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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 93
Settembre 2007

Editoriale: Vita senza emozioni?

Carla De Angelis la teme e giustamente si chiede cosa sarebbe “la vita / Senza il buio della notte / Senza amore da giocare”.
E a porsi (a porci) questioni simili sul rapporto a volte davvero inestricabile fra bene e male, giusto e sbagliato, e sulla scelta tra i due a cui ogni vita vita è chiamata, giungono il racconto Tra parentesi di Marco Bottoni, i versi di Paola Castagna, Luca Ariano, Vicenzo Celli e il commento lucano di Padre Bernardo M. Gianni. In questo numero anche tre note di lettura al Goffette di Danni Antonello, alla raccolta di racconti di Alessandra Giannasi e a Banchi diversi di Bruno Cantarini. Buona fine estate!

 

Una tela

di Carla De Angelis

Una tela
Avorio che scintilla
Dono d’arte alla casa
Per giorni e molte notti
Muto
ha regalato sapienza
traforato luce e buio
compreso in silenzio emozioni e segreti

Ha costruito all’angolo del caminetto
un triangolo di sudore

un gesto lieve
Calpesta il suo e il mio dolore

***

vieni-scendi-esci
Esegui senza protestare
In cambio… qualche coccola
Che mi prendo quando ti accarezzo

***

Temo la vita senza emozioni
Abiti da comprare
Alberi da curare
Stoviglie nuove tappeti
Pareti da dipingere
Appetiti di tavole imbandite
Desideri da fantasticare

Temo di più la vita
Senza il buio della notte
Senza amore da giocare
… che la morte

***

Amava i contadini
Seminava i pensieri
Con le dita sparse di terra
… non ha bagnato il seme
che germoglia parole
il susseguirsi del tempo
la rugiada sorpresa dal sole
lo smeraldo che scorre nel fiume
una distrazione… non ha nutrito
il seme della vita

***

Guardo l’orto con le mani nude
Immobile
Arriva il lontano rumore dell’autostrada.
Il canto rauco dei gabbiani
scende sull’argento della chiocciola
Assenza di pensieri
confusi nel mormorio della luce
lenta a penetrare il giorno

***

In attesa dell’inverno per potare le rose,
del freddo per accendere il caminetto
non mi accorgo che
… già è tempo di semina

***

Sospendere i pensieri sull’uscio
Voci nel silenzio
Il sogno nel sonno
Senza affanno riscoprire vecchie foto
Dilatare cassetti e memorie
Celebrare allegramente
il tempo fra risate e rughe sulla fronte

***

Invano li occulti
Il tempo fonde come la neve i ricordi
La finestra ascolta
il ticchettio lesto di passi sull’asfalto
altri stanchi del giorno
L’ombra diventa pesante
si diluisce nel sole
La luna incerta
Si guarda intorno
una stella la incoraggia
Prigioniero in un cerchio
il desiderio fatica
a tradurre parole e
consegna a domani il rimpianto
del silenzio

***

Tono di lieve pioggia
Nuvole di arcobaleno
Cristalli imbronciati
con la voglia di allagare il mondo
trasparire la melma risolvere i perché

Sorriso rumoroso
Lunghi silenzi diluiti in racconti magici
Pulsare di vita ritrovato
nell’oblio del lutto e vagare
nelle strade in cerca
di perdersi per ritrovarsi

regalo di un’amica
Che sa attendere nel donare… nel prendere
e ripartire nell’incontro

***

Fra le nuvole ti nascondi
Per pudore o turbamento
Come un artista che ha pietà della sua opera

Ti nascondi

Non condividi l’acqua che sa di sale
Le mosche sul viso bambino
Il cibo nella spazzatura
Non ti accorgi di
Occhi che si aprono al mondo per il loro e l’altrui dolore

Per non vedere

Uomini (?) sollevano spavaldi le armi
………
ammetti da solo non puoi
Manda tuo figlio a seminare salute e rispetto
Non lo crocifiggere
Non spargere altro sangue
Concedi la vita finché vino e pane
Siano cibo del mondo
(Ti abbiamo inventato?)

***

Il disordine mi rincorre
urla addosso
impedisce l’accesso. 21
Dall’inizio di questo viaggio
scorro la strada in cerca
del filo che accorda
mente e cuore

***

La casa ha dato il benvenuto
Alla fantasia, nutrito pensieri
Distillato l’incantesimo delle parole
Altro non vuole
Nel mondo si muore di assenza

Strade piene di botteghe nascondono
tavole di pietra offuscate nel ricordo
sepolte nel fango,
tornano a brillare in un sorso d’acqua
Ascolta
profumi e vino da ubriacare
la quiete dal profondo del mare
raggiunge il silenzio delle stelle
……………
Il premio restituire tutto
…………… anche il respiro

Carla De Angelis ha pubblicato recentemente la raccolta Salutami il mare e il libro (in dialogo con Stefano Marello) Diversità apparenti entrambi premiati al Kriterion 2007 (v. foto qui sopra).

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Tra parentesi

di Marco Bottoni

E pensare che io, magari anche soltanto per un attimo, avevo, come dire (perché è proprio così che si può dire, penso) carezzato l’idea; anzi, l’avevo carezzata a lungo (che poi chissà se le farà piacere sentirsi carezzata così a lungo. Voglio dire, all’idea. Magari, si annoia), al punto che (questo lo ammetto) anche soltanto un poco, ma mi ci divertivo (divertimento innocuo, almeno spero); senza un perché, e quasi senza accorgermene, mi ci trastullavo (benché non sia nemmeno io del tutto certo di cosa voglia dire “trastullarsi”).
Comunque sia, io mi ci trastullavo.
E pensare che io (non dico per ripetermi, che è brutto) avevo visto quasi esattamente tutto, e quasi tutto quasi esattamente (e non si tratta di ripetizioni), anche se quel che ho visto magari è stato solamente un sogno [un sogno molto bello, a dire il vero, così reale che quando ti risvegli solo, nella penombra di una stanza che ha gli scuri chiusi, e cerchi un po’ a tentoni con le mani sopra il comodino, lo frughi, e le tue dita incontrano gli occhiali, l’orologio, il blocco per gli appunti (tutti gli oggetti che tu adoperi ogni giorno, e sono il marchio della tua schiavitù); quando ti svegli e non ti è chiaro niente di quello che sta fuori e neanche (ma non fa differenza) di quello che sta ancora dentro te, è proprio allora che ti viene da pensare “forse è un sogno”, e non di quello che (ricordi bene, ora) ti sembra sia accaduto nella notte, bensì lo pensi (ed a ragione) del tuo tastare cieco con le dita sopra il comodino, adesso].
Ad ogni modo, avevo visto tutto.
E (bada bene) non (su questo almeno voglio essere preciso) “previsto” [le sole previsioni intelligenti che conosco sono quelle del tempo, e quasi sempre (è molto difficile fare previsioni, specie sul futuro) sbagliano] ma proprio (più precisamente) “visto”.
Avevo visto tutto (o quasi) e non soltanto in senso figurato (“Lo vedi come sei?” “Vedi un po’ tu…” “Vediamo un po’…” “Come la vedi?” “ ma, visto che è così…” “Vedremo!”).
Anche se non come si fa con gli occhi, [dapprima è tutto un fatto (o meglio detto sia, un fenomeno) di ottica geometrica, quindi di elettrochimica sinaptica, e infine di complesse (e in larga parte ancora sconosciute) onde di risonanza di segnali (nemmeno “risonanza ” so bene cosa voglia dire, ma tant’è) di intensità bassissima (dell’ordine di alcuni micronvolts)] occhi che avevo chiusi stretti (e buonanotte all’ottica geometrica!), ne avevo avuto chiara dentro me l’immagine [o il simulacro, ovvero sia (secondo uno voglia dire, cercando le parole per descrivere) la rappresentazione (dipende se è più affezionato a Kant, a Wittengstein, a Platone)].
Tutto, avevo visto (o quasi) di te.

Dunque, avevo carezzato l’idea.
(Anche lei avevo carezzato.
Dalila).
Lei (Dalila) nel sogno (ammesso e non concesso che fosse veramente un sogno) ricordo che indossava calze nere un po’ pesanti (di lana forse, oppure di flanella, chi lo sa), ed un sorriso dolce ma imbronciato [ma quanto bella sei? A parte il fatto (e questo lo sai bene, e spesso ne approfitti) che quanto tieni il broncio sei più bella, sarà perché con gli occhi ridi sempre, anche se fai la bocca storta, e aggrotti sopracciglia e fronte e naso (si può aggrottare il naso? Chi lo sa!), ma inutilmente, tanto lo so che ridi, ridi con gli occhi, sotto le lenti scure degli occhiali] ed io la carezzavo (o forse è più corretto accarezzavo? Non importa. Non siamo responsabili di quello che succede dentro i sogni, neanche della grammatica, io penso), la carezzavo dolcemente sulla fronte e sulle gambe infagottate dalle calze di lana nere, un po’ pesanti.

Avevo visto tutto (non nel senso di ogni singola parte componente il tutto, ma piuttosto l’unità del tutto, l’interezza della realtà nel suo manifestarsi come una) tutto di te come ti presentavi ed eri nel preciso momento in cui io stavo carezzando{oltre a Dalila, s’intende [ma lei ( e questo è quasi certo, perché nel carezzarla provavo sensazioni così complesse e coesistenti fra di loro, le tattili, le uditive, le olfattive e le viscerali) la carezzavo in quello che era (quasi certamente) un sogno]} l’idea.
Tutto avevo visto di te, e in tutto questo ti avevo vista esattamente sull’orlo.
È proprio per questo motivo {c’è sempre un motivo [a pensarci, può venire da ridere, (oppure da piangere, che in fondo è lo stesso: è l’emozione quella che conta, non l’epifenomeno mimico) ma nulla accade senza una causa; tutto è causato, e nulla è casuale] se qualcosa nel nostro intimo sentire, (sia l’istintivo sorgere di una commozione o il costruirsi articolato di un pensiero razionale) prende forma e acquista dimensione, staccandosi dall’informe piatto orizzonte dell’apatia dei sensi} che ho cominciato a carezzare l’idea: perché tu {di questo ero [e rimango ancora, nonostante sia passato tanto tempo (che poi non è il tempo inteso come un assoluto a contare, a pesare; piuttosto è l’effetto che ci fa, nel suo passarci addosso, il tempo: la fretta, o la noia; comunque, l’attesa)] sicuro} eri sull’orlo.
Dire sull’orlo di cosa, è impossibile {{e inutile {dove “e” vale sia come congiunzione che come conclusione [dicasi “e, anche” (estensivo) ovvero sia “e, pertanto” (conclusivo)], perché va bene che non siamo responsabili della grammatica (tantomeno di quella che accade dentro i sogni), ma un minimo di proprietà, quando uno scrive…}} { che poi qui siamo sì dentro la parentesi ma (mi pare) fuori dal sogno, che in quello carezzavo Dalila, [e ho ancora nelle dita il tenero frusciare delle sue calze nere (di flanella, o di lana grossa, che importa, in fondo non siamo responsabili di quello che succede dentro i sogni, neanche della merceologia, io penso)]} ma il tuo sguardo {{o almeno quello che sarebbe stato il tuo sguardo, quello che io avrei visto del tuo sguardo se tu non avessi tenuto così a lungo (ed ostinatamente, credo di poter dire) gli occhi chiusi {ma è proprio questa (in fondo) la domanda: perché tenevi gli occhi chiusi, perché [anche se solo per un breve istante, così breve che un altro che non fossi stato io forse non l’avrebbe nemmeno notato, ma io ( te l’ho già detto), ho visto tutto] non hai voluto (o saputo) guardare dritto davanti a te, o intorno, o (forse meglio) dentro?} }} non lasciava dubbi: eri sull’orlo, e davanti [o intorno o (forse meglio) dentro] a te avevi il baratro.

Camminavamo {aveva appena nevicato. Non molto, in verità: una spruzzata leggera , quel po’ di neve che basta a malapena a ricoprire, sulle strade, le ineguaglianze che nel tempo [colpa del gelo, o dell’incuria, della speculazione delle ditte appaltatici o solamente (forse) del traffico pesante] si fanno qua e là sopra l’asfalto}nella notte {era un vagabondare, il nostro, più che un andare; (quando si è soli si vagabonda seguendo l’indirizzo che ci dà, di volta in volta, la punta del nostro proprio naso; vagabondare in due è qualche cosa di molto più complesso e articolato, con uno che si accoda e segue la direzione dell’altro, e continua a farlo anche quando questo si ferma, si fa precedere e si mette, sua volta, a seguire le orme di chi gli sta dietro senza curarsi di dove mai si andrà a parare), ma facendolo insieme, ed allo stesso tempo ognuno per suo conto, [se il vagabondare è vero come sono veri, nel loro bisogno di perdersi, tutti i vagabondi, va a finire che due si perdono uniti, ognuno dentro il suo percorso ed entrambi differentemente pur nella stessa, (uguale e indifferente) città] avevamo allo stesso tempo la libertà di vagare senza meta e la rassicurante certezza di non smarrirci del tutto, se non facendolo in due}e tu non mi guardavi.
Non mi guardavi perché (guarda un po’) guardandomi forse (chi lo sa) temevi {o speravi? O anche solo immaginavi? Forse epidermicamente sentivi e più profondamente [nell’inconscio, negli spazi interstiziali del tuo essere ( in quello che si potrebbe definire il tuo irrimediabile e innegabile saperti diversa dall’immagine che hai sempre costruito di te stessa)] soffrivi} di cadermi dentro.

Temevi di cadermi dentro {{questo è innegabile: se no, perché in quell’attimo che io{quello che sono veramente io, nell’interstizio sconosciuto e impresentabile dell’essere, diverso affatto dall’immagine che ho sempre avuto di me stesso [che è poi la stessa che io riconosco come “idonea”per la rappresentazione omologata e quotidiana della maschera che tu (insieme a tutto il mondo, ormai) conosci]}mi sono aperto davanti a te (o meglio, sotto a te, sotto i tuoi piedi, vuoto improvviso, mancanza mai vissuta prima di riferimenti e punti fermi, di certezze da giudicare più che consuete abituali, più che rassicuranti necessarie) tu ti sei irrigidita, come bloccata e, (soprattutto, ciò che più conta) hai chiuso gli occhi?}} perché il tuo baratro {il mio [ora mi appare chiaro come la luce del giorno, mentre sto pensando queste cose di te, ma fino a un istante fa (incredibile ma vero) non ci avrei creduto se me lo avessero detto, non lo avrei riconosciuto se me lo avessero dimostrato, non lo avrei accettato se me lo avessero imposto] era Dalila, Dalila con le calze nere di cotone spesso (o di lana) a fasciarle le cosce, Dalila dentro il girovagare delle mie carezze sul suo corpo, in quello che ( anche se questo non si può dire con certezza , perché chi sa pesare esattamente, di una carezza, quanta parte è sogno?) poteva assomigliare (o almeno era la cosa più rassomigliante che abbia conosciuto) a un sogno} ero io.

Hai chiuso gli occhi (chissà, la neve, se ha ripreso a cadere dentro il buio, chissà se la profondità che ha preso, nei tuoi occhi, il posto della luce sostituendosi alle forme definite degli oggetti ti è stata buona amica) e sei rimasta [Si fa? Con gli occhi chiusi? Davvero si può fare? E, (se e vero che si può, che esiste un modo) come si fa? O, meglio, come lo si fa? Usando quale senso? Cosa succede, dentro, di nuovo e strano e in quale modo accade di riuscirci per la prima volta (sempre che sia stata questa, per te, la prima volta)?] a guardarmi.

Camminando [( …e cammina, cammina, cammina…) Si parla meglio, camminando. Sarà che (specie se la passeggiata la fai di sera, e in una città nuova, un luogo che conosci poco) viene naturale appoggiare lo sguardo ora sulla strada, ora su qualche vetrina, o angolo di palazzo, o scorcio di architettura, e ascoltare diventa più facile, come è più bello ascoltare una musica se la si può associare (o mescolare, o confondere) con le immagini. Si parla meglio (e si ascolta, anche, meglio) quando non si è costretti a rimanere lì con gli occhi piantati negli occhi ] hai fatto {si ascolta meglio ma (anche) ci si distrae più facilmente, camminando. Automatici (come i movimenti delle gambe) si inseriscono [pensieri parassiti ma per nulla di disturbo agli argomenti di cui (alternandoci nei silenzi) parliamo io e te] immagini diverse. Io (per esempio) passeggiando con te non riesco a fare a meno di pensare alle cose che hai fatto {quelle che hai fatto davvero e (ora) non dici [e magari ti servi ( per tenerle nascoste, è chiaro) di racconti inventati di cose non fatte, di realtà non vissute ma solo vagheggiate, immaginate. Forse sognate], quello che (si tratti di un caso o di una ben determinata scelta) tu lasci fuori dal racconto che mi fai di te, un passo dopo l’altro, nella sera} altri {{anche di questo avevi voglia [una voglia incontenibile, se è vero (come è vero) che mi hai perfino interrotto (un paio di volte, o tre) mentre ti parlavo]: di parlarmi degli “altri”. Storie appena accennate, e perlopiù banali, collocate in momenti indefiniti della tua esistenza e vissute a un’età che {ad ascoltarti come le raccontavi [vaga, imprecisa, in diverse occasioni (non ho fatto fatica ad accorgermene. Io, vedo tutto) persino in chiara contraddizione con te stessa]} non avrei saputo definire [né ci ho provato, tanto era evidente che quella di cui parlavi, in definitiva, era la tua età perduta, quella alla quale anche tu (così come lo vorrei anch’io, come tutti lo vorremmo, in un modo o nell’altro) vorresti (se mai fosse esistita) ritornare] ma sempre storie che avevano, per protagonista, un altro}} dieci o cento [chi la misura la distanza? Chi li conta, i passi, quando si cammina lenti e vicini, soli, nella notte? Si guarda avanti, si guarda in giro. Si guardano i muri dei palazzi e si sbircia, ogni tanto, il comparire di un fazzoletto di cielo lassù, fra i tetti. Ci si guarda in faccia, ogni tanto (ovvero, ogni tanto io guardavo te) e ci si ritrova vicini, vicinissimi, immersi nella stessa città, nella stessa sera, nello stesso girovagare in una stessa città nella stessa sera] o forse [ecco, questo sì che vale, che ci accomuna e che ci dà piacere. Ecco cosa è che (senza saperlo) siamo venuti a cercare qui, stasera, la dimensione che desideriamo vivere, insieme, io e te: il “forse”] mille metri, con me.
Nella notte.
Ma non {{ecco, questo ti è mancato (ed è mancanza grave, gravissima. Anche se non ne hai sentito il vuoto) di me: lei, la Musica. Tu non lo sai {come non lo sapevi allora [accade, a volte, di non sapere, di non avere mai visto e né sentito, e di vivere questo stato vuoti persino della coscienza di ignorare, vuoti dell’esperienza ed allo stesso tempo così privi del senso di mancanza, che (anche avendolo) non sapremmo dire mancanza di che cosa. Accade, proprio come capita di non salire un giorno sopra un treno: il resto, è conseguenza] e come, forse, sei destinata a non sapere mai} quanto diverso ti sarebbe sembrato ogni passo, di che suono avrebbe vibrato ogni parola, e quale armonia avrebbe auto il silenzio se ci fosse stata, dentro te, la Musica.}}un passo avanti.
Così è, [troppa realtà. Troppo ineludibile la tua perseveranza ostinata, troppo imperioso l’ordine (un ordine che tu impartisci, e al quale tu obbedisci, ciecamente) di attenersi alle norme, alle regole, al così si deve dire, essere e fare. Troppa coerenza e troppa fedeltà, (questa tua meschina e banale fedeltà, questa nostra fedeltà a tutto), dentro ogni gesto per poter dire che il tempo che ti passa addosso è qualche cosa che si può chiamare vita] che non (e cosa altro c’era da aspettarsi? Cosa da una che, da mesi, da anni, da tutta l’esistenza è abitata a sapere sempre cosa e come fare, dove e quando andare, cosa e perché dire? Cosa se non un no a una proposta come questa mia, di questa notte, così assurda e irriverente, così disturbante nella sua semplicità, così rumorosa nel suo imbarazzante silenzio?) mi sei (a me, con me, di me. Per me) caduta [quanta voglia ne avresti? Quanto lo desideri? Quante volte ci hai pensato al bisogno che hai di cadere, di rompere (una volta tanto, ma basterebbe anche una volta sola) il meccanismo perfetto e immodificabile della tua esistenza, il modo che ti è stato imposto (che tu stessa ti sei imposta) di camminare sempre e comunque diritta, sempre allo stesso modo, per arrivare sempre e irrimediabilmente nello stesso luogo, a riconoscerti (impossibile sfuggire, ormai) nell’immagine stereotipata che ti sei fatta di te?] dentro.

E pensare che io, magari anche soltanto per un attimo, avevo, come dire, carezzato l’idea; anzi, l’avevo carezzata a lungo al punto che, anche soltanto un poco, ma mi ci divertivo pur senza un perché, e quasi senza accorgermene, mi ci trastullavo.
Comunque sia, io mi ci trastullavo.
E pensare che io avevo visto quasi esattamente tutto, e quasi tutto quasi esattamente, anche se quel che ho visto magari.. è stato solamente un sogno.
Ad ogni modo, avevo visto tutto.
E non“previsto” ma proprio“visto”.
Avevo visto tutto e non soltanto in senso figurato.
Anche se non come si fa con gli occhi, occhi che avevo chiusi stretti, ne avevo avuto chiara dentro me l’immagine.
Tutto, avevo visto di te.
Dunque, avevo carezzato l’idea.
Lei nel sogno ricordo che indossava calze nere un po’ pesanti ed un sorriso dolce ma imbronciato, ed io la carezzavo, la carezzavo dolcemente sulla fronte e sulle gambe infagottate dalle calze di lana nere, un po’ pesanti.
Avevo visto tutto, tutto di te come ti presentavi ed eri nel preciso momento in cui io stavo carezzando l’idea.
Tutto avevo visto di te, e in tutto questo ti avevo vista esattamente sull’orlo.
È proprio per questo motivo che ho cominciato a carezzare l’idea: perché tu eri sull’orlo.
Dire sull’orlo di cosa, è impossibile, ma il tuo sguardo non lasciava dubbi: eri sull’orlo, e davanti a te avevi il baratro.
Camminavamo nella notte e tu non mi guardavi.
Non mi guardavi perché guardandomi forse temevi di cadermi dentro.
Temevi di cadermi dentro perché il tuo baratro ero io.
Hai chiuso gli occhi e sei rimasta a guardarmi.
Camminando hai fatto altri dieci o cento o forse mille metri, con me.
Nella notte.
Ma non un passo avanti.
Così è, che non mi sei caduta dentro.

Il resto, tutto il resto, è tra parentesi.

Marco Bottoni (nella foto con Paola Castagna a sx e Leela Marampudi a dx) è nato a Castelmassa (RO) sul Po. È medico. Nel 2004 la Newton&Compton pubblica “Sullo stesso treno” nei Racconti nella Rete 2003 (presentato alla Fiera del Libro di Torino); Montedit pubblica la raccolta L’Altro e altre storie. Nel 2005 Fara inserisce “Storie di Donne” in Antologia Pubblica; Fullcolorsound pubblica “Addio” in Parole in corsa III; Giulio Perrone pubblica “Mareo” in IO scrivo – narrativa. Nel 2006 corre con la Fiamma Olimpica di Torino nel Comune di Mira (VE); pubblica con Fara la sua seconda raccolta di racconti intitolata Sullo stesso treno e altri racconti in Storie di vita. È socio fondatore della Associazione Culturale “Amici di Gianni per il Patì – Onlus” (progetti di alfabetizzazione e recupero sociale dei meninos de rua di Salvador de Bahía, Brasile). Sito personale www.marcobottoni.it

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Capire

di Paola Castagna

Sono la donna che vuole capire
mai ferma sulla riva
in ricerca da una stasi corporea
sempre per capire
confondere e non comprendere

dovrei lasciar cadere
i mattoni dalle spalle
rischio il somatizzare
delle cose

starnutire sui minuti
in spasimi improvvisi
nello sbadiglio ultimo
che tarda a venire

sono
la donna che reprime
mentre l’obolo
mi assomiglia

essere quel prezioso
di una specie
in via di estinzione

mentre il sudore
la scorsa notte
ha impregnato il lenzuolo
di mille e più gocce
lasciando di me
sagoma nel letto
nell’incavo dell’abbandono.


Paola Castagna ha appena pubblicato con noi Lettera, inclusa in Specchio poetico.

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Devi prendere l’auto e curvare coi finestrini

di Luca Ariano

ad I.

A marzo nel chiostro di San Giovanni
– lì dove studiò fra Teofilo, quel giorno
c'era una strana luce e Pilàr non sapeva
che i passi sarebbero stati frettolosi
come un bacio inatteso lontano dall'ombra.
Accanto al parco si vedono le mura,
crollate dopo l'unità, antiche orme di battaglie,
di eserciti all'assedio a depredare tesori.
Vanni, uno di quei ragazzi del Trentasei,
partito per lottare nel POUM, da settant'anni
racconta di quel compagno scrittore, quello là famoso
della Fattoria e sua nipote s'è stancata d'ascoltarlo
e fresca di tatuaggio sulla schiena con un low cost
vola verso le Baleari profumata di cocco.
La ragazzina sa come farsi desiderare,
come strappare una sera in spiaggia d'ombrelloni chiusi
e bassa marea, e Gianni – a farsi la stagione per pagarsi
l'inverno – già agli amici pavoneggerà il suo sapore.
Lorena ha imparato presto che il suo nudo profilo
allo specchio vale oro e quei seni sono un girotondo;
passano rapidi i treni merci di notte in un unico sobbalzo
sul cuscino ma domani il tuo letto sarà d'un caldo silenzio.

***

Il Franco geometra da una vita
ricorda a Bianchetti che è lui
il principale, lui che venuto con le pezze
dal sud gira in decappottabile
e il conto che s’ingrossa ad ogni nuovo appalto.
La giornalista con gli occhi gonfi della polvere
della notte prima si trucca con il suo make-up
e dietro gli occhialoni griffati finge
di non ricordare il sapore dolciastro delle federe.
Francesca – che ha poco più trent’anni,
ti dice che si stava meglio con la civiltà contadina,
ma lei è nata con immagini a colori e una casa
calda d’acqua corrente nelle parole di sua nonna
che mai ha scordato il profumo d’erba medica.
Il Paesone con tutte le vetrine illuminate
sotto Natale e giocattoli da sogno era immenso
ma poi sceso dalla tua Atala hai sentito
l’aria soffocante dell’asfalto.
Devi prendere l’auto e curvare coi finestrini
aperti per respirare ancora campi di camomilla
nel curioso sguardo impaurito d’un vecchio
e antiche stalle abbandonate dove al primo alito
pare di sentire il mugghio di mammelle gonfie

***

ad I.

Un arcobaleno – come quello
che non vedevi da anni, lì,
dopo un temporale improvviso all'imbocco
del Santuario: contano i frati i soldi
ancora lordi per l'ultima indulgenza.
Si alza il gomito della curva
e per te, uomo di pianura, un po' di ansia
dietro ogni accelerata, lontano dalle tue orme infinite.
Dietro i colli nello Stato Pontificio
si nascondevano i briganti pronti a scendere
di soppiatto dopo ogni fiera;
proprio lì durante l'ultima guerra
li chiamavano ribelli a guerrigliare i tedeschi
in ritirata, con l'ultimo passo d'oca sfinita.
Il professore e il suo degno compare,
quello che si crogiolava a farsi chiamare
puer senex scatta la posa d'una foto dieci anni dopo,
forse per la paura d'ingrigire come suo padre.
Teresina osserva dalla finestra il rosso
che cala le braghe alla sera – nelle notti sempre più lunghe,
e il volto d'un marinaio dalle piccole mani
che la carezza come una pagina di Conrad.

***

Certo che quando l'Emilio iniziò
a tradurre versioni dal latino e dal greco,
a memorizzarsi l'atlante storico
non immaginava certo di star lì a ciondolare
in attesa di una telefonata: si vedeva professore
in qualche Università a decifrare il mistero
della lingua etrusca, a scavare nel Peloponneso
alla ricerca di nuove civiltà.
S'è alzata la via Emilia e la tua casa affonda
nella polvere però val sempre la pena
di vedere cupole e torri struccarsi di rosso
per le luci della sera.
Alla prima ombra davanti al Tardini
dalla pensione quei vecchi se la contano
su come andrà quest'anno il nuovo Parma
e ogni domenica c'è qualche poltroncina vuota
per un colpo di tosse troppo forte.
Tu c'eri quando Don Leandro e Don Lorenzo
predicavano in un angolo, te li ricordi pregare
anche per te e non sai s'è rimasto almeno
un po' di marmo s'un muro per Fausto e Iaio.
Quest'anno non hai visto le risaie gonfiarsi
e stai ancora cercando nell'orto le tue farfalle,
le conti e le riconti ma i colori non tornano.

 

Luca Ariano è nato nel 1979 a Mortara (PV), è cresciuto a Vigevano e dal 1998 vive a Parma. Ha pubblicato nel 1999 la raccolta di poesie Bagliori crepuscolari nel buio presso Cardano di Pavia. Numerose sue poesie sono apparse su riviste tra cui La Clessidra, Il Foglio Clandestino, Ciminiera, La Barriera, Tabard, siti e blog letterari in internet tra cui Frontiere, Faranews, FuoriCasa.Poesia, La poesia e lo spirito, Oboe sommerso, La costruzione del verso, LiberInVersi e su antologie tra cui Oltre il tempo/Undici poeti per una Metavanguardia, curata da Gian Ruggero Manzoni per le Edizioni Diabasis (2004) e La coda della galassia, a cura di A. Ramberti, FaraEditore (2005). Collabora con le riviste Il Foglio Clandestino e Tabard. Nel 2005 è uscita la sua seconda raccolta di poesie Bitume d’intorno, con la prefazione di Gian Ruggero Manzoni, per le Edizioni del Bradipo di Lugo di Romagna.

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Note di lettura

di AR

Guy Goffette

Oltre alla eccellente traduzione di Chiara De Luca de La vita Promessa pubblicata da Gedit e di cui si trovano estratti in Farapoesia, è disponibile in italiano anche l'antologia goffettiana I canti del pescatore d'acqua curata da Danni Antonello e pubblicata da Filippo Davoli per Carte di fumo (C-Miniera, 2006). La traduzione di Antonello (che ha pubblicato anche la plaquette Tacataam Blues) è generalmente abbastanza libera e dunque adotta un approccio diverso da quello di De Luca (molto attenta anche alla scansione metrico-sintattica, ad esempio, e qui si potrebbe aprire un interessante confronto fra i due sulla teoria e la pratica del tradurre), ma offre un saporoso piatto di versi del Nostro: “la terra è un tavolo più lungo al desiderio / che alla fame, una giacca per la fuga di stanchi / amanti – e l'amore rimane / molto più in alto // come un bel lampo e dura.” (p. 85). Entrambi i libri sono strumenti senz'altro utili per accostarsi alla poetica di Goffette e per constatare con quale coinvolgemento, pur nella diversità di approccio, i due traduttori, poeti anch'essi, ce la donano.

 

Recapito postale di Alessandra Giannasi
(Edizioni Il Paese delle donne, Roma, 2003)

Questo libro di racconti (uniti da un io narrante ben presente, non a caso il sottotitolo recita: “storia di una volontà in otto desideri”) è caratterizzato da una scrittura chirurgica, a tratti spiazzante: vicende apparentemente quotidiane si tarasformano in eventi inquietanti, inattesi, kafkiani. Giannasi ha una formazione scientifica e una grande capacità di raccontare tenendo il lettore sulla corda e dandogli a volte delle (mefatoriche) botte in testa. Pur analizzando la vita con occhio distaccato e razionale, si avverte che non tutto è spiegabile, misurabile, accettabile… qualcosa sfugge, sempre e non a caso i racconti fanno uso di metafore, analogie e considerazioni a prima vista algide eppure profondamente poetiche: “Bevo smog e burrasca.” (p. 9); “Ci ostiniamo a chiamare sorte il meccanismo di eventi che non dipendono da noi e sono il frutto maturo delle scelte di qualcun altro, di qualcuno che invece a deciso.” (p. 11); “La strada è solo una ferita temporanea nella carne del bosco, una ferita polverosa e sporca.” (p. 21); “Non mi piacciono le vacanze di mare. Poi la vacanza è una mancanza … (p. 40); “Esiste un occhio che passa sopra ed uno che passa sotto, esiste uno sguardo affogato in un eccesso di pupille ed uno che si svincola.” (p, 50); “La polvere si ritira spaventa dallo straccio … (p. 77); “Nemmeno il nostro ridicolo corpo basta più per dire che esistiamo, la gente ci pianta in asso mentre parliamo per parlare con qualcuno che non c'è …” [al cellulare] (p. 116).


Banchi diversi di Bruno Cantarini
(Raffaelli Editore, 2007)

È un tuffo nella memoria di un prof che racconta i volti che hanno invaso un po' la sua vita di insegnante, questo album di versi dedicati ai suoi studenti . La dizione è piana e icastica, a volte melodica e rimata, e sa cogliere il punctum, di quegli sguardi, e sa abbracciarlo senza sentimentalismi, con semplicità: “eri bella / davvero bella per la mia giovinezza // per chi lo sei ora?” (p, 14); “Dolce Gloria / amavi tuo padre / ti lasciò d'improvviso rapito da un cielo scuro / per raggiungerlo / spiccasti il volo dalla tua finestra …” (p. 19); “con dedizione e fatica mi seguivi / rispiegando ostinata ai compagni il desiderio del cuore // questo filo d'eterno che ci troviamo fra le mani / e ignari ingarbugliamo e gettiamo via” (p. 24); “venisti a trovarmi a scuola con la divisa blu dell'aviatore // ora ha un saio cappuccino / e mi dici che mai il tuo cielo è stato csì chiaro” (p. 26); “Arrivasti dall'altra scuola / come in fuga da una burrasca” (p. 47); "Suonavi percussioni per trovare il ritmo della vita // quando lui ti lasciò / rimase soltanto il controtempo folle del cuore …” (p. 66).
Come srive Francesco Scarabicchi nella Postfazione: “I quadri di Bruno Cantarini sono visioni comuni, vi percorse d'una eterna scuola (…) ognuni è, insieme, spettatore o comprimario di quei flashback …” (p. 72).

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Dentro questo pagliaio d'acqua cruda

di Vincenzo Celli

ci sono giorni

prendimi in braccio
come fossi il tuo bambino

perchè ci sono giorni
in cui la mia cruna si perde
dentro questo pagliaio d'acqua cruda

a nulla può servire
il cappotto fatto di coperta
in questa aria rubata alle bocche

quando l'occhio scotta
come la lamiera sotto al sole
poca sarà la terra che mi basta
per appoggiarmi al tuo richiamo

cino720
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ventisei denti


quando chiudo gli occhi
tutto mi appare più poco

scompare quella luce
che si occupa troppo delle cose, indaga,

mancano i profili del presente
che il tempo lima sulle scarpe

si perde la ragione del dubbio
sperando un ritorno alla mia casa

assaggio un bivio
riconto ventisei denti
apparto una cerata

forse ancora non è tutto perduto

cino720
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donna

è spino

alla fronte
che mai tieni alta

d'ogni crocifisso
che porti croce sul petto

nel grembo ci raccogli
come figli adottati
in questi giorni circoncisi

cino720
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guardo asini volare

ci son notti
che muoiono lente
ed il buio stride
come freno sulla pelle,

luce,

un lampione livida gli occhi,

o è solo immaginare
questo vivere
lasciando impronte digitali sull'acqua;

guardo asini volare
e stringo pugni di mosche,

sorvolando terra da salvare
a nuove case.

cino 720
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Vincenzo Celli nasce a Rimini il 2 luglio 1960, città in cui vive. Dopo avere conseguito il diploma di maturità tecnica e dopo una breve parentesi, come dipendente, entra nel mondo del commercio, attività che svolge ancora oggi. Nell'ottobre 2005, scopre alcuni siti di scrittura su internet ed inizia, prima, a leggere le poesie degli altri autori, poi, a cimentarsi nello scrivere le proprie.

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Riflessione sul brano del Vangelo di Luca 4,31-44

di Bernardo Francesco Maria Gianni

È importante collegare il deserto e le scene delle tentazioni – dove Gesù inizia una sorta di apprendistato della parola – con il suo ingresso nella vicenda umana; prima attraverso l'ambiente chiuso della sinagoga e dopo per un cammino di diffusione di un disegno salvifico, che ha nel Padre la sorgente e nello Spirito Santo la potenza. L'agire di Gesù è trinitario, cioè relazionale, che è verità fondamentale anche per l'uomo cristiano, ma in generale per l'uomo, che si arricchisce e si esprime mediante l'ascolto e la parola, strumenti principali della relazione. Gesù a Cafarnao compie i primi miracoli che sono i segni con i quali rende reali le cose che Isaia aveva annunciato: «… Lo Spirito del Signore è sopra di me… e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione…» (cf Lc 4,17-20). Gesù è la parola che agisce sanando le infermità perché è una parola che è già stata scavata dentro, nella solitudine del deserto. Se trasportiamo tutto questo nel nostro vissuto – come ogni lectio divina dovrebbe esortarci a fare – capiremo come la nostra parola per essere salvifica deve analogicamente imparare questa dimensione di intimità con il Padre, per percepire come la fede non sia mai data come un fatto in sé, ma attraverso un laboratorio faticoso che è il deserto.

Si dice che Dio nessuno l'ha mai visto e che Gesù ce lo narra; però in realtà anche Gesù nessuno di noi l'ha mai visto! E la cosa incredibile è che passano gli anni e aumenta la distanza fra la nostra vita e quei fatti narrati, per cui talvolta può prendere lo sgomento, donde l'importanza di una vita di memoria con lo sguardo della fede rivolto a quegli avvenimenti salvifici, senza dimenticare che abbiamo il dono fondamentale della parola che riccorre tante volte nel Vangelo: «Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca…» (cf Lc 4,22); «Rimanevano colpiti dal suo insegnamento perché parlava con autorità» (Lc 4,32) e ancora: «Tutti furono presi da paura e si dicevano…Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti immondi ed essi se ne vanno?» (cf Lc 4,36). È una parola di vita e di guarigione che mette in crisi per sovrabbondanza tutte le aspettative e gli schemi dell'uomo e coinvolge in positivo o in negativo gli interlocutori, come ad esempio il demonio che ha una vivace reazione: «Basta! Che abbiamo a che fare con te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? So bene chi sei: Il Santo di Dio!» (Lc 4,34). Ed ecco che la parola di Gesù intima il silenzio del demonio, il principio del male e comanda di non infierire sulla vittima: «… Taci, esci da costui! E il demonio, gettatolo a terra… uscì da lui, senza fargli alcun male» (cf Lc 4,35).

«Uscito dalla sinagoga entrò nella casa di Simone. La suocera… era in preda a una grande febbre… Chinatosi su di lei… la febbre la lasciò. Levatasi… la donna cominciò a servirli» (cf Lc 4,38-39). Questa parola depositata nel cuore risanato è subito capace di amore, di vita e di servizio. «Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi colpiti da mali… li condussero a lui. Ed egli, Imponendo su ciascuno le mani, li guariva» (cf Lc 4,40). La sera è il momento dell'inquietudine e nel nostro caso c'è anche un concentrato di mali! Nessuno di noi sa, dice Agostino, da dove proviene il male e come dare una giustificazione logica, comprensibile di ciò che è la sofferenza e lo scarto che comporta rispetto al desiderio di pienezza e di bene che pure alberga nel nostro cuore. Ma in questa intensità di mali Gesù impone su ciascuno le mani; non trascura la singolarità di ognuno con la sua parola di vita e di salvezza. «Da molti uscivano demòni grdando: Tu sei il Figlio di Dio!» (cf Lc 4,41). Qui il diavolo è messo a nudo nella sua apparente fortezza rispetto al disegno sanante del Padre in Cristo con la forza dello Spirito Santo. Ed ecco il riconoscimento: «Tu sei il Figlio di Dio!». Il male, l'oscurità sa riconoscere la vera luce. Ma Gesù che inizia a raccontarci l'eccezionalità di un regno che si inaugura con la sua venuta, ci dice che questo principio del male ha ormai le ore contate.

Bernardo Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia di San Miniato al Monte:
Monaci Benedettini di Monte Oliveto
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze

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