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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 57
Settembre 2004

Editoriale: La politica non è solo economia

Sembrano essere più anonimi di un tempo gli statisti. Con il crollo delle ideologie anche i politici (ma anche gli anonimi membri di movimenti e associazioni che sembrano perseguire solo "uno" scopo) sembrano essersi accantucciati in un particulare privo di eccessive ambizioni. Sembra che si vada avanti per inerzia, attenti più al piccolo cabotaggio che alle questioni di impatto generale, forse ormai al di fuori del "controllo" dei politici, almeno a livello della singola nazione. Eppure la deontologia di un uomo o donna che si dedica alla politica dovrebbe spingerlo/a fuori dal guscio, per dare ai cittadini prospettive nuove, meno anguste, e per aiutarli a sentirsi parte di una comunità più grande dei confini amministrativi. La politica dovrebbe tornare ad essere il non-luogo dell'utopia, cioè di un progetto da attuare, anche se magari non ci si riuscirà completamente, con l'entusiasmo di chi si dedica a cose grandi. In questo Faranews abbiamo raccolto alcuni scritti "politici" in senso lato perché ci parlano (magari con ironia) dei piccoli grandi problemi che ci assillano nel quotidiano ma con un occhio attento alle più ampie e sottese questioni del rapporto individuo-società. La letteratura può difficilmente dare soluzioni politiche, ma può fornire analisi utili ad interventi politici. Questo Faranews ci propone: un racconto sui lavori estivi di Fabrizio Bolivar, un breve saggio su creatività e desiderio di Caterina Camporesi, due poesie di Adeodato Piazza Nicolai, un intenso scritto postbellico di Drazan Gunjaca, due riflessioni sul carcere di Vincenzo Andraous, due poesie di Bianca Giocolieri, una di Antonio Valeriano Pulimanti, e alcuni siti. Vi ricordiamo i concorsi per racconti e poesie Pubblica con noi e IIIM (quest'ultimo con la nuova formula che prevede l'invio di un brevissimo racconto a cui abbinare una poesia di max 12 versi) e l'uscita del reportage filippino del grande poeta Gezim Hajdari.

Come l'inferno

di Fabrizio Bolivar

Mi appiopparono quattro insufficienze e mi bocciarono senza pietà. Lì per lì la cosa non mi disturbò granché, in compenso disturbò i miei. Se vuoi andare al mare devi guadagnarti i soldi, mi dissero in coro. A quel punto la cosa iniziò a disturbare anche me.
Il giorno dopo presi la mia bicicletta e andai a cercare lavoro nei campi. Presentati qui domani mattina alle sette in punto, mi disse un tizio con un ventre da balena e con gli stivali di gomma. Sarò puntuale, gli dissi. Il lavoro consisteva nel raccogliere cocomeri in un campo e lanciarli ad un tizio che, dal rimorchio di un trattore in movimento, li prendeva al volo e li sistemava in casse.
Alle sette in punto ero alla cascina. Il tizio con il ventre da balena era già sul trattore, altri due uomini erano seduti sul rimorchio. Salii anch'io e partimmo per il campo di cocomeri. L'inferno non poteva esser tanto diverso. Sollevai il primo cocomero e lo lanciai senza sforzo. Un giochetto da ragazzi, pensai. Il terzo era già più pesante, il decimo era un cocomero di piombo. Alzai lo sguardo verso l'orizzonte, ce n'erano ancora un milione di miliardi, di cocomeri da alzare, ed erano le sette e trenta del mattino. Puttana troia, cosa cazzo ci faccio qui? mi chiesi. Verso metà mattina ero clinicamente morto: le braccia, la schiena e le gambe erano diventate insensibili, come se appartenessero ad un altro corpo. La vista mi si appannava e il cuore mi batteva nelle tempie. Alzai lo sguardo verso l'orizzonte, ce n'erano ancora un milione di miliardi di cocomeri da alzare. Vacca merda, andate a fare in culo angurie del cazzo! dissi a denti stretti. Dopo una mezz'ora mi si presentò davanti il cocomero più grande che avessi mai visto, una specie di supermegacocomero obeso venuto dallo spazio o da chissadìo dove. Non sarei stato in grado di spostarlo di un millimetro nemmeno facendo leva con un palo. Feci finta di niente, raccolsi quelli più piccoli lì attorno e proseguii lasciandomi alle spalle quel cocomero da un quintale. Dopo qualche metro il trattore si fermò, il tizio con il ventre da balena si voltò e mi disse Senti un po', ma quello lì non lo carichi? Quale? chiesi all'ombra del cocomero gigante. Quello lì dietro di te, il più grande, disse lui. Ah, dissi io, non l'avevo visto. Tutti si misero a ridere.
Il giorno dopo mia madre mi svegliò alle sei e trenta. Io ero supino e immobile, completamente imbalsamato dalla fatica. Quando realizzai che mi attendeva un altro milione di miliardi di cocomeri da alzare, misi in pratica il mio vecchio piano: lasciai scivolare la lingua in un angolo della bocca e piegai leggermente la testa sulla spalla. Muoviti, mi disse mia madre, e smettila con questa messa in scena dell'ictus! Puttana troia, era da quando avevo sei anni che cercavo di ingannarla, ma vigliacco se c'era cascata una volta.
Mamma, voglio morire, le dissi chiaro e tondo fissando la scodella piena di latte. Non dire scemenze, disse lei. Tu non sai che razza di cocomero ho visto ieri, le dissi, era grosso come un baule, mamma, renditi conto, la campagna è un posto terrificante! Un po' di fatica non ti farà certo male, disse lei. Mamma, rassegnati, tuo figlio non è portato per l'agricoltura, le dissi. Promettimi che non mi spedirai mai all'ospizio, disse lei cambiando tono. Te lo prometto, le dissi. Non è che non voglio crederti, ma per sicurezza firma lì, disse lei indicando un foglio già compilato sul tavolo. Io firmai senza indugio e tornai a letto.

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Creatività come trasformazione del desiderio

di Caterina Camporesi

La psicoanalisi, avendo come campo di indagine la dimensione inconscia e misteriosa della psiche umana e del suo funzionamento, si è rivelata particolarmente idonea ad occuparsi di quella che fra la funzioni umane è la più interessante: la creatività. Freud, consapevole del contributo che la psicoanalisi poteva dare alla comprensione della creatività artistica, nel 1930 in occasione del ricevimento del Premio Goethe, così si esprimeva: "La psicoanalisi può apportare chiarimenti che non è possibile ottenere per altre vie e mostrare così nuove connessioni nella trama meravigliosa che si stende tra le disposizioni pulsionali, le esperienze e l'opera di un artista."
Il processo di creazione, tuttavia, è un processo complesso ed intricato dove entrano in gioco molteplici fattori e non si può pretendere che l'approccio scientifico conduca un'analisi esaustiva del suo funzionamento. Freud consapevole dei limiti della scienza da lui avviata riconosce "alla poesia e all'arte in genere un fascino al quale è bene arrendersi, e agli scrittori e agli artisti un sapere che anticipa quello della scienza".
Freud si mette al riparo da qualsiasi critica di banalizzazione e di riduzionismo, quando considera gli artisti degli alleati: "essi, dice, sono degli alleati, essi sono soliti sapere una quantità di cose fra cielo e terra che la nostra sapienza scolastica neppure si sogna (...), poiché attingono a fonti che non sono aperte alla scienza."
Abbiamo un Freud che si dichiara apertamente sedotto dal piacere estetico e quasi arreso al mistero della creatività. Quasi arreso appunto, perché poi egli si avvicina intorno a questo mistero.
Si avvicina con gli strumenti che ha a sua disposizione e in qualche modo fa un'analisi e dà una spiegazione del processo di creazione.
La creatività è il risultato di un processo di sublimazione, che ha alla base la rimozione delle pulsioni sessuali infantili ed ha una dimensione individuale. Mentre per Jung la dimensione è collettiva.
Dobbiamo all'inventore della psicoanalisi la scoperta che il pensiero si avvale di due processi, quello primario e quello secondario. Il primo utilizza l'energia libera, non conosce le categorie di spazio e tempo, ed è governato dal principio del piacere, e quello secondario che usa energia legata e sottostà alle leggi della grammatica e della logica, essendo governato dal principio di realtà.
La creatività è il perfetto impasto dei due processi.
Quando la creatività di un artista raggiunge un certo grado di qualità, acquisisce un suo inconfondibile segno, un marchio che lo distingue da tutti gli altri, questo marchio lo chiamiamo stile.
"Lo stile è l'impronta di ciò che si è in ciò che si fa," dice con una definizione felice René Daumal.
Lo stile è il punto d'arrivo di un lungo e laborioso processo di trasformazione. Ma quale è la materia prima da trasformare? È l'energia, la forza istintiva, la pulsione sessuale, la libido.
La creatività che diventa arte è il risultato di un lavoro psicologico che l'artista compie al suo interno. Questo lavoro comporta un incontro e scontro di forze: quelle innovative e quelle conservatrici.
Il processo creativo per svolgersi ha bisogno della disposizione a costruire come quella di distruggere, di unire e disunire, di rimuovere e di fare emergere. La creatività permette all'autore di deporre nel testo le tracce di quello che egli è attraverso un infinito gioco di travestimenti, trasferimenti, di trasgressioni, di negazioni, di allusioni, ecc…
Ogni artista ha il suo modo peculiare di trattenere, organizzare e trasformare la sua energia e i suoi desideri.
Per non perdere tuttavia né lo statuto della comunicazione né quello dell'originalità, deve sottostare a dei limiti, che sono quelli di non avvicinarsi troppo alla lingua naturale della comunicazione comune e cadere così nell'anonimato del banale ma non allontanarsene neanche troppo per non rimanere confinato nella dimensione privata o addirittura autistica.
Dice Goethe: "L'uomo non può trovare nascondiglio migliore che l'arte come non può trovare elemento connessione con il mondo più forte dell'arte."
La parola ha la capacità di contenere l'ansia e allo stesso tempo riesce a rappresentare idee fortemente investite d'affetto e di desiderio.
Senza trasformazione non può esserci arte; la metamorfosi è la legge della vita.
Non c'è letteratura senza artifizio e finzione e come dice Pessoa: "Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva q fingere che è dolore il dolore che prova."
Lo stile rende un servizio alla comunicazione, spostando e trasportando ciò che è soggettivo e privato dai piani bassi a quelli più alti attraverso l'utilizzo di processi di trasformazione sempre più elaborati e sofisticati.
Questi processi hanno ha che fare con la capacità di contenere, di incanalare, di censurare, di spostare, di elaborare le pulsioni istintive, i desideri. L'energia non può restare chiusa al nostro interno né uscire di getto nel mondo esterno senza provocare danni nell'uno e nell'altro caso. Pertanto le funzioni atte ad arginare, ad imbrigliare, a frenare l'energia sono indispensabili.
Dice il poeta Auden in una sua composizione: "Benedette tutte le leggi metriche che vietano risposte automatiche: ci costringono ad una riflessione, liberando dalle pastoie del Sé."

Caterina Camporesi è nata nel 1944 a Sogliano al Rubicone (Fo). Svolge attività di psicoterapeuta e vive tra Rimini, la Garfagnana e Roma. Ha pubblicato tre raccolte di poesia (la più recente, Duende, con Marsilio) e collabora a riviste con recensioni e saggi inerenti ai rapporti tra creatività e psicoanalisi.

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Sonetto, all'aperto - Satura

di Adeodato Piazza Nicolai

Sonetto, all'aperto

mentre mangiavo pane e gorgonzola
una mosca forse golosa s'è appollaiata
sulla mia mano. L'aveva attirata un
profumo smoderato? Non credo, non so.
Può darsi sia stato soltanto il destino
ad incrociarci. Mi sento indelebilmente
ignorante di quella magia magnificata dal canto
di un cardellino che arresta il mio pranzo.
L'indecifrabile sua melodia
cancella per sempre le mie parole maldestre,
meschine. Come trascrivere il vento, la notte
le mie Dolomiti? Dovrei cancellarle, ma
qualche forza mi piega, mi spinge.
Sapessi almeno sillabare una preghiera...

(Vigo di Cadore, 12 agosto 2004 – ore 19,20)

Satura, ancora

Piove, sgocciola dentro il mio sangue
la bipolare tristezza senza misura
senza confini. Mi schiaccia come una mosca
sotto il suo pugno. Non so cosa fare.
La lotta infuria ogni minuto, distrugge
il coraggio. Non intravedo il minimo raggio
e dispero. Perché questa notte infinita
senza riposo? L'orrore infierisce, la fine
mi opprime eppure ancora incalza la vita.
Eppure non basta l'oltraggio del merlo
che scivola dentro la nebbia, e la mia
rabbia ingabbia un frammento di sole
sfuggito alla morsa del temporale. Non
m'è tanto dolce quel tuo naufragare,
voglio la sopravvivenza: infelice
inattesa e più dura dell'onnipresente
dolore. L'arsura sembra più grassa
se sai tollerare l'arcigna frattura.

(Vigo di Cadore, 13 agosto 2004 – ore 8,35)

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Petar

di Drazan Guniaca

“Si dice che l'uomo sia stato creato a immagine di Dio, che Dio lo abbia creato a propria immagine... ma l'uomo gli ha restituito quest'immagine...” (Voltaire)

Petar non è mai stato parte della media, per quanto questo termine di tanto in tanto possa variare in questi luoghi aspri dei Balcani. Da ragazzo era uno degli alunni migliori, uno dei pochi che potevano imparare qualsiasi materia con facilità, ma era anche un bambino molto timido. Dicevano che era perché i genitori avevano divorziato molto presto e lui fu tirato su dalle nonne e da altri familiari vicini o lontani. Finì il liceo e poi l'università, e poi arrivò la guerra. Si arruolò volontario per difendere il proprio paese, almeno così si dice, anche se alcuni dicono che una notte, in un momento di disattenzione l'hanno semplicemente portato via e gli hanno fatto indossare un'uniforme. Stranamente, in guerra è stato persino decorato con alcune medaglie al valor militare: un fatto che, mano sul cuore, nessuno si sarebbe aspettato. Dopo la guerra lo stato ha rinunciato ai propri eroi e cavalieri in fretta, e lui ha finito per ritirarsi in sé stesso sempre di più. Poco tempo dopo, all'alba di una triste giornata d'autunno nel monolocale al decimo piano del condominio malridotto in cui viveva e dal quale non era uscito per giorni, eseguì da solo la propria sentenza. Con uno sparo alla tempia.
Conoscevo Petar da tutta una vita, e lo ricorderò per le parole della sua lettera d'addio che, con mia costernazione, è arrivata nella mia cassetta della posta alcuni giorni dopo il funerale. L'ho girata tra le mani per dei giorni cercando il momento giusto per leggerla. Non esistono tali momenti per lettere del genere.

« Caro amico,
La prima cosa che mi viene in mente sono le parole di Svjetlana Alilujeva, la figlia di Stalin, che considerava l'amicizia una pazzia e un male, un fenomeno che è un peso ed un danno per le persone. Mio Dio, è spaventosa l'influenza dell'ambiente, in questo caso del suo caro papà. Ho visto mio padre solo un paio di volte e, a quanto ricordo, non aveva un'opinione precisa al riguardo. Almeno non si era mai espresso pubblicamente, anche se da alcune sue reazioni e pensieri si poteva capire che non era poi così lontano da Svjetlana. L'amore succede, le amicizie si creano, diceva sempre mia nonna defunta. Con molta fatica e dal nulla. L'amicizia è una di quelle rare perline preziose sulla collana spinosa chiamata vita, piena di ostacoli, difficoltà e ansia, che ogni giorno più stretta, preme gli spini sempre più profondamente nel tuo tessuto indifeso. Le amicizie aiutano affinché non si stringa completamente e non ci soffochi…
Sono stato in guerra. A prima vista suona così superficiale e patetico. Le guerre sono superficiali e patetiche nella loro essenza, denudate da grandi parole ed idee. In guerra mi sono fatto un paio di amicizie. Oneste e profonde. Gli amici non ce l'hanno fatta, ma le amicizie sì. Gli altri, risparmiati dalla guerra, sono stati travolti dalle dificoltà della pace. Che ironia, non trovi? Queste amicizie. Superano tutte le difficoltà della guerra, persino la morte, ma non ce la fanno quando arriva la pace. Qual è il segreto dell'amicizia? La paura? Di che?
Ricordi quella volta che ho passato due mesi in prigione per aver involontariamente ucciso un civile? Te lo ricordi, naturalmente, mi hai difeso in tribunale. Alcuni sostengono che non ci siano omicidi involontari, e se ci sono, non si trovano sicuramente in guerra. Forse hanno ragione. Due mesi in cella con una lampadina sporca sempre accesa, dove anche quel minimo collegamento con la realtà si perde sotto quella luce fioca, mi hanno liberato da tutte le paure. Allora ho capito per la prima volta cosa vuol dire essere in balia del destino. Solo, senza visite, senza amici… Fu lì che ho finalmente perso me stesso. O almeno quello che è rimasto di me dopo la guerra. Qualsiasi cosa sia stato.
Dopo ho tentanto di adattarmi, di socializzare. Adattarsi significa individuare le esigenze della società in cui vivi e coordinarle… Ho capito molto presto che non sapevo a cosa dovevo adattarmi. Quali erano questi valori sociali ai quali avrei dovuto adattare il mio mondo interiore? Nella Costituzione di ogni paese, quindi anche nella nostra, si scrive chiaramente nell'introduzione di quali valori si tratta. Ho tentato di riconoscerli nella realtà e mi sono ritrovato in una zona oscura. Ho trovato senza problemi altri "valori" di cui nella costituzione non si parla. Ho rinunciato alla Costituzione ed ho preso la Bibbia. La fede. Devi pur credere a qualcosa, non è così? Dopo la seconda lettura ho finalmente capito che il problema non è nella mia alienazione individuale, nel mio mancato adattamento, un fatto che molti mi hanno rimproverato per tutta la vita, ma bensì nel fatto che semplicemente non ho più niente a cui adattarmi. È stata proprio questa realizzazione, assieme a quello a cui sono riuscito ad adattarmi, a portarmi a questa lettera. Chi l'avrebbe mai detto che tutto questo poteva essere così logico.

Il tuo amico Petar

P.S.
Probabilmente ti starai chiedendo perché l'ho mandata proprio a te. Una volta mi avevi detto che quella mia cartella era ancora aperta. È arrivato il momento di chiuderla, finalmente, ed io cercherò di spiegare a qualcun altro come e perché ho sparato… Anche se non ci riesco, lì dove sono diretto il perdono non è una pena come qui.»

Con mano stanca ho scritto a/a sulla cartella e vi ho messo dentro la lettera. Poi ho preso la lettera, la Costituzione e la Bibbia ed ho portato tutto nello stanzino dove tengo le cartelle archiviate e dove vado raramente. Siano almeno loro a riposarsi un po' da me, giacché io non riesco a riposarmi da loro.

 

Drazan Gunjaca (1958, Croazia) è autore di numerose opere contro la guerra, di cui le più conosciute sono il romanzo Congedi Balcanici ed il dramma Roulette balcanica, tradotti in molte lingue e vincitori di numerosi premi letterari.

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Una fune sull'abisso

di Vincenzo Andraous (responsabile Centro Servizi Interni
Comunità Casa del Giovane, Pavia)

Inutile nasconderlo, la prigione non riesce a piegarsi a nessuno scopo sociale condivisibile, essa sequestra i bisogni-desideri, e stabilisce quando questi debbono essere soddisfatti, persino decidendo quando e dove sarà possibile realizzarli.
È in questa dinamica che la mente finisce in un anfratto remoto, in un angolo dove non è più possibile vedere niente.
Penso che fino a quando non si comprenderà che in carcere si va perché puniti e non per essere puniti, questa non dimensione spingerà il detenuto privato della libertà a sedersi a tavola con la morte, decidendo di guardarla in faccia e sfidarla. Senza però tenere in considerazione che la morte quasi sempre vince. È una prova questa, che indica la paura del potere della morte, ma ugualmente il carcere continua a rimanere un luogo non autorizzato a fare nascere vita nè speranza, non rammentando che l'uomo privato della speranza è un uomo già morto.
Momento dopo momento, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in compagnia del solo passato che ricompone la sua trama, e passato, presente e futuro sono lì, in un presente che è attimo dove non esiste futuro, e allora riconoscere i propri errori è un'impresa ardua.
Le analisi sistematiche a questo punto servono poco, per rendere più umano l'inumano: dalla mia ridotta specola sono più propenso a credere che occorre convincersi dal di dentro, della possibilità di raggiungere dei traguardi e degli obiettivi, per ritornare a volersi un po' bene, per riuscire a essere persone e non solo numeri usati per la statistica.
Finché i ragionamenti saranno un'estensione degli atteggiamenti negativi, le rappresentazioni mentali si trasformeranno in eventi negativi.
Il carcere è ancora, ancora e ancora quello che ben sappiamo, ma chi vive in quest'agglomerato umano ha il diritto-dovere di ritrovare fiducia in se stesso e negli altri, e ci riuscirà solamente comprendendo che l'intorno non parla, perché noi non parliamo, e peggio non siamo capaci di aprirci.
Eppure gli altri sono i mille pezzi che a noi mancano, che a noi sono sempre mancati, e finchè noi continueremo a pensare di sopravvivere senza il bisogno dell'altro, nel lungo tempo ci ritornerà questo annichilimento con la stessa intensità e precisione.
Ciò che noi diventeremo è ciò che ci siamo incisi nella mente, l'immagine di noi stessi che ci siamo costruiti si riprodurrà con un fatto concreto.
Ecco perché sono dell'idea che finchè il carcere, ma meglio dire tutto il consorzio sociale, non si attiverà consapevolmente con il suo interessamento produttivo e non pietistico, e non si predisporrà ad aiutare chi è nell'errore a ritenersi capace di essere in costante e continuo miglioramento, ebbene, questa indifferenza e questo disinteresse collettivo continuerà a seppellire quei “dettagli” che invece servono per migliorarci tutti.

 

Quel cappio al collo (a Sulmona)
Qualche tempo addietro scrissi dei tanti suicidi e dei troppi silenzi che circondano il carcere… Ricordo la risposta indifferente.
Mi sono chiesto spesso qual è il volto nascosto dietro le righe di una notizia. Qual è il volto e la storia dell’ultimo uomo scivolato in “scacco matto” in un carcere.
Quanto quest’ennesimo suicidio risarcisce in termini di umanità, al di là della mera notizia?
Penso a quell’uomo, l’ultimo della serie che s’è impiccato o asfissiato. A quel volto, a quel cappio al collo, e intravedo l’importanza di demolire i ghetti mentali, di per sé espressione di quello spirito umano… spesso incatenato.
Non conosco il volto strozzato in quel carcere, ma comprendo la difficoltà dell’accettazione del dolore, il che in una parola sottenderebbe assenza di saggezza.
So bene quant’è difficile agguantarne l’orma, e quanto a volte ciò sembri lontano, sebbene così straordinariamente vicino, al punto da non vederne neppure l’ombra.
In un carcere è difficile perforare quella superficialità che è corazza a difesa, il “muro di niente” contro cui cozziamo e moriamo.
È davvero difficile raggiungere quella falda profonda a nome interiorità, navigando tra anse e anfratti, scogli e derive per arrivare a quell’essenza che può dirci di cosa siamo capaci, e addirittura svelarci il significato da dare alla vita.
Nei riguardi del carcere non credo che tutto ciò che vi accade sia arbitrario, illegale, ingiusto, forse è solo il risultato del nulla prodotto, appunto, per mancanza di un preciso interesse collettivo o meglio della sua comprensione sensibile.
Forse sarebbe il caso di ripensare davvero alla possibilità di un carcere a misura di uomo, anche dell’ultimo degli uomini.
Perché in carcere, oltre alle ben note etichette, stigmatizzazioni e umiliazioni, va di moda la flessibilità, non quella del lavoro né della pena: umana, dignitosa, condivisa.
Si tratta di flessibilità nel risolvere i problemi endemici che soffocano l’ Amministrazione Penitenziaria, la quale pare muoversi come la nostra evoluta società, che cresce, si educa, si realizza pari passo con l’imbarbarimento dei sentimenti e dei valori, scambiati per medaglie e successi da conseguire a tutti i costi.
In galera ci si perde per sempre, perché è un luogo separato davvero, da una società che corre all’impazzata al supermercato delle suggestioni, degli ideali venduti a buon prezzo, della fede che non è amore che libera, ma fatica di pochi momenti.
In carcere è morto un altro uomo? I mass-media hanno sparato a zero sul sistema, hanno detto che si è suicidato, per l’invivibilità della prigione, per il peso del proprio reato, per la solitudine imposta…..
Ho l’impressione che occorra quella coerenza che riporta al centro l’essere umano, con partecipazione per chi subisce il dolore dell’offesa tragica, e con l’attenzione sensibile che non è accudente, né giustificante, ma un preciso interesse collettivo, affinché l’uomo possa migliorare e trasformarsi.

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Occhi scuri - Bianco d'agosto acuto

di Bianca Giocolieri

Occhi scuri

I mari profondi
sepolti dopo due occhi a zero
i tuoi
non riescono a non vibrare
onde silenziose
in corsa verso un la di tramonto
hai quasi detto tutto
e neppure ti va di dire
occhi bui dentro
dissanguano le tue colline
cerchiate di nulla.


Bianco d'agosto acuto

Il mio fiuto impazzisce
di tutta questa ora
insopportabile
elettrico
bianco
succhiato intorno al sole
lo rinfaccia
acre
contaminando
e l'aria pure
l'anima
fino all'estenuazione che non dura
su queste mura screpolate allora
scrivo il mio nome
a non morire d'afa

(da La tempesta nell'uva, Lalli Editore, Poggibonsi, 1980)

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Er sogno

di Antonio Valeriano Pulimanti (trovata dal figlio Mario)

L'antra notte, quanno dormivate,
c'era silenzio solo nella casa,
m'appare 'na faccia rossa de cerasa,
ch'arisvejava in me cose passate.

Vino sabino, Brighella colla fresa,
file de vite, amici e carognate,
lontano, fra li soni de la Chiesa,
arberi, frutta, sole, scampagnate.

'Na rondine fa er nido su li tetti,
ner cielo quarche nuvola ormai rada,
sur prato fra le gocce de ruggiada
'na gatta partorisce li micetti.

Io, regazzino, a Nonno stò vicino
de là ce stà puro zì Navina
seduto accanto un cane che stà chino
io scappo an tratto sporco de farina.

"Nonno!" Strillai arzannome de botto,
apersi l'occhi e nun vedetti gnente
quer viso co' la bocca soridente
nun c'era si guardavi sopra e sotto.

Un desiderio d'abbracciallo forte,
solo silenzio e buio nella mente,
l'odore de la notte e de la morte
e de quer sogno nun  me rimaneva gnente!

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