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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 54
Giugno 2004

Editoriale: Intercultura: un luogo comune?

Nel saggio Universalismo e intervento sociale Arrigo Chieregatti scrive: "È radicale la deculturazione che l'universalismo provoca nelle società. Riducendo le persone alla componente universale, le priva delle loro appartenenze. Quando questa filosofia diviene metodo di analisi, di verifica e di comportamento quasi inevitabilmente si chiude la strada alla conoscenza dell'altro: si cerca di vedere nell'altro quello che c'è di universale, che alla fine non è nient'altro che quello che ci appartiene."
Lo stesso autore afferma altrove: "La presenza contemporanea di contrari! Non siamo stati educati a questo. Siamo stati educati a stabilire chi ha ragione e a convincere chi ha torto: o io convinco te, o tu convinci me. Non siamo stati educati a convivere con il buio e la luce, con la vita e la morte, con la tragedia e la gioia, con la libertà e la reclusione. Si tratta, per noi, di termini che si annullano a vicenda, che non possono convivere. Quello che invece io chiamo multiculturalità è la convivenza degli opposti. È una strada nuova. È una speranza che non sappiamo dove ci porterà, che cosa provocherà" (cfr. La religione nell'era della globalizzazione).
Già in queste poche righe ci sono spunti e provocazioni su cui potremmo dialogare a lungo. Ho chiesto ad alcuni amici di offrirmi i loro liberi contributi su un tema dalle infinite sfaccettature come quello del confronto fra culture (che sono anche quelle intergenerazionali) in un mondo dove spazio e tempo sembrano essersi rimpiccioliti e confusi e i conflitti pare continuino ad essere gestiti con la "ragione" della forza. In questo numero trovate: Interculuralità e Competenze bilanciate di Clementina Sandra Ammendola, Pedagogia del servire di Vincenzo Andraous, La gabbia delle buone intenzioni di Roberta Bertozzi, La fiaba dell'Iraq di Drazan Gunjaca. Segnaliamo infine alcuni siti interessanti. Buona lettura.

Interculturalità e Competenze bilanciate

di Clementina Sandra Ammendola

Interculturalità

Perché interculturo? Per gli immigrati? E perché? Interculturo per un diritto? Per i diritti? Per i migranti come me? Come te? Perché non posso dire negro? Perché è meglio dire nero? Perché non posso dire immigrato? Perché è meglio dire oriundo, di ritorno? Eh? Per o contro? Perché sono contro tutte le sanatorie e/o leggi italiane contro l’immigrazione dagli anni ’90 in poi? Dobbiamo temere le migrazioni? Interculturalità della lingua o lingua interculturale? Perché non so l’italiano? Eh? Perché? Interculturalità costruita socialmente? Interculturo con gli specialiti non con i soggetti e le loro storie? Perché il mare e i gommoni? Perché la sabbia e le impronte? Interculturo quando scrivo? Scrivere in una lingua ospitante? Perché è una sfida, un rischio? Appropriarsi di una lingua è aprirsi a una lingua? Eh? Perché? Perché si parla di una lingua che trasporta in sé il luogo "d’origine", la radice, e lo fa passare nel luogo "di destinazione"? O forse si parla di una lingua che sceglie parole che siano in grado di dare un corpo e un anima alle definizioni dell’altro e alle sue storie? Interculturo perché ho perso? Cosa? Come? Per o contro? Perché? Perché non ho soldi per il biglietto di ricongiungimento? Perché non ho più il ricongiungimento? Perché non ho fatto carriera? Perché non sono il ministro delle pari opportunità? Perché sradicamento non rima con lavoro? Perché sradicamento rima con sfruttamento? Interculturo contro l’inserimento velato limitato ridotto? Per far emergere la doppia vita, le molte vite di un immigrato? Perché la mia immagine non mi assomiglia? Perché? Perché "Vu comprà", "Vu tornà", "Vu badà", "Vu sta là", "Vu affogà"? Perché scrivere in un’altra lingua? Una lingua in grado di decostruire immagini e concetti che definiscono l’immigrato e la sua condizione? Scrivere per rendere visibili le immagini crescenti e funzionali al sistema dominante? Musicisti colorati, esotici di origine garantita e controllata, buffoni-burattini d’occasione? Perché controllare e collocare gli immigrati provvisoriamente dentro ma definitivamente fuori dei diritti? Perché visibilità limitata e limitante? Perché "Non abbiamo avuto lo stesso passato ma siamo condannati allo stesso futuro?" Perché? Eh? Dimmi? Perché andremmo avanti senza paura nella piazza, nella panchina, nella chiesa, nella moschea, negli altari, negli angoli di strada? Interculturo per la necessità d’appartenenza, di memoria, di luoghi, di spazi comuni? Per milioni di persone che emigrano? Per milioni di persone che immigrano? Interculturo per partecipare? Per partecipare intendo, intendi, accesso allo spazio pubblico, uno spazio nel quale nessuno ha privilegi e tanto meno esclusività? Interculturo contro i permessi di soggiorno? Per il riconoscimento di cittadinanza? Per il lieto fine della cittadinanza? Devo interculturare per questo? Per il lieto fine della interculturalità?

 

Competenze bilanciate
Brevissime scene da un servizio per gli stranieri

Il mercoledì è una giornata piena: escono le offerte di lavoro al Centro per l’Impiego – ex ufficio del collocamento. Il mercoledì il Servizio Stranieri del Centro per l’Impiego è aperto anche di pomeriggio. Il mercoledì il telefono squilla in continuazione e sono poche le volte che l’operatore alza la cornetta per rispondere.
“Queste sono le offerte di oggi, si vuoi le guardiamo insieme” dice Silvia, laureata in lettere, lanciando uno sguardo verso la scrivania sulla quale sta un telefono squillante.
“Sì, aiutami, ho bisogno di lavoro” risponde un ragazzo biondo che non ha più di trent’anni.
Le offerte di lavoro, che arrivano al Centro per l’Impiego da Privati e da Enti Pubblici, vengono stampate su fogli A4. Silvia tiene gli occhi fissi sulla lista di offerte, ma ogni tanto si distrae: il tavolino circondato da sedie al quale è seduta con il ragazzo biondo che non ha più di trent’anni è in mezzo ad altri tavolini, sette tavolini in totale, dove altri stranieri parlano tra di loro o con altri operatori del Servizio. Difficile. Difficile non distrarsi. Silvia fa delle domande al ragazzo biondo e non riesce a trovare un lavoro che faccia per lui, si alza e cammina verso la scrivania sulla quale stanno un telefono squillante e una pila di bigliettini bianchi.
“Senti, oggi non ci sono offerte di lavoro per te, dovresti aspettare mercoledì prossimo. Comunque ti lascio il biglietto con i nostri numeri di telefono. A volte qualche ditta ci chiede dei nominativi, non si sa mai, telefona e chiedi di me, Silvia.”
“Ma, è quattro mercoledì che sono qua” dice il ragazzo biondo e non si alza della sedia. Nelle sue mani ha ancora i tre fogli A4 con le offerte di lavoro, sul tavolino è rimasto il biglietto bianco con i numeri di telefono; Silvia, invece, è in piedi “aspetto lavoro qua” afferma il ragazzo biondo che non ha più di trent’anni.
“Oggi non ci saranno più offerte di lavoro, sono tutte qui, e tu non hai le competenze, l’esperienza per questi lavori. Sai fare un curriculum?” Con questa domanda Silvia è costretta a sedersi di nuovo.
“Fatto domande scritte con te e curriculum con copia di permesso di soggiorno e di libretto di lavoro, primo mercoledì io qua. Aiutami con lavoro oggi, non con carte.”
“Ah, sì, hai fatto il Bilancio di Competenze, i tuoi dati sono nella nostra Banca dati. Oggi non ho un lavoro per te e adesso devo lasciarti, ci sono altre persone che hanno bisogno, come te, sono senza lavoro, li vedi? Alcune sono perfino in piedi, devo aiutare anche loro”. Silvia offre la sua mano destra al ragazzo biondo seduto con i fogli piegati in mano. “Telefonami, ti saprò dire qualcosa in settimana, ricordati di telefonare. Ciao, a presto.”
Silvia si avvicina alla scrivania sulla quale stanno il telefono squillante e una pila di bigliettini bianchi con i numeri di telefono del Servizio Stranieri del Centro per l’Impiego, e cerca il foglio Passaggi dove segnalare il lavoro appena svolto specificando provenienza, residenza e motivo della richiesta dell’utente. Non trova il foglio e decide di alzare la cornetta; poi scrive in un’agenda, alla pagina Venerdì 11 ottobre, un cognome e, tra parentesi, (nordestdiritorno). Quando alza lo sguardo nota il ragazzo biondo che non ha più di trent’anni di fronte al cestino della carta. Osserva la scena per qualche minuto finché un suo collega, Davide, la chiama con urgenza, impazientemente; ha bisogno del suo aiuto con una signora che parla solo il francese.
“Silvia, cosa fai? Ti metti anche a rispondere al telefono adesso? Vieni, questa non capisce niente e, secondo me, è una clandestina, non ha documenti, credo, non so prova tu” conclude Davide, laureato in giurisprudenza, guidando Silvia al tavolino al quale si trova una signora con dei vestiti colorati.
Silvia offre la mano destra e un tiepido sorriso alla signora dai vestiti colorati. Davide e Silvia si siedono, Silvia fa delle domande in francese, parlando lentamente. La signora dai vestiti colorati abbassa la testa e fa cenno di no, poi fa vedere un passaporto di colore verde, scaduto. Silvia insiste con il suo francese, spiegando che loro non possono aiutarla, che non possono trovarle un lavoro se lei non ha dei documenti in regola. Il servizio è per chi ha un permesso di soggiorno regolare. Silvia, nel suo francese accademico, dà consigli sull’importanza di imparare l’italiano per poter avere un lavoro. La signora dai vestiti colorati rimette nella borsa il passaporto abbassando di nuovo la sua testa; si alza lentamente e offre la mano destra a Silvia. La signora dai vestiti colorati si allontana, a testa bassa, verso l’uscita, Davide e Silvia rimangono seduti, scambiano qualche opinione, qualche ipotesi multietnica, cercano di capire.
“Ciao David!” saluta un signore con una cravatta vecchia. “Ho portato los documentos de mia moglie.”
“Ciao, hola, come stai, Arnaldo?”. Davide è amichevole e si dimentica della signora dai vestiti colorati e degli altri stranieri che sono in attesa agli altri tavolini.
“Ha un appuntamento il signore?” interviene Silvia, un po’ ansiosa, rivolgendosi a Davide.
“È un caso speciale, domani ha appuntamento in Questura e devo solo controllargli tutti i documenti, oggi” si giustifica Davide. Silvia non è convinta.
“Non mi sembra un caso speciale. Perché non ha un appuntamento, come gli altri nordestdiritorno? Tu fai sempre a modo tuo e non fai rispettare le regole a tutti. Oggi è mercoledì, dovremmo occuparci solo delle offerte di lavoro, il resto solo se urgente e con appuntamento. Questo è sempre qua, e si approfitta e non è nemmeno un nordest di ritorno. Che vada in Calabria” si lamenta Silvia notevolmente irritata. “Oggi ci siamo solo noi due in Front Office e la stagista che non dovremmo lasciare da sola. Nadia e Riccardo stanno completando la banca dati e Donatella e Marina sono in Questura per i decreti di espulsione. Vedi tu.”
Davide abbassa la testa, Arnaldo, il signore con la cravatta vecchia, è ancora vicino a loro, con una cartellina in mano, e non si muove. Silvia aspetta ma il suo collega non ha risposte per lei, Davide prende per un braccio il signore con la cravatta vecchia, Arnaldo, e cerca un tavolino lontano. Ne trova uno nel servizio a fianco del loro, il servizio stage per i cittadini italiani. Silvia è chiamata a un tavolino da un signore con moglie e due bambini.
“Mira, David, te porte tutto, tutto, penso” inizia Arnaldo, il signore con la cravatta vecchia, aprendo la sua cartellina e facendo vedere a Davide i fogli in un certo ordine. “Tutti hanno la traduzione e los sellos del Consulado Italiano dell’Argentina.”
“Controlliamo bene tutto, aspetta che prendo nota”. Davide si alza e va a prendere un foglio bianco dalla scrivania sulla quale stanno il telefono squillante e i bigliettini bianchi. Poi prende una cartella rossa da un cassetto della scrivania. Quando torna dal signore con la cravatta vecchia, Arnaldo, trova insieme a lui un ragazzo.
“Te presento mio figlio più grande, Mauro, ha bisogno di un lavoro”.
Davide saluta il figlio di Arnaldo, il signore con la cravatta vecchia, Mauro e rimane confuso con la cartella rossa in mano e i fogli sparsi sul tavolino. Scrive un elenco mettendo in ordine i certificati che ha davanti a sé. Arnaldo mantiene un sorriso conciliatore; suo figlio non sorride e sembra un po’ imbarazzato, parla con lui in argentino e gesticola con gli occhi mordendosi il labbro inferiore.
“Sì, hai tutto, faccio le fotocopie. Ci teniamo anche noi una copia di tutto, è meglio. Torno subito.”
“¿Para qué te hace las fotocopias? ¿Por qué tienen que quedarse éstos con las fotocopias de nuestros documentos? Vos no decis nada, ¿hacen lo qué quieren? ¿Es una manera de controlarnos, o no?” chiede Mauro a suo padre.
“No te preocupes, ellos saben, no pienses mal. Ahora le digo si te puede conseguir un trabajito. Vos callate.”
“Ecco le fotocopie, a posto, direi. Domani arriva un po’ prima in Questura, e non metterti nella coda con tutti gli extracomunitari, tu hai l’appuntamento. Devi dire alla polizia che ti mandiamo noi del Progetto nordestdiritorno e gli mostri il biglietto con l’appuntamento. Non dire nulla che tu in realtà hai origine calabresi, va bene? Mi piacerebbe accompagnarti ma non posso, devo essere qui, abbiamo tanto lavoro, come vedi, ma se ti fanno problemi basta che telefoni, hai i nostri numeri?” e Davide si alza in piedi cercando di chiudere l’incontro.
“Sì, sì, ho el papel bianco con i numeros. Ahora volevo chiedere, para mio figlio, sta senza lavoro, può lavorare?” dice il signore della cravatta vecchia, Arnaldo, seduto senza dare segnali di voler allontanarsi dal tavolino.
“Non mi ricordo, fammi capire, lui ha l’appuntamento per la Questura?” chiede Davide chiudendo la sua cartella rossa e spostando di nuovo la sedia questa volta verso l’esterno.
“Certo, certo. Ha appuntamento per il 29 ottobre. Vedi?” e tira fuori un pezzo di carta con il timbro della Questura e la data dell’appuntamento. “Può lavorare? A Buenos Aires faceva il chimico, controllo di qualità, a Roche, il laboratorio di farmaci. Ha dieci anni di esperienza. Hai un lavoro per mio figlio?” insiste il signore della cravatta vechia, Arnaldo, toccando la spalla sinistra di suo figlio Mauro.
“Fammi pensare. Forse è meglio fare il Bilancio di Competenze, cosa dici?” domanda Davide rivolto a Arnaldo. “Direi di sì, lo facciamo, aspetta un attimo” conclude Davide senza aspettare alcuna risposta da loro.
Davide si avvicina alla seconda scrivania del Servizio, dove c’è la stagista. La stagista del Master sull’Immigrazione, che sono io, deve realizzare 250 ore di stage presso un Servizio che lavori nell’ambito dell’immigrazione.
La stagista, che sono io, sta controllando la posta elettronica del Servizio Stranieri quando Davide le dice:
“Mi serve il computer. Quando puoi, appena possibile, mi stampi un Bilancio di Competenze? E poi vieni con me, lo facciamo insieme, sono argentini!”.
“Con la posta elettronica non ho ancora finito, vengo con te lo stesso?” chiede la stagista, che sono io.
“Sì, sì, la posta non è urgente. Prova a stampare il modello del Bilancio adesso.”
Il Bilancio di Competenze è una Scheda professionale di cinque pagine con una sezione di approfondimento per cittadini stranieri e un allegato per le conoscenze informatiche, otto pagine in tutto. La richiesta di lavoro al Servizio comporta, per l’utente, l’iscrizione in una Banca Dati del Servizio; per essere incluso in questa lista, l’utente deve completare un Bilancio di Competenze, una specie di intervista/questionario realizzata da un operatore, a volte in presenza di altri connazionali o parenti. La compilazione del modulo – una scheda tarata per l’italiano medio, nella quale lasciare non solo le impronte – richiede circa mezz’ora. La stagista pinza i fogli e li consegna a Davide che la invita a seguirlo.
“Eccoci, adesso ti faremo delle domande. Lei è Sandra, è argentina pure lei” dichiara Davide senza spiegare il ruolo di Sandra, la stagista, che sono io, e provocandole quindi un po’ d’imbarazzo.
Iniziano le domande, dopo aver richiesto un documento, il passaporto, al figlio di Arnaldo, il signore con la cravatta vecchia, Mauro. Le domande vengono rivolte al padre e non al figlio, meglio il padre; Arnaldo, diventa una specie di mediatore linguistico verso il figlio nei confronti dell’operatore. La comunicazione è mediata, possiamo dire, e circolare, nel senso che le domande e le risposte circolano tra tutte le persone sedute intorno al tavolino: l’operatore Davide che legge le domande, il richiedente lavoro Mauro che cerca di capire e di rispondere, suo padre Arnaldo che cerca di capire e di tradurre sia le domande sia le risposte e la stagista Sandra che cerca di imparare e deve ritradurre le parole non chiare sia in argentino sia in italiano e l’operatore Davide che scrive le risposte.
“Tu hai conoscenze informatiche?” domanda Davide già alla terza pagina del Bilancio.
“Computadora?” chiede Mauro girando la testa a destra e a manca.
“Sì!” rispondono Arnaldo, Davide e Sandra.
“Si, estudié computación”.
“Allora fai una crocetta vicino ai programmi che conosci” spiega Davide consegnando l’allegato per le conoscenze informatiche a Mauro.

È un momento di riposo generale per le persone del tavolino, Davide scambia qualche battuta con Sandra, Arnaldo segue le crocette del figlio Mauro. Nello stesso momento Silvia si avvicina al tavolino, dice qualcosa all’orecchio di Davide e si allontana in modo brusco ignorando tutti gli altri.
“Hai finito Mauro? Fai con calma, io adesso devo andare, hanno bisogno di me le altre persone. Potete continuare il Bilancio con lei. Se ci sono problemi mi chiami Sandra, tanto tu lo hai già fatto, vero?”
La stagista, che sono io, si è trovata in questa situazione altre volte e ha sempre risposto di sì, che era vero. La stagista prende in mano i fogli e chiede a Mauro, quando ha finito con le crocette, se preferisce continuare il colloquio in argentino o in italiano. La risposta è in argentino, poi la stagista legge le domande sia in italiano sia in argentino e scrive le risposte sul foglio in italiano. Il signore con la cravatta vecchia, Arnaldo, chiede se può uscire per il tempo di una sigaretta, la stagista acconsente e rimane da sola con il figlio di Arnaldo, per quasi dieci minuti.
“Bene, quest’ultima parte è sulle competenze professionali, ci sono cinque domande” comunica la stagista a Mauro “sulle tue competenze di base, sui punti di forza che sai di avere.”
“Ah, por cierto” dice Mauro senza voglia.
“Hai interessi e attività anche extra-professionali?”
“Cosa?”.
“Sì, hobby, interessi personali” la stagista lo dice con vergogna “ma a questa domanda non sei obbligato a rispondere. Andiamo avanti con le altre domande, se vuoi.”
Dopo dieci minuti la stagista ha finito e chiama Davide per un controllo. Davide torna con gesti amichevoli come all’inizio dell’incontro. Tutti sono in piedi, stanchi. I fogli devono essere firmati sia dall’operatore sia dal richiedente lavoro e bisogna scrivere la data della richiesta. Manca il curriculum vitae di Mauro, che ha promesso di inviarlo per posta elettronica.
I saluti di congedo sono numerosi, le raccomandazioni sono precise: essere puntuali in Questura con tutti i documenti, il giorno dopo; trovare un qualsiasi lavoro subito.
La stagista osserva i due uomini che escono e li sente simile a lei, con tante illusioni e tante strategie di sopravvivenza.
“Cosa fai a pranzo, Sandra?” La voce di Davide interrompe i pensieri della stagista.
“Non lo so, forse mangio un panino, al bar”.
“Vieni in mensa con noi, ti mangi un piatto di pasta o delle verdure. È sempre meglio di un panino, non credi?” dice Davide deciso e convincente. “Abbiamo bisogno di staccare per un po’. Siamo aperti anche nel pomeriggio, oggi. Il mercoledì è una giornata piena.”

(agosto 2003)

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Pedagogia del servire

di Vincenzo Andraous (tutor e responsabile Centro Servizi Interni
Comunità Casa del Giovane, via Lomonaco 43 Pavia 27100, tel. 0382-3814462)

Occorre educare bene, educare con amore e fiducia: parole affermate da chi grande è stato ieri come Don Enzo Boschetti e da chi oggi come Don Franco Tassone prosegue nel campo della pedagogia del servire alla Comunità Casa del Giovane di Pavia.
Nell’incontrare tanti giovanissimi e tanti adulti in una comunità, viene da pensare ai volti nuovi e alle carni zigrinate dagli inciampi, dalle droghe, dagli abbandoni seguiti a catena.
Viene da pensare agli abiti vecchi e al tempo che ogni cosa riporterà al suo posto, ma io che di tempo ne ho avuto tanto, a ben pensare non so ancora bene cos’è, figuriamoci se posso spiegarlo ad un giovanissimo che del tempo a venire non sa che farsene.
Ascoltando (i ragazzi) e le più autorevoli figure di riferimento nel campo della pedagogia e del metodo educativo, mi rendo conto che nel tentativo di "tirare fuori", di costruire e crescere insieme, non può resistere all’usura del tempo chi parte per "questa avventura" con un bagaglio di certezze inossidabili, di regole intransigenti, di binari singoli.
È difficile sapere, conoscere e agire, quando un giovane se ne sta impettito, a muso duro, felice di avere scelto il vicolo cieco, è davvero difficile spiegargli quanto è doloroso, POI, il resto che se ne ricava.
Prevenire con progetti condivisi e realizzabili rimane solo una intuizione che soccombe alle pressioni economico-politiche: reprimere costa meno che prevenire, ma il risultato è l’accettazione dell’esclusione, del "sei fuori dal gioco e ci rimani".
Messa in prova, misure alternative, meno carcere per il minore, più tutela per chi arranca, ebbene, stanno per diventare strategie pedagogiche obsolete.
Mi chiedo quale può essere il metro di misura da usare con chi è lacerato dentro, se poi questa vista prospettica richiesta al conduttore, è annebbiata da queste norme a venire.
L’impressione che si ricava nel camminare insieme alle tante lentezze e devastazioni interiori, è che non solo è difficile ben operare dalle ridotte specole di osservazione a causa della marea di disagio dilagante, ma lo è anche soprattutto per l’avanzare di nuove forme di malessere, che non hanno più l’etichetta protestataria di un tempo. E’ un inverso ipnoticamente diritto che assale generazioni diverse, che si insinua più facilmente in chi non ha strutture mentali formate, in chi nell’evoluzione intellettuale ha ceduto sotto il peso di una libertà inconsciamente percepita come una condanna, per l’incapacità ad onorare reciprocamente le proprie responsabilità.
E’ un disagio che avanza, che intacca aree di vita in maniera sempre più esponenziale, allora, e forse, per chi conduce attraverso eredità pedagogiche più che mai attuali, perché mai minimamente superate, è necessario accrescere la consapevolezza che l’unica ricompensa per essere riusciti a ben educare , “è averlo fatto” davvero.

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La gabbia delle buone intenzioni

di Roberta Bertozzi

« La volpe e la gallina, stanche della continua guerra (imposta da secoli di narrativa) che s’erano fatte, decisero di darsi tregua. "Se tu provassi", disse la gallina, "tutto il giorno nell’angoscia del tuo arrivo…". "Se tu fossi in me", le rispose la volpe, "sempre costretta a cacciarti per sopravvivere…". Detto questo furono mosse a compassione l’una per l’altra e si abbracciarono. Decisero di scambiarsi la pelle per gioco, per provarsi i reciproci panni. La gallina trovò che la pelliccia della volpe era morbida e piacevole, la volpe indossò le penne della gallina e impettita esclamò: "Coccodè!". Mentre si divertivano per l’aia arrivò un uomo. Questi imbracciò il fucile e seccò con un colpo la gallina travestita da volpe, poi prese la volpe travestita da gallina e la mise a covare le uova. Non era già più il tempo delle favole, ogni cosa doveva tornare al suo posto.»

Ogni persona prima di essere una cultura, un ambiente di provenienza, una eredità d’origine, è una persona. Legarla alla sua cultura è legarla a quello che sappiamo di lei come termine astratto, come categoria, è vederne solo lo stereotipo contro quello che in essa rappresenta l’universale: la sua umanità, il suo essere un individuo. Noi spesso confondiamo l’abito per la persona, credendo, nel fare questo, di comprendere in anticipo il suo desiderio (per via d’una buona intenzione, dunque). Ma le persone non sono concetti, si scambiano spesso i panni, in una vita vivono tante vite, sono tante anime. L’enfatizzazione della cultura come sfondo esistenziale (e di praticabilità) di ogni individuo non fa che assimilarlo sempre di più a un orizzonte già dato. Quindi toglie orizzonte. Enfatizzare le caratteristiche culturali, pensarle come assolutamente determinanti, porta alla privazione di una vera possibilità di scambio (che si gioca anche sulla seduzione di ciò che nell’altro ci attrae e non solo sulla repulsione – del nuovo, dell’incerto – che va mediata attraverso le agenzie interculturali). Significa relegare le persone a una presunta appartenenza (quindi al passato) e non comprendere il loro desiderio (che è il loro futuro): significa mettere sempre la volpe nel bosco e la gallina nel pollaio perché così è sempre stato (fortunatamente oggi il bosco e il pollaio hanno confini sempre più incerti, oggi che l’ambiente non è più quello circoscritto da un territorio, non più roccaforte ma ambiente mobile, flusso, frontiera).
Noi siamo da sempre educati alla presenza di contrari, lo siamo tramite il dialogo (e preferirei la parola conversazione) che è la forma più civile di negoziazione del desiderio. Siamo abituati fin dalla nascita a, per così dire, contrattare uno spazio di convivenza con tutto quello che è diverso, che non è la nostra persona. L’insistenza con cui oggi ci si accanisce sulla diversità culturale genera solo altra paura, genera l’idea di una zona in cui non è possibile meticciarsi perché zona distinta, intoccabile, da tollerare. Ma questa prospettiva è falsa: ogni cultura è già da sempre intercultura, assorbimento di spinte e scoperte, relazione e scambio. Quello della purezza della tradizione culturale (che si delineerebbe come un distinguo dalle altre, che oggi è l’equivalente di un valore da salvare) è un falso mito così come è un falso mito quello della purezza della razza. Miti che nascono dalla volontà di ricondurre ogni cosa, ogni persona a un modello, a confini ben solidi e stabiliti, accertabili e codificabili. Miti che si ripresentano proprio quando cresce l’irregolare, il multiforme. Accade che, dove regna la geometria, sia l’umano a essere assente. Le persone non sono entità cristalline ma zone d’opacità, miscuglio culturale e pare che sia proprio questo a spaventarci: la loro fondamentale inafferrabilità in uno schema, in un paradigma.
Quando una cosa diventa opaca noi la mettiamo in un qualche posto dove una qualche luce la tocchi: si sa, una cosa deve avere per forza una forma! Ma insistendo con questa categorizzazione rischiamo di costruirci una gabbia di cui le culture, le provenienze, le tradizioni, la memoria rappresentano le sbarre di ferro, linee di demarcazione fra gli individui, sempre più insormontabili. Ogni individuo è più che la sua cultura, è più che la sua memoria: è il punto di intersezione di incontri ed esperienze, è tante storie avvenute e a venire e non la vittima di un discorso che lo precede e a cui s’intende ricondurlo. Il punto di sfida non è la diversità culturale ma la diversità individuale, la libertà di scegliersi fuori da ogni dogmatismo. Oltre ogni luogo comune.

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La fiaba dell'Iraq

di Drazan Gunjaca

Nel 1904 è morto a Baden-Baden il grande Cecov. Tra tutti gli scrittori c’era soltanto Maksim Gorki a porgli l’ultimo saluto. Mente stava aspettanto il suo feretro alla stazione ferroviaria di Mosca, dietro a sé, con sua sorpresa, vide una grande orchestra d’ottoni prendere posizione. “Allora non l’hanno dimenticato”, pensò alquanto sorpreso. Il feretro fu portato fuori e loro se ne stavano in silenzio. Gorki li osservava stupito mentre loro continuavano a stare fermi ad aspettare. Allora arrivò un altro feretro, quello di un generale, e la banda iniziò a suonare... Gorki disse dopo che non aveva mai sentito suonare peggio... Ecco, se non fosse stato per il generale, Cecov se ne sarebbe andato in silenzio proprio come è vissuto.
Sono stato un ufficiale nell’ex marina militare di uno stato distrutto dalla guerra. Mi ricordo i nomi delle navi. Nella mia compagnia le navi portavano i nomi delle più grandi montagne, mentre in quella vicina portavano i nomi degli eroi di guerra. Non ricordo nessuna nave che portasse il nome di qualche poeta. Dopo tutto, cosa ci farebbero i loro nomi su strimenti di morte? Povere montagne, che colpa hanno? Pensate che noi eravamo un’eccezione? Neanche per sogno. Date un’occhiata, quando ne avrete l’occasione, ai nomi delle navi delle vostre marine militari. Potete immaginare una portaerei americana col nome di Martin Luther King? A cosa servirebbe una portaerei col suo nome?
È da un po’ di tempo che non scrivo niente. Di argomenti ce ne sono a volontà ma mi manca la motivazione. Ed io non riesco a funzionare senza un motivo. Mi sembra tutto insopportabilmente prevedibile, tanto che ci rinuncio dopo un paio di frasi. Mi sembra di aver stufato me stesso e gli altri. La verità può essere terribilmente noiosa. Il suo lato oscuro è sicuramente molto più eccitante. Dicono che la verità porti alla giustizia. Sto leggendo l’ultimo romanzo della scrittrice belgradese G. Kuic, “La fiaba di Benjamin Baruh”, nella quale si legge in modo palese che la giustizia esiste soltanto nelle fiabe.
Chi definisce cos’è la verità, e con questo anche la giustizia? I poeti? Ma per piacere... Le definiscono quelli i cui nomi vengono dati alle navi da guerra. Quelli per cui suonano le bande d’ottoni “per dovere d’ufficio”... Gli altri sono soltanto statisti nel loro mondo... Nel mondo dei poeti non ci sono le bande, non ci sono le medaglie, non c’è niente oltre al cielo disteso tagliato a pezzettini da quegli altri, in nome di qualcun’altro e per i propri bisogni. Sono appartenuto a tutti e due questi mondi. Non sono sicuro di poter dire che nessuno di questi mondi artificiali mi sia del tutto accettabile. Col passar degli anni, il giusto mezzo è sempre più sottile, la zona grigia sempre più stretta nonostante tutti cerchino di entrarci volendo allo stesso tempo essere parte di uno e dell’altro, anche se questo non è possibile. Naturalmente, neanch’io sono un’eccezione. Comunque, alcuni vivono abbastanza da vedere “il tempo della verità”, altri no. Il momento in cui sei costretto a deciderti tra questi due mondi bipolari...
E se iniziassi anch’io a scrivere fiabe? Forse è un modo per dire che, fatta la somma finale, sei stato te stesso. Potrei provarci, cosa mi costa. Diciamo una breve fiaba intitolata La fiaba dell’Iraq. Farebbe all’incirca così:

« C’era una volta un paese che giaceva su 220 miliardi di barili di petrolio e 30 trilioni di metri cubi di gas naturale. Dio deve aver pensato molto al suo futuro quando gli ha dato una tale quantità di “oro nero”. Inoltre, l’ha situato nella fertile valle della Mesopotamia, con due bellissimi fiumi che scorrono attraverso i suoi spazi immensi. Purtroppo, nelle immediate vicinanze vivevano gli Israeliani ed i Palestinesi, in perenne conflitto, il che può ma non deve necessariamente avere un significato cruciale per la fine di questa fiaba. Probabilmente lo avrà, perché sappiamo tutti quanto è importante chi sono i tuoi vicini. Non sarebbe una fiaba se non ci fosse un lupo cattivo che vuole mangiarsi la nonnina e la piccola innocente Cappuccetto Rosso. Il lupo cattivo si chiamava Saddam Hussein e governava quel paese, non da solo. Anzi. Conosceva molti altri lupi come lui, un fatto che complica ulteriormente questa fiaba. La stratifica. Ma per fortuna, come in ogni fiaba, c’è qui il cacciatore che risolve tutto e, a prima vista, porta la fiaba al lieto fine. Depone Saddam dal potere e libera Cappuccetto Rosso. Di Cappuccetti Rossi ce ne sono molti in questa fiaba. Come pure di lupi. Ma invece di avere un lieto fine a seguito dell’atto generoso del buon cacciatore, con sua costernazione, i Cappuccetti Rossi appena liberati prendono i fucili e lo attaccano, un fatto che lo irrita molto. Da impazzire. Perde piano piano la bussola e anche se buono per definizione, capisce che qualcosa non va in questa definizione... Qualcuno l’avrà interpretata male. Oppure non l’ha capita. Preso alla sprovvista da questa eruzione di giustizia inaspettata, confuso dal comportamento inesplicabile dei Cappuccetti Rossi, inizia a cacciarli e a rinchiuderli, persino a torturarli... Per farsi svelare dove stanno gli altri Cappuccetti che continuano a sparargli addosso... Qui appaiono i giornalisti che neanche esistevano nel periodo d’oro delle fiabe e complicano tutto all’assurdo... »

Non mi va giù questa cosa delle fiabe. Le immagini dei personaggi principali continuano a deformarsi. A sfuocarsi. Specialmente l’immagine del cacciatore. Non riesco a definirlo in nessun modo. Per i bisogni della fiaba naturalmente. Questi cacciatori moderni sanno più di mutanti tra Cappuccetto Rosso e il lupo... E neanche con quest’ultimo sto bene. Mi manca il lieto fine. Mi manca una fine qualsiasi. Ma sì, sta qui il problema. Le fiabe di oggi non hanno una fine. Continuano e continuano senza mai finire. Come un cattivo sceneggiato TV in cui da un episodio all’altro i buoni diventano cattivi e viceversa, così alla fine non ti ricordi più come la storia incominciava. Chi era il buono e chi il cattivo all’inizio? E chi lo è alla fine? Non importa più a nessuno. Basta che finisca una buona volta. Eh! Era facile per Andersen scrivere fiabe quando non aveva il problema dei barili di petrolio. Quegli stessi sui quali continua a giacere quel paese dall’inizio della fiaba. Letteralmente. Chi sa quando finalmente si alzerà? Quando finira anche questa fiaba?

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