del teatro si aprono per qualche motivo e ci arriva l’eco di un comando o qualche accenno di discorsi di chissà chi.
L’uomo mormora qualcosa.
Io non capisco, poi le parole si fanno largo: - Soverchio amore.
- Prego? - faccio io.
- Soverchio amore - ripete l’uomo, più forte. - O forse nessun amore, o un amore diabolico, inaccettabile.
- Dice di Così è (se vi pare)? -, forse vuole parlare del dramma che stiamo vedendo.
- Già, questo danno stasera, vero?
- Ma perché – gli chiedo – Lei non era dentro…?
L’ombra fa un gesto con la mano. Sarà un insonne che fa quattro passi.
- Come Le pare… dico… lo spettacolo - ha una inflessione strana, un po’ sopra le righe e gelida, con una vocetta acuta. Allora gli interessa il teatro, non è qui solo per caso.
- Vede… - attacco io, e sto per dirgli che appena vedo una scenografia con le due uscite laterali - a meno che non si tratti di una tragedia greca - di solito comincio a sentire un senso di noia che…
Lui non mi lascia nemmeno cominciare. - Insistono tanto con queste entrate laterali, sarebbe meglio invece che l’andare e il venire dei personaggi fosse meno enfatico, e poi stasera, tutti quei movimenti dei personaggi tutti insieme, insomma, sembravano delle pecore….
Rifletto che forse è molto solo e ha voglia di parlare con qualcuno, uno qualsiasi. Non era qui per caso? Che ne sa dell’allestimento di uno spettacolo che dice di non avere visto?
Spengo la cicca con movimenti vistosi e faccio per riavviarmi verso il teatro. La luce della luna è davvero limpida, stasera.
L’uomo adesso ride, con una risata forte, sonora. Allora è pazzo - mi guardo un po’ intorno. Ma è sottile e anche anziano, cosa può farmi?
- C’era tanta gente, vero? - dice.
- Sì, sì, ce n’è tanta… Per Pirandello i teatri si riempiono sempre…
- E poi, cosa si guarda di solito? - chiede.
Capisco che devo accondiscendere un po’, poi mi lascerà in pace:
- Be', Goldoni tiene molto…
- Chi?
- Goldoni, Carlo Goldoni, sicuramente lo conoscerà anche lei… sa, La locandiera, Le baruffe chiozzotte…
- Ah, quel veneziano del settecento… viene rappresentato ancora?
- Ma sicuro, cosa vuol dire… certi testi non hanno tempo… per quanto Goldoni, in effetti… poi si vede molto Shakespeare, certo…
- Ah, sì - sembra entusiasta - sì certo, Shakespeare… e spero anche quegli spagnoli del seicento, visto che le cose antiche ancora tengono…
- Mah, più Moliére a dire il vero… e poi anche Novecento, parecchi francesi, ma creano un certo scandalo, come Genet, Sartre… e poi Beckett…
- Ah, il novecento… - dice lui - … ma la storia è tutta quanta così caotica, non le pare?… e Pirandello si rappresenta vero? Lo vanno a vedere volentieri…
- Sì, sì, sempre, è un classico, certo… non so se volentieri…
- Quegli altri, anche quelli che ha detto Lei, del Novecento, non le sembrano un po’… come dire… deboli di contenuti… gli manca forse del sentimento, quel patetico che consente anche all’intelligenza di cogliere certe assurdità… non le pare?
- Forse sì - rispondo - è un assurdo un po’ algido…
- Avete un bel teatro qui, forse un po’ grande e dispersivo…
- È un auditorium…
- Che parola antiquata per un oggetto moderno… E ci sono teatri come una volta, con la platea e i palchi, la ribalta… all’italiana?
È strano quest’uomo, vabbè, è chiaro che è svanito… Gli parlo scandendo bene: - Sì, certo, questa è una struttura moderna…
- Ma Pirandello va bene comunque…
- Sì, sì…
Lui ride di nuovo e poi dice: - Ma senta, lei cos’ha capito di questa storia che sta guardando stasera?
- Io? Guardi, il testo lo conosco abbastanza bene, è chiaro che il genero e la suocera sono amanti, però mi chiedo se Pirandello volesse davvero farne il centro della vicenda oppure se gli indizi gli sono come dire sfuggiti dalla penna…
- Lo sapeva lo sapeva, non si preoccupi - dice lui.
- … e poi mi guardo intorno e mi accorgo che la maggior parte degli spettatori ha voglia di lasciarsi consolare più che di farsi mettere in discussione - magari farsi fantasma o pazzo come qualcuno sulla scena… e inoltre, tutta questa ricerca, sembra un processo, ma i veri indiziati sono quelli che si impalcano a indagatori, a giudici…
- Lei pretende troppo, giovanotto…
Oh, insomma, anche farmi chiamare giovanotto... comincio ad averne abbastanza sul serio…
- Ma la gente, dica, non trova questo dramma troppo… come dire… azzardato… o diabolico…? - chiede e gli scappano delle risate brevi, come se non riuscisse a trattenersi. È davvero pazzo, è evidente.
Provo a dirgli qualcosa: - … oggi non si scandalizzano più di niente, ma forse non se ne coglie la portata… la gente non ha mica sempre desiderio di interrogarsi… e poi ancora oggi tutti credono che l’amore e lo spirito siano puri, innocenti, immuni da odio o da componenti oscure o da contraddizioni, invece Pirandello l’aveva già capito allora che c’è una zona oscura, alla quale occorre affacciarsi, che occorre essere tutti pazzi, o ebbri, perfino crudeli… Mah, non si possono dire esplicitamente queste cose, mica tutti le accettano…
- Non le sembrava - fa lui - un po’ troppo cupa, questa scena, in questo allestimento, tutto così grigio…? - e ancora ride. Ride anche mentre parlo, mi dà proprio fastidio.
- Mah, forse… - voglio dirgli che il regista intendeva insistere sul testo del dramma e non gli interessa l’impatto della scena, che non deve prendere il sopravvento, e poi che in verità la maggior parte di quelli che sono sul palco sono morti, forse veramente o forse solo spiritualmente, che non si sa dove è il fantasma, dove la realtà…
- Senta - mi interrompe lui e ride ancora - là non si sa dove è il fantasma, dove è la realtà… e nessuno pensa alla povera sposa, alla figlia, che è sempre assente… eppure tutti, tutti la desiderano, come la morte, la morte capisce, amano la morte, qualcosa che non c’è… e hanno tutti quei sensi di colpa, tutti sono pieni di sensi di colpa… Solo Laudisi, che ride, che ride… lui sì… desiderano la ragazza e vorrebbero essere tutti come il genero, il signor Ponza…
L’ombra ride sempre più forte, la voce ha un riverbero strano contro le pareti delle costruzioni intorno e mi sento avvolto dall’eco. La luna per un momento mi sembra che oscilli nella sua altalena di cielo limpido, ho paura che scivoli in uno strappo del cielo e mi sento come se dovessi allungare le mani per salvarla, per non farla cadere giù. La guardo, poi mi osservo intorno.
L’ombra non c’è più, nel suo angolo tagliato dal lume di luna.
La vedo in fondo alla strada del teatro, ingobbita, fermarsi per un attimo poggiata al bastone e ridere, ridere forte, con la barba a pizzo sollevata nel chiaro di luna, ridere senza fermarsi più e urlarmi, sempre ridendo: - … rifletta, giovanotto, rifletta, ma non troppo, che tanto non serve a niente…
All’improvviso non voglio che se ne vada, tutto intorno mi diventa buio e insopportabile. - Ma chi sei, chi sei tu? - gli urlo.
- Io… sono… ma che importa… Ah! ah! ah! ah!
Io sono paralizzato: - Torna qui! Dove vai?
- Non posso… vado di là… tu torna a teatro, ah!, vedrai che ridere…
Sul davanzale della finestra c’è una vecchia edizione Mondadori di Maschere nude, giallina con dei fregi floreali. C’è una pagina segnata da un giornale del 10 dicembre 1936. Un brano sottolineato a matita, con una riga regolare e perfettamente diritta, alla fine di Così è (se vi pare):

Resteranno tutti, di nuovo, sbalorditi, in silenzio, a guardarsi tra loro.
LAUDISI (facendosi in mezzo). Ed ecco, signori, scoperta la verità!
Scoppierà a ridere:
Ah! ah! ah! ah!
TELA

Michele Ruele è nato a Rovereto il 24 febbraio 1964. Laurea in Lettere moderne 1989, all'Università di Bologna. Ha lavorato dal 1989 al 1992 al quotidiano L'Alto Adige. Insegna Italiano e Latino al Liceo scientifico "Leonardo da Vinci" di Trento. Ha pubblicato: "Vampe futuriste nelle tenebre antenoree", in Futurismo Veneto, L'editore, Trento, 1991; Pestavo anch'io sul palcoscenico dei ribelli. Gli scritti letterari di Fortunato Depero, Cucùlibrì-L'editore, Trento-Parma, 1992; "Analisi dei testi letterari", Quaderni del Liceo Rosmini, Rovereto, 1997; "Le metamorfosi di Apuleio" in L'insegnamento del latino nei licei, Iprase, Trento, 1999; "Appunti in margine a un corso di traduzione letteraria" in Comunicare, Il Mulino-Itc, Bologna-Trento, 1/2001. È stato socio fondatore e curatore della casa editrice Cucùlibrì dal 1991 al 1994. Ha curato il festival culturale "Senzatitolo" di Rovereto nel 1995 e 1996. È presidente dell'associazione culturale "Paragrafi" dal 1999. Con Fara ha pubblicato Storie di frate Amodeo e Sogni d'emergenza.

Torna all'inizio

(da) Chimismi futuristici

di Enrica Musio

Sogno
Dormo,
ma il cuore
veglia,
guarda in cielo
le stelle,
e la barra
infiorata
dell’acqua
al timone.

Chitterabob
C’era un uomo e si chiamava Dob,
aveva una moglie di nome Mob,
aveva un cane di nome Cob,
aveva un gatto chiamato
Chitterabob.
Cob dice a Dob,
Chitterabob dice a Mob,
Cob era il cane
Di Dob.
Chitterabob,
era il gatto di
Mob.

IL GRILLO SBADATO,
HA LASCIATO
SUL PRATO
LA SUA GAMBA
DI VIOLINO.

Baubo,
sbugi
gloffa
faffa
paipha
ninga
babahungo
majamajama,
trugtete.

L’ALBERO,
ERA
PIÙ ALTO
DELLA
MONTAGNA.

MA LA MONTAGNA,
ERA
COSÌ
LARGA
CHE
SUPERAVA
LA TERRA.

LA LUNA,
IN
CUI
NON
TI
GUARDI.

045789775
890065547
234567689
112567889
7890568
347689006
2347685
dedicata a chi capisce i numeri…

Vita piena sonora,
più ricca di un alveare
non c’è fenomeno
che non arrivi
in questo crogiuolo,
per una trasfigurazione
indincibile,
ricordi
nomi
speranze
è come un amalgama
di luce forte
e viva
dove si riflette
il nostro volto sempre nuovo.

Non si può vivere in questa pace,
di azzurri viali
dove non c’è più un tramvai,
ogni venti minuti
candele steariche
e buste fiorite
nelle vetrine
e i visi
di spose e di bambini,
soffocati da una calda noia
alle finestre
spalancate
su un nulla
di mezzogiorno.

Un treno passeggiava,
sul quai notturno
sotto la nostra finestra,
decapitando
i riflessi
delle lanterne versicolori,
tra le botti del vino
della Sicilia,
e la Senna era un giardino
di bandiere
infiammate.

Un solo squillo,
della tua voce senza
epoca
e tutte le
gioiellerie
di questo crepuscolo
rassegnato in
pantofole
si mettono
a lampeggiare
creando
un giorno
nuovo.

L’ETERNITÀ,
SPLENDE
IN UN
VOLO
DI
MOSCA.

Enrica Paola Musio è nata a Santarcangelo di Romagna. La passione della poesia c’è sempre stata, ma in seguito all’invito di un amico, è diventata impegno costante. È stata segnalata e premiata in numerosi concorsi, fra cui il nostro Pubblica con noi.
“Mi piace scrivere poesie per comunicare, scoprire la mia sensibilità, con la speranza che la poesia non scompaia nell’efficienza, nella fretta e nell’ ipocrisia del mondo.”

Torna all'inizio

 

Concorsi letterari e non solo

Facciamo le paci? www.cittaeducativa.it/pace/concorso.htm

Poesi@ & rete www.sputnix.it/bando2005.html

Eks&Tra www.eksetra.net/concorso/bando.shtml

 

grafica Kaleidon © copyright fara editore