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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 61
Gennaio 2005

Editoriale: Pubblica con noi 2004

Questo Faranews è dedicato ai vincitori della III edizione del concorso Pubblica con noi che premia i due vincitori, uno per la sezione A. (racconto o raccolta di racconti) e uno per la sezione B. (silloge poetica) con la pubblicazione a spese delll'editore. Dopo un'accurata analisi delle decine di opere partecipanti, la giuria ha premiato, segnalato e menzionato i seguenti autori di cui proponiamo qui sotto brevi estratti delle opere inviate:

Vincitore per la sezione A.
Piccolo canzoniere di città (Barbara Rosenberg, Milano)

Segnalati:
Quando tendo all’infinito (Alex Celli, Poggio Berni)
Ouija (Simona Cremonini, Montanara di Curtatone, MN)
Luna, Sette storie di donne (Marco Bottoni, Castelmassa, RO)
Il perduto (Paolo Ferrara, Minneapolis MN-USA)
Il sindacalista e la figlia del padrone (Massimo Palazzeschi)
Papier Mais (Francesco Randazzo, Roma)

Menzionati:
Otto piccoli stivali (Gabriele Falco, Mantova)
In punta di piedi (Giovanni Carullo, Avellino)
Ciò che resterà di noi (Giacomo Colossi, Lograto, BS)


Vincitore per la sezione B.
Da luoghi intravisti (Andrea Parato, Rimini)

Segnalati:
Specchio, Melodie, Mediterraneo, Pensieri, Fabrizio Bachini (Gabriele Oselini, Viadana)
Preghiera in guerra (Stefano Martello, Roma)
Ho amato una principessa musulmana (Eros Maria Mallo, Ragusa)

Menzionati:
Sarà da poeti il futuro (Enrica Musio, Santarcangelo)
Kostantin Perol (Costantino Lo Prete, Salerno)
Leggermente fuori fuoco (Antonella Segantin, Casal Monferrato)

Aggiungiamo infine un racconto di Saverio Fragomeni.

 

Vincitori

Il botto (da Piccolo canzoniere di città)

di Barbara Rosenberg (Milano)

Le mie ali.
Quando ero piccolo erano chiare e trasparenti, poi attraversando i cieli, si sono ispessite, scurite, come il mio cuore.
Sono stanco. Desidero andare “giù”. Ma ho paura.
Dicono che sia doloroso. Che si perda il ricordo delle nuvole, di Lui.
Qui è luminoso, lì è scuro.
Eppure mi attraggono i suoni, gli odori.
Avrò la voce e potrò mangiare. Abiterò un corpo di carne e sangue e farò l’amore. Chissà cosa si prova.
Quando riesco a spiarli mi piace seguire il loro passo affrettato tra le case, sull’asfalto rovente in ‘estate’ o sulla terra gelata in ‘inverno’. Sono abituati a scandire il tempo, loro.
Sento l’odore del caffè al mattino (sono certo che mi piacerà) e dei panni stesi in cortile. Le grida dei bambini al parco ed i sussurri degli innamorati che si accarezzano nel buio.
Rimango a guardare gli alberi e le montagne, gli animali. Vorrei un gatto sulle ginocchia che fa le fusa.
Dovrò perdere le ali, però. Questa è la condizione. Mi verranno strappate dal corpo e rimarrà una cicatrice.
Mi ammalerò e dovrò farmi la barba ogni giorno.
E soprattutto di una cosa sono certo: la morte.
Loro non si trasformano, come noi; non possono scegliere come e quando lasciare il corpo.
Così muoiono quando è troppo presto o troppo tardi. In modi strani che non capisco, come in guerra.
L’ultima volta che ho guardato giù, ho sentito una melodia. Veniva da una finestra.
Era una ragazzina che cantava. Non capivo le parole, ma quel suono, lento e doloroso mi ha colpito: per la prima volta ho provato il “desiderio”. Essere con lei, ascoltarla, toccarle i capelli.
E quel desiderio mi ha portato alla decisione: partire.
Assorto in questi pensieri, mi ritrovo al limite estremo del Lago Supremo, vicino al Confine Sud.
Guardo indietro. Il Campo dei Venti, la mia casa.
Davanti: una ringhiera socchiusa.
Percepisco il pensiero di due anime vicine. Vorrei salutarle, ma non capirebbero. Soltanto in pochi hanno deciso di scendere. Aspetto che si allontanino e apro il cancello. Scricchiola.
Chissà da quanto tempo il guardiano non ne olia i cardini.
Fa caldo fuori.
Apro le ali e mi avvicino al Vortice Nero poco più in là.
Non c’è più tempo. Percepisco dei suoni nella mia testa; strano, qui tutto è silenzio.
Mi accosto ancora.
Ecco, la Forza mi ha preso.
Inizio a girare su me stesso e vengo risucchiato verso il basso. Non riesco a respirare. Fa sempre più caldo.
Sento il cuore che batte, il sangue nelle vene, la pelle che si tende, i muscoli e le viscere contratti.
Ho male a tutto il corpo. Provo un dolore fortissimo alle ali.
Non le sento più. Credo che si siano staccate. Solo ora mi accorgo che sto urlando, prima un rantolo secco, poi una voce sempre più chiara e forte.
Continuo a precipitare, gridando. Poi una luce abbagliante e il botto.
Mi ritrovo sull’asfalto, nudo. Sdraiato in mezzo ai palazzi. Ci sono tante finestre ed un cortile. I bambini giocano a pallone. Nelle grandi città c’è poco spazio per loro.
Alla finestra di fronte vedo la ragazzina.
Mi sorride.
Sento di essere a casa.

Motivazione della giuria: Deliziosa l’idea della piantina di Milano disegnata sul fiore e deliziose le storie intimamente avvincenti e al tempo stesso tristi; pur non conoscendo Milano ci si può costruire una idea immaginaria di come potrebbero essere le situazioni della vita vissute in quel contesto.
Colpisce il disegno narrativo, apparentemente banale, ma che in realtà contiene un universo umano, “geografico” e culturale profondo nella sua semplicità. Una Milano antica, vera, minima, provinciale in senso alto e nobile.
La scrittura sofisticatamente naïf di questi racconti ci porta in un mondo in cui tutto è più facile. Le capacità di scrittura dell’autore si notano già dopo poche righe e questa, unita alla delicatezza e all’acutezza dello sguardo fa di questi racconti delle piccole perle non coltivate. Durante la lettura si ha l’impressione di sentir narrare le storie da una signora sorridente, da una persona rivolta alla parte luminosa della vita, e quando al termine si scopre di avere in volto lo stesso sorriso non si può fare a meno di essere grati.

Barbara Rosenberg è nata a Milano, dove vive e lavora. Anche se ama molto viaggiare, è proprio la sua città a regalarle spunti per scrivere. I suoi personaggi camminano per le strade di Milano, passeggiano nei giardini, prendono il metrò. Sono soprattutto le persone più umili, semplici, i "diversi" a sorprenderla e a svelarle la propria storia oltre l’apparenza.

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Due poesie (tratte Da luoghi intravisti)

di Andrea Parato (Rimini)

Eva fu la prima a morire
Ricordi i giorni di sosta
in affanno alla tua casa di marmo
là sul colle ove spessi e puntuti
gli alberi alzavano al cielo inni di smeraldo?
Tremava allora l’impalcatura
della nostra esistenza,
talvolta pure il pulsare del cuore
ci era insostenibile.
Ma tu, sospesa nel mio pensiero silente
tu che ora vivi
neppure immagino il dove,
o forse il quando, dimmi:
davvero puoi vegliare questo lento cammino
tra ombre incerte
che confondono credenze alle idee?
Davvero il patire per me ti è concesso
oppure immota permani?
Mi vedi, spero, invocante perdono
al cuore gettato oltre le soglie
di carne e d’orrore. E scorgo,
come cime dei monti dalle nebbie,
emergere vaghe cuspidi di memorie.
Ricordo che appena un istante
ci incontrammo:
io immemore ormai
tu subito rapita a me.
Poi tornai, come rito propizio
a lassi di tempo incerti
per omaggiarti di fiori caduchi.
Ma si può venerare ciò che resta di te
domandare al segno del corpo che fu
una traccia scomparsa?
È di terra, di cielo, di vento
questa umana resistenza
a glossare la vita.
Nostra speranza è rivederci
così come ci lasciammo
ritrovarci a continuare un discorso
sussurrato, sommerso, mai sopito
dalla vita mia, dalla morte tua.
E anche tu, che la prima fosti a partire
senza spiegare il tuo dolore
anche tu vedi: già si smorzano
i rossi lumini della tua casa di terra,
nell’arco sbiadito si perdono i lùccichi eterni,
già irrora la valle la lacrima calda
del sole a consolare.

Falesie
Proliferazione di parole
inutili aguzze sprecate
verbi sustanzializzati
agenti de-composti
dal senso dei tempi
incarnato nell’uomo
incarnito nei segni.
Non esiste limite al numero
di parole da usare
per descrivere l’Essere
che vedi, che senti.
Non esiste limite. Eppure taci.
Sai che non più da qui
passa la Storia
che neppure ti tange o consola
il gioco degli oppressi.
E’ la disperazione che sempre
ci inganna, nemica
è l’angoscia ispida
che precipita in squallido buio.
Ma io invento storie
e mi nutro di narrazioni,
faccio di parole
il mio sentire,
non do ragioni.
Non altro che mazzi di segni
ti posso offrire.

Motivazione della giuria: Per la sapienza estetico-simbolica nell’utilizzo della lingua italiana e delle altre lingue e per la dimensione “pensante” del dettato lirico.
Poesia dello sguardo/ricordo sommessa ma ferma, come recante il vigore dello sdegno e la misura della dignità, elegante secondo la lezione del Novecento, anche se talvolta con un po’ di compiacimento. Poesia forte, matura, che sa attendere, guardare alla solitudine, guardare alle piccole cose, rivolta agli Umili: "buttati nel mezzo della vita / senza sicura soluzione: / se non ti spezzi, alla fine / diventi uomo."
Questi versi colpiscono per la capacità di descrivere un universo intimo al quale subito si aderisce. In fondo l’autore coglie il segreto della poesia: dire al lettore, con parole che egli avrebbe voluto trovare prima, ciò che ha provato nelle circostanze interiori della vita. Molto bello il verso: "ti piaccia / un domani e lacrime e baci ricordare /assieme al dolore che ieri / vergò la tua bella mano e / ancora più belle lacrime sul libro."

Nato a Rimini nel 1979, Andrea Parato è dottore in Scienze della Comunicazione. Dopo un master in marketing, comunicazione e pubbliche relazioni, continua a dedicarsi all'analisi della comunicazione di massa, editoriale, digitale e sociosemiotica. Suoi
autori di riferimento rimangono Calvino, Pavese e De Andrè.

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Segnalati sez. A

 

Figura di merda (da Quando tendo all'infinito)

di Alex Celli (Poggio Berni, RN)

Stamane mi sono svegliato con un lieve schuaraus al pancino… penso tra me e me che è lunedì, penso che sia la mia naturale avversione al lavoro in genere a causarmi il leggero malessere, sono sicuro che mi passerà appena fuori dalle coperte, penso che preferirei essere frustato che subire la frustrazione di dovermi recare in ufficio ancora… ma è lunedì ed ho lo schuaraus – non posso fare puffi dal lavoro, devo andare a Rimini, alla Camera di Commercio (CCIAA), e poi all’Agenzia Delle Entrate (ADE).
In effetti mi alzo e il mio stomaco si rimette in sesto, mi infighetto e mi metto le scarpe da Clint Eastwood, il pizzetto non è ancora troppo impresentabile, può andare: sono più sborone con il pizzetto.
Passo in ufficio a prendere le pratiche e poi mi dirigo verso Rimini; è primavera e sono contento, metto su Moby nello stereo.
Arrivo all’Inps (INPS) prendo il biglietto per lo sportello 4 che riguarda le pensioni. Ho il numero 64, sul quadrante c’è scritto 29. Faccio una veloce sottrazione e deduco di aver ben 38 persone davanti, poi rifaccio il conto e mi accorgo che erano solo 35… Ah, allora posso aspettare. Solo che sono già le dieci e alle 12 devo riessere in studio: non sarebbe un grosso problema se ci fosse solo l’Inps da passare, decido di aspettare.
Dopo circa una ventina di minuti la nonnetta allo sportello decide di andarsene, l’impiegato fa scorrere il numero. Eh eh, meno uno penso, quando mi accorgo che ora il numero in attesa è il 45! Bella storia, cazzo, di questo passo farò davvero valoce: all’Inps uno vale quindici! Aspetto ancora, il ragazzo di colore ha finito e… ancora! Ora siamo già al 58. Mi preparo: attorno a me c’è un gran sfunizzo ma non so perché, comunque sono positivo, dio ha finito di pisciarmi addosso, penso che l’impiegato sia davvero un grande se può moltiplicare i numeri dei quadranti e dare sollievo ai poveri contribuenti in fila! La donna incinta finisce il turno, aspetto il miracolo e accade di nuovo, ma stavolta è il massimo perché è proprio il mio turno. Per un attimo mi era venuto il dubbio che l’impiegato stesse scazzando a spingere i numeri ma ora ho capito che faceva bene, magari l’Inps ha una specie di codice segreto, comunque il fatto che sia giunto il mio numero dimostra che il tipo sa quello che fa.
Mi muovo gagliardo come un vero re-tra-i-contribuenti, con il mio spolverino svolazzante e la mia cartellina da gentleman quando un ciccione mi anticipa, gli faccio notare che è il mio turno e lui mi fa notare che il suo numero è il 61 – in effetti in teoria c’era prima lui, eppure l’Inps dice che ci sono prima io e, dato che l’Inps in Italia non sbaglia, ci sono io per forza.
Ma ora anche una ragazza bellina decide che, essendo lei il numero 59, aveva la precedenza! Mi cominciano a girare le palle quando un vecchietto tremolante mi sbiassa che lui era il 43, poi mi giro e vedo la verità: quell’incompetente di uomo dell’Inps sta spingendo a vanvera il bottone dei numeri, deve avere una specie di tic fottuto: una massa di gente sta assalendo lo sportello numero 4… sono i numeri dimenticati, le file morte sono giunte a reclamare vendetta!
Sono cazzi suoi, adesso ci sono io e gli altri aspettano, poi, mentre discuto col ciccione numero 61, la ragazza numero 59 (quella carina) mi si avvicina e mi chiede cosa sia successo – la parola “successo” mi ricorda “sul cesso” e iniziano i casini: lo schuaraus mi ricomincia a dar su. Divento bianco come un morto, troppe emozioni mio dio, quell’idiota di impiegato pagherà anche per questo, ma sono ancora vicino alla ragazzina, devo rispondere cosa sia succ… accaduto, la guardo facendo finta di niente ma il mio sguardo è simile a quello di uno psicopatico con una paresi: è che sto facendo davvero fatica a trattenere il melting pot tutto da solo – mi concentro, penso che le dovrei dire che l’impiegato è un vero idiota e che vorrei il suo numero di telefono per discutere altrove della buffa vicissitudine, penso che dovrei invitarla a cena, penso che dovrebbe innamorarsi di me… penso, penso e alla fine so cosa dire: “Mi dispiace, non è per te, ma penso di essermi cagato addosso.”
Che razza di vita.

"Se Chicken Breast era il mio lato più alto dove l'uomo prova ad elevarsi ad uno stato di Supereroe, Quanto tendo all'infinito è la mia vita senza mediazione, è l'uomo vero senza costume, privo della sua calzamaglia, è la vita del povero Alex P. che non ha ancora avuto il coraggio di superare il limite: racconta vicissitudini tristi o drammatiche attraverso il filtro dell'ironia, della vita in fondo che, per quanto triste, resta sempre un'avventura meravigliosa."

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Anche gli assassini (da Ouija)

di Simona Cremonini (Montanara di Curtatone, MN)

Avresti dovuto fare qualcosa appena uscita dalla casa di Roberta… Che stupida sei stata!
Avresti dovuto fare retromarcia e suonare il suo citofono. Avresti dovuto dirle che qualcosa non andava e andare di sopra, a casa sua, al sicuro.
Invece no, stupida testarda!
Anche dopo aver girato due volte, anche dopo aver visto la sua ombra, quel riflesso tenebroso, ritrarsi nel buio, non sei tornata indietro, hai voluto proseguire!
Appena uscita dal condominio della tua amica, hai notato qualcosa di scuro oltre i due garage a fianco dell’ingresso. Non sapevi se si trattava di un cassonetto o di qualcos’altro, eppure ti sei sentita subito inquieta. Hai camminato per qualche metro per non pensarci, poi hai svoltato in un’altra via, più piccola e più interna. Ti sei voltata indietro, per controllare, e hai deviato di nuovo, per percorrere un tratto del lungo viale Manzoni. Hai sbirciato di nuovo dietro di te, e proprio in quel momento l’ombra è spuntata da dietro quel palazzo e si è ritratta, come accorgendosi di essere in vista. Avresti dovuto tornare indietro, tagliare in altre vie del quartiere e citofonare a Roberta, ma invece hai accelerato.
E pensare che non avresti dovuto nemmeno uscire stasera, visto che la tua automobile è dal meccanico; ma purtroppo proprio un mese fa Roberta e Francesco hanno rotto e non te la sei sentita di lasciarla sola, sapendo che lei ne soffre tantissimo. Così sei andata a piedi fino a casa sua…
E ora?
Ora cammini, accelerando, poi decelerando, fingendo, sperando che i passi che senti non siano i suoi, ma i rintocchi dei tuoi tacchi sull’asfalto. Eppure lo sapevi che era imprudente uscire soli nella tua città di notte. Era sconsigliato dalla polizia, che ancora non è riuscita a catturare l’assassino soprannominato Capitan Uncino, per quel modo grezzo e affrettato di sgozzare le sue vittime con un oggetto appuntito, come un uncino appunto.
Continui a camminare. Ti chiedi se non stai esagerando; per un’ombra intravista nella notte ti sembra già di vedere i tuoi amici, i tuoi genitori, i tuoi zii che piangono per la tua morte!
Ti senti un po’ ridicola, ma se la tua fantasia è troppo sfrenata, perché non riesci a fermarti, perché non riesci a voltarti e guardare la strada che ormai dovrebbe mostrare chiaramente se uno sconosciuto ti sta seguendo?
Lo sai il perché. Perché è vicino. Perché è sempre più vicino.
L’eco dei passi si avvicina. Non sai se l’asfalto possa fare rumori diversi tratto dopo tratto, magari per una diversa consistenza, magari per una diversa distribuzione degli strati sottostanti, ma non te la senti di controllare. Il tuo cervello non è minimamente interessato a questa informazione scientifica.
Hai paura. Le tue gambe sono come percorse da un liquido diverso (adrenalina), che è sale per il tuo sangue, che è collagene per i tuoi movimenti, sempre più legati, sempre più lenti.
Poi la vedi. È un insegna bianca, con una scritta rossa. C’è un simbolo, simile a una forcina, con tante piccole gambe. E pensi… Pensi che è necessaria una tessera per entrare, e tu hai quella tessera!
Semplice, apri la borsetta, mentre le gambe sembrano di nuovo in forza e hai l’impressione di camminare più in fretta.
Apri la cerniera all’interno della borsetta e sfili il portafoglio. Anche se è buio, guardi appena l’asfalto scuro che scorre sotto i tuoi piedi. Fai schioccare il bottone che è sopra il portafoglio e nel buio tasti le fessure predisposte per infilare le tessere. È la terza fessura quella che ti interessa.
Nel frattempo il simbolo rosso è sempre più vicino. Di nuovo cammini con foga.
I polpastrelli avvertono la plastica liscia sotto di loro e allora, con delicatezza e con decisione, le tue dita la sfilano. La porta nel frattempo è ormai davanti a te. Tendi la mano e infili la tessera con la banda metallica verso l’alto, sulla sinistra, come sul disegno che hai di fronte e che mille volte hai controllato su porte simili. La porta scatta, la tiri, entri nell’ambiente angusto e vetrato e la richiudi dietro di te, velocemente. Ti assicuri che sia veramente chiusa.
Fuori è buio, ma sul marciapiede si riconosce una sagoma umana. Alla sua destra qualcosa di metallico riluce sotto la luce bianca dell’insegna appesa sopra la porta, esposta di traverso perché sia visibile dalla strada. Dall’altra parte, vedi che una mano sta frugando nel buio. Fruga e infine trova. Trova una piccola tessera, simile alla tua.
Anche gli assassini hanno un bancomat.

 

Simona Cremonini è nata il 23 febbraio del 1979 e vive tra il paese di Montanara (Mantova) e la casa estiva sul lago di Garda.
Fa parte del comitato di lettura della rivista Inchiostro di Verona e collabora con il sito www.latelanera.com
Ama i gatti e la letteratura horror. È un'ammiratrice di Anne Rice e Sheryl Crow.

 

Reverse (da Luna. Sette storie di donne)

di Marco Bottoni (Castelmassa, RO)

Qualcosa che suona.
E voglia di pisciare.
Fosse una sola, rottura, forse non mi alzerei nemmeno dal letto.
Ho ancora sonno.
Un sonno antico, profondo, arrugginito ormai dentro le ossa, bisogno di dormire che mi si incrosta addosso da non so quanto tempo.
Sonno.
Ma suona, ancora suona, con insistenza, mi tira giù dal letto che sono ancora ottuso, incerto, dentro una nebbia grigia che supero a tentoni, una mano allungata a spostare la tenda.
Magari torno a letto, o forse ci sono ancora, non si capisce, male alle ossa e voglia, sempre più impellente, di pisciare.
Intanto, continua a suonare, campana martellante, insistente, ossessiva.
Cattiva.
Se non fosse per la caparbietà del trillo, non verrei giù neanche morto, a costo di pisciarci, nel letto.
Ma continua a suonare, e faccio un passo giù nel freddo delle mattonelle, dentro il dolore che mi morde le caviglie; spostata un po’ la tenda c’è un donna di là dal vetro, dietro il cancello di ferro arrugginito, sulla strada, nella luce del lampione sottocasa, mentre mi scappa sempre più urgente di pisciare.
Ci sei tu.
Nemmeno il tempo di vestirmi, nemmeno il tempo di raggiungere la porta, e né di aprirla, che sei già entrata dentro casa, tu, chissà che cosa sei venuta a fare di mattina presto, così presto che c’è il lampione ancora acceso in strada, ed io ho ancora sonno, ancora tanta voglia di dormire.
Sei già in casa, ed io non ho avuto neanche il tempo di pisciare.
Sei bella.
Labbra carnose e naso sottile, piccolo, perfetto.
Vestita bene, noto, indossi un bel cappotto di montone col collo di pelliccia (è ancora inverno allora, almeno così credo; io, come sono messo ora, non so nemmeno dire che ore sono, o quale giorno sia; ad essere sincero non mi viene da pensare altro se non il fatto che devo pisciare, inevitabilmente devo farlo, ed anche farlo presto).
Entri in casa, così, senza parere, come se fosse, questa, ancora casa tua.
Chissà che cosa sei venuta a farci qui.
Ti guardi intorno.
Osservi i mobili, i quadri alle pareti; muovi una mano verso un angolo di muro, nell’ingresso, ed è il gesto automatico di chi l’ha fatto mille volte, di entrare in casa e accendere la luce.
Qui, non è casa tua.
Non più, oramai.
Che cosa sei venuta a fare.
Qualsiasi cosa sia, facciamo in fretta e dopo vattene, che io devo trovare un bagno, subito.
Non lo dico, è ovvio, ma si dovrebbe capire.
Dovresti averlo chiaro tu, guardando la mia faccia, quello che penso; lo dovresti intuire che, per qualche motivo, ho fretta.
Ti muovi nella stanza, a passi lenti.
Da come ti guardi attorno mi cresce la paura che, da un momento all’altro, tu accenni a toglierti il cappotto e a metterti a sedere, per fermarti.
Questo no.
Io non lo voglio, davvero, non mi va assolutamente.
Non è più casa tua, qui, non hai diritto; te ne sei andata, hai detto basta e sei andata via, mi pare ieri, mi pare un secolo, che so, che cosa importa quanto tempo è passato, come calcoli il tempo tu, come lo conto io: a me sembra infinito anche un minuto adesso, che un altro po’ ci manca e me la faccio addosso per davvero.
Appena te ne vai corro a pisciare.
Tu non ti siedi.
Tieni il cappotto addosso, per fortuna, e non la smetti di guardarti attorno.
E di guardarmi.
Faccio un po’ schifo.
Sono in mutande, i piedi nudi sopra il pavimento freddo, mi fa un po’ male al collo anche, ma soprattutto (mi pare che si noti, che tu lo stia notando adesso) tengo le cosce un poco strette, mi piego impercettibilmente verso l’avanti, forse mi trema un poco un labbro.
Mi scappa, forte, quasi da star male.
Devo far pena così, mezzo nudo e coi capelli scompigliati, fermo davanti a te, senza parlare.
Ma cosa ti dico.
L’unica cosa che mi farebbe bene dirti è “vattene via, perché devo pisciare”.
Ma non mi esce, e il resto, tutto il resto sarebbe troppo lungo da dirti, troppo cattivo; troppo nascosto in fondo e mescolato coi ricordi, con le speranze disilluse, coi tentativi vani, con i progetti andati a male.
Troppo.
Anche volendo, anche sfruttando l’occasione di vederti ancora qui (a proposito: Che cosa sei venuta a fare? Hai scordato qualche cosa? Avevi detto che te ne andavi per non tornare più, che basta, era finita, una volta per tutte e finalmente, grazie al Cielo!) anche volendo, non riuscirei a dirti niente di quello che ho passato, che mi è passato dentro di vuoto, di tedio e di infelicità, con te.
Non ce la farei proprio a dirtelo.
Non prima di avere pisciato, almeno.
Mi guardi come se volessi leggermi negli occhi.
C’è scritto: “Vattene”.
Che fai ancora qui.
Che cosa vuoi da me.
Che cosa sei venuta a fare.
Ora mi giri le spalle, e ti avvicini alla finestra.
Guardi fuori.
La poca luce gioca a sfumare i contorni dei tuoi capelli ricci, neri.
Hai le braccia conserte ed il collo un po’ incassato nelle spalle.
Ti sfreghi con la punta della scarpa la parte posteriore del polpaccio, nel gesto di sempre.
Rimani assorta, come sempre, chissà per quanto tempo ancora.
Forse il tempo sufficiente, per me, di arrivare al bagno, o almeno a una finestra, un vaso di fiori, un tendaggio pesante, insomma qualche cosa dentro cui scaricarmi, non ce la faccio più a tenermi, sia come sia, per dio!
Devo pisciare!
E poi, chi se ne frega, ma sì, che me ne importa più di te, del tuo esserci sempre e solamente per impedire che qualcosa accada, del tuo storcere il naso per situazioni troppo buffe o troppo serie, per ore troppo lunghe o troppo brevi, per compagnie tediose od oltremodo allegre, per frasi troppo stupide ossia troppo impegnate, idee troppo banali o troppo complicate.
Io lo so bene com’è che è andata, fra di noi, e perché.
A forza di scartare, di tagliare via, di rinunciare, di “non vale la pena”, di “tanto ormai non serve”, di “beh, per così poco”, di “adesso è troppo tardi ormai”, hai eliminato quasi tutto, di ciò che era il sapore di una vita.
La nostra, la mia.
Giorno dopo giorno, lentamente, mi hai fatto rinunciare all’allegria gratuita, al semplice star bene, alla creatività del gioco, dell’istinto, al gusto sempre nuovo di fare di ogni giorno una scoperta, di un gesto un’invenzione.
Io ti ho seguito, senza rendermi conto ti ho seguito passo passo sulla via della rinuncia, fino alla negazione.
Così mi sono svuotato, smarrito, perso nella mia vita, perduto in casa mia.
Non trovo neanche più la porta del bagno!
E allora basta, sia quello che sia, vòltati adesso o continua ancora a girarmi le spalle, come facevi allora, come hai sempre fatto ad ogni nuova, assurda pretestuosa incazzatura.
Fai come vuoi.
Io, ora, piscio qui.
E quanto ci voleva!
Comincio a stare bene, ora.
Una sensazione come di abbandono, e di lasciarmi finalmente andare, mi avvolge e mi cattura.
Si scioglie poco a poco la tensione che mi premeva dentro, il nodo che mi attanagliava il ventre, il peso che mi trascinavo addosso.
Cosa mi importa cosa penserai di me, di questo liberarmi che io faccio, in tua presenza, contro il muro.
Così, come se fossi un ragazzino.
Quello che conta, è che ora sto bene.
Di ciò che puoi pensare tu, ormai, non mi interessa più nulla; è finita tra noi, finita per sempre.
Man mano che continua la pisciata, e si prolunga (è lunga, molto lunga, non sembra neanche una pisciata vera, sembra una vasca che si svuota, una gronda che scarica da un tetto, la canna per innaffiare l’orto, la manichetta dei pompieri sembra), mentre continua mi accorgo di tornare in me, quello che ero.
E non mi importa più di te.
Tu, tanto, non ci sei.
Non più.
Sì, sei tornata qui, stamane (e non so bene a fare che, lo dico ancora), ma ormai non è il tuo posto, questo.
Te ne sei andata via, per sempre, dicendomi “è finita”, e mi hai lasciato solo.
E poi, cosa ne sai se sono solo?
Lo so che non mi vuoi stare a sentire, ma ora tocca a me sfogarmi, finalmente.
Sì, proprio così, lascio che venga fuori tutto, con il piscio, e tutto insieme per una buona volta; tutto il rancore, e il peso, e il male che mi porto dentro.
Tu che ne sai che in questa casa non ci sia davvero, ora, la mia vita piena, il modo finalmente mio di stare bene, di essere libero e felice.
Cosa ne sai di me, di come vivo adesso; di come ho ritrovato finalmente, senza te, il mio tempo, il mio gusto.
La mia sensibilità, le mie scarpe un po’ infangate.
La voglia mai finita di giocare, le mie idee, la leggerezza, bisogno realizzato di pensare, di ridere e creare.
Di lavorare e di fare l’amore.
E anche, finalmente, di pisciare. Suona.
E una fitta più forte, ma questa volta vera e dolorosa, al basso ventre, mi strappa via con crudeltà dal sonno.
Suona, ancora.
È la sveglia.
Sette e trenta, solo poca luce trasuda grigia e opaca dalla tenda, che è ancora inverno.
Probabilmente, soltanto Martedì.
Devo pisciare: comunque sia, marmo di pavimento freddo sotto i piedi, male alle gambe, ma devo uscire da dentro questo letto, e andare in bagno.
Ora.
Ancora suona, campana martellante, metodica, cattiva.
Apro del tutto gli occhi: è la sveglia.
Era la sveglia a suonare, e io che credevo.
Un colpo con la mano, ad interrompere il fastidio di campana martellante, insistente, ossessiva.
Ho ancora sonno, con un gesto pigro mi giro nel letto, incerto se rimettermi a dormire.
Labbra carnose, il naso piccolo e sottile, perfetto.
Sopra il cuscino, la vasta macchia nera di tanti tuoi capelli, ricci.
Ora, sono sveglio del tutto: tu ci sei ancora, e dormi.
Ancora, e sempre, dormi in quello che rimane ancora, e nonostante tutto, il nostro letto.
Un sogno, ecco che cosa è stato, un sogno di quelli che si fanno la mattina quando hai la vescica piena, così reale da confondersi coi fatti della vita vera, tanto da non sapere più quale, delle cose che vivi, appartiene alla realtà.
Uno di quei sogni dai quali ti risvegli con la sensazione di avere attraversato il tunnel che mette in comunicazione due modalità distinte, eppure entrambe reali, della tua esistenza, e con la consapevolezza amara di esserne uscito dalla parte sbagliata.
Purtroppo, non solo per andare a pisciare.

Marco Bottoni è nato a Castelmassa nel 1958. È neurologo (Università di Ferrara) specializzato anche in Medicina dello Sport (Università di Chieti). Esercita l'attività di Medico nel suo paese di 4500 abitanti sulla riva sinistra del fiume Po. "Sullo stesso treno" è stato inserito nella raccolta Racconti nella Rete 2003 dalla Newton & Compton, e presentato alla Fiera del Libro di Torino nel febbraio 2004. Ha appena pubblicato L'Altro e altre storie con Montedit di Milano.

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Il perduto (parte finale)

di Paolo Ferrara (Benevento-Minneapolis)

La sera prima. Come avevano trascorso la sera prima? Come l’aveva trascorsa, lui?
L’Ecuadoriana gli prese una mano e se la portò sulla gamba, carezzandogli con dolcezza una alla volta le dita. Cosa era successo la sera prima dell’incidente?
- Cosa mi dicevi prima sugli orologi? – chiese l’Ecuadoriana.
Gli orologi, pensò lui. Lentamente si voltò verso di lei. Pallido come mai. Disse: – Mi hai detto che te ne ho già parlato.
– Quando? – chiese l’Ecuadoriana. Victor era nei suoi occhi e gli occhi di lei erano ormai divenuti dei ricordi.
– Che coincidenza – fece lui come in trance. – Mia moglie studiava le culture precolombiane e le culture indios sopravvissute. – Poi Victor tolse la mano dalla gamba di lei. Tornò a fissare la birra. La sigaretta gli si era consumata fra le dita, ormai il filtro ardeva sulla pelle, ma lui non lo sentiva. Pensò ancora: "Avevamo organizzato un viaggio. Che coincidenza, proprio in Ecuador."
E mentre Victor fissava quella sua birra, mentre la pelle delle dita bruciava sotto il mozzicone di sigaretta, una voce – che non era proprio la voce dell’Ecuadoriana e che non proveniva proprio da quel bancone – una voce disse: "La più bellicosa delle tribù sudamericane," c’era una ragazza con un libro in mano in piedi su un letto, "una tribù che in guerra non si propone di conquistare altre terre. È una tribù che ha tanta terra e non ama i villaggi. Non hanno una legge che li unisce, in tempo di pace ognuno è legato alla propria famiglia e diviso dal resto della tribù. Ciò che li tiene uniti è la vendetta del sangue, più propriamente la morte. E ogni morte, anche la naturale, è causata da un malefizio, quindi per ogni morto c’è un colpevole. I Javiros si cercano a vicenda per vendicarsi l’uno contro l’altro. La vendetta di sangue è il loro vincolo sociale, ed è al centro dei loro riti. L’ambizione d’ogni guerriero è di potere tornare al villaggio con almeno la testa d’un nemico poiché credevano che nella testa fossero racchiuse forze divine, cosmiche, magie, l’animo, la vita, il ponte tra vita e morte, l’accrescimento della stirpe. Questo capo amputato veniva poi trattato con misteriosi liquidi di cui non c’è pervenuta la natura, e così facendo diveniva piccola quanto un’arancia, quasi la si poteva tenere stretta in mano. Era un amuleto, un oggetto sacro per i Javiros, e si chiamava Tsantsa…"
– Tsantsa… – ripeté Victor. La voce si era perduta nella lontana pioggia e nelle vicine chiacchiere del bancone. Il bancone. Tornò il bancone. Si guardò intorno, l’Ecuadoriana era scomparsa. Victor lasciò qualche dollaro sul bancone. Basìto, si diresse verso la porta dove ricordava d’avere visto una macchinetta del giornale. Ne acquistò una copia. Quel giorno ancora non aveva letto gli annunci mortuari. Uno alla volta se li passò tutti, ma niente. Richiuse il giornale, e quando lo ebbe fatto notò un trafiletto, uno strano miracolo, una strana morte. Cominciò a leggerlo. Era la storia di una ragazza che tempo prima si era salvata per miracolo da un cancro al cervello. L’avevano data per spacciata, ma un’operazione "alternativa" l’aveva salvata per un soffio. Aveva vissuto per un bel po’ in ottime condizioni. Poi, la scoperta di un altro cancro che l’aveva folgorata in brevissimo tempo. Solo l’anno scorso il marito era uscito dal carcere dopo una lunga detenzione: aveva ucciso una coppietta in un incidente automobilistico – ubriaco.
Era lei?
Victor scoppiò a piangere. Tutto gli tornò alla mente, o quasi. Cos’era successo la sera prima? Era arrivata una macchina. Qualcuno scende dalla macchina, va verso la porta, la apre, entra in casa, chiede qualcosa, forse un nome, apre la camera da letto e due corpi che si stanno unendo.
Lui e una donna?
No, erano lui e la moglie.
No – la moglie… e un altro. No, neanche questo.
La persona esce dalla casa, stravolta, va verso la macchina, accende il motore e parte. Girerà per tutta la notte. Un incubo. Una testa perduta. Poi il giorno dopo, ancora sbronzo, su un’autostrada, pioveva, la nebbia, non si vedeva nulla, cercava di capire che ora fosse, ma "il suo orologio era largo, scivolava, una distrazione" e andò contro un tir… morendo.
Quando Victor uscì da quel centro, sotto il temporale, consapevole ormai dopo dieci anni di quel che era, continuò a lungo a essere un dannato che aveva perduto la testa – i ricordi.
Vide in terra un oggetto e lo prese. Era un cubo. Un semplice cubo. Lo fissava, inebetito, sotto l’acqua, quasi fosse chissà cosa. Poi il suo occhio cadde su un bambino in una macchina. Anch’egli mirava qualcosa, come rapito, preso da un oggetto. Un prodotto. "Forse non sono solo," sperò Victor.

Paolo Ferrara, beneventano, frequenta la facoltà di lettere a Bologna e nel '98 vince l'Iceberg. Partecipa alla Biennale dei Giovani Artisti dell'Europa e del Mediterraneo a Roma. Pubblica due libri per la Distrazioni Editoriali (Il Sabba delle Follie…, Prima o poi…). Partecipa al progetto Narrasud della medesima casa editrice. Pubblica un altro libro per la Di Salvo di Napoli: Sull'azzardo. Nel 2000 ha un bimbo ed emigra per gli States dove vive tuttora lavorando in una fabbrica di cellulari. Un anno fa con il nome di Giacomo Niccolò, cura per la Bevivino Editore di Milano Saudade, un'antologia di autori migranti, alla quale partecipa con due racconti tratti dal suo ultimo libro (Il Perduto) firmandosi con gli pseudonomi Urrolabeitia ed Herrera. Ha un solo sogno, tornare a casa.

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(Brano da) Il sindacalista e la figlia del padrone

di Massimo Palazzeschi (S. Giovanni Valdarno, AR)

Marco rimase con la cornetta in mano. Chiuse per un attimo gli occhi e capì che era finita con lei e si sentì lo stomaco pesante come se una mano gli pigiasse dentro.
Mariangela non richiamò. Lui la cercò tre o quattro volte alla villa, ma lei non si faceva trovare o diceva al personale che non gli voleva rispondere. Dopo qualche settimana Marco smise di telefonare. Prese l’abitudine per andare al lavoro di cambiare strada e passare dalla circonvallazione fino a davanti il viale d’ingresso della villa Cremaschi.
Sperava di vederla. La incontrò invece un pomeriggio per la strada mentre tornava dalla camera del lavoro. La Porsche scoperta sfrecciava per la strada e sorpassava. Lei aveva gli occhiali neri e un foulard al collo che veniva mosso dal vento. Quando la incrociò, Marco la fissò sperando che lo salutasse ma lei proseguì come nulla fosse.
Ci fu nei giorni successivi l’incontro dei sindacati con l’azienda Cremaschi e Marco chiese a Marcello se poteva andare ad assistere senza aprire bocca, voleva solo vedere lei.
Marcello prima disse di no, poi, dietro le sue insistenze, gli disse che poteva andare insieme alla delegazione del sindacato.
Alla riunione Mariangela arrivò con un vestito fucsia attillatissimo che sollevò mormorii al tavolo dei sindacati. Lei lo vide ma distolse subito lo sguardo. La riunione era sull’orario e sugli straordinari e si presentò fin dall’inizio molto difficile per entrambe le parti. Per la Cremaschi parlava un giovane dirigente che si consultava sempre con Mariangela prima di parlare. Sì o no, Mariangela spostava la testa e lui capiva. Lei, a volte, appoggiava la mano sul tavolo a distanza di un paio di metri dal posto di Marco. Come avrebbe voluto Marco stringere quella mano come aveva fatto tante volte, un gesto che gli sembrava fin
troppo abituale e che ora rimpiangeva. La riunione nella grande sala riunioni della Cremaschi s.p.a. non stava andando bene, i sindacalisti non erano affatto d’accordo sulle proposte dell’azienda e dissero che avrebbero proclamato lo sciopero giornaliero reparto
per reparto per bloccare l’attività dell’azienda. Mariangela a quel punto si alzò e disse che la riunione era finita. Dietro di lei si affrettarono i suoi dirigenti e l’avvocato dell’azienda. Prima di uscire, inaspettatamente, Mariangela si fermò e si voltò
indietro verso Marco. Il bel volto era teso e lo sguardo era duro, era come un animale ferito pieno di rabbia e di rancore. Marco sbiancò in volto. Mariangela guadagnò l’uscita e sparì alla sua vista. Era finito tutto, pensò Marco, all’amore era subentrato l’odio e il rancore per quello che era successo a suo padre, si sentì senza forze e non aveva il coraggio di alzarsi dal tavolo. Alla fine un collega lo prese per un braccio e lo accompagnò fuori a fargli prendere un po’ d’aria. Tutti i suoi colleghi avevano capito che la storia con Mariangela era finita.

Massimo Palazzeschi è un impiegato comunale che nel tempo libero si dedica alla lettura e alla scrittura. È iscritto all'ordine dei giornalisti pubblicisti della Toscana dal 1992, e si dedico da anni ad organizzare eventi nel campo della cultura e dei media con particolare riguardo al cinema. Ha scritto anche, con varie segnalazioni, racconti per ragazzi. Il Sindacalista e la figlia del padrone è il suo primo romanzo breve.

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Il cavallo stramazzato (da Papier Mais)

di Fancesco Randazzo (Roma)

Eugenio Montale finì di mangiare le ottime seppie in umido che Gina gli aveva cucinato. Scartò dal piatto gli ossi bianchi e levigati (Gina si ostinava a non toglierli prima della cottura), ne prese uno ed andò a metterlo tra le sbarre della gabbietta di Figaro, il canarino prediletto. Quando Eugenio ebbe posto l’osso di seppia, subito Figaro andò a sfregarsi il becco e gli trillò un ringraziamento gioioso. Eugenio gli sorrise e fischiettò un’aria dal Barbiere di Siviglia di Rossini. L’uccellino si unì a lui, gorgheggiando con grazia e potenza.
Quello era il rimpianto di Eugenio: cantare l’Opera Lirica. Aveva la voce bella, profonda, grave e rotonda. Ma aveva paura del pubblico. Cantava magnificamente, ma lo faceva soltanto nel chiuso della sua stanza, tutt’al più per pochi amici.
Non sapeva il perché, ma aveva paura, né sapeva quando esattamente gli era nata. All’inizio, era così entusiasta, anche sfacciato, davanti alla gente che lo ascoltava.
Non ricordava quel giorno di tanti anni prima. Eugenio se ne andava a zonzo per la città e per caso era capitato al mercato, dove s’era messo a guardare i banchi colorati delle belle frutta e delle rigogliose verdure, cincischiando fra le ceste in mostra. E una venditrice gli aveva offerto un limone, giallo di sole e di profumo. Poi s’era udito lo sparo. Nel fuggi fuggi generale, Eugenio aveva visto l’uomo in camicia nera rincorrere un vecchio insolitamente agile nella fuga. Il carretto di un ambulante correva all’impazzata, il cavallo s’era imbizzarrito per il colpo di pistola e per le grida. Il vecchio era sparito. L’uomo in camicia nera gridò di rabbia e sparò al cavallo che correva nitrendo come se ridesse dal terrore. Eugenio lo vide stramazzare proprio a due passi da lui. Fu allora che l’uomo in camicia nera applaudì, un applauso esagerato, come di mille e mille uguali a lui, batteva le mani forte, troppo forte, con foga mortale.
Il cavallo rantolava e sbuffava piano, con le froge che gli pulsavano sempre più lentamente, sino ad un ultimo fremito, ed infine morì.
Non ricordava Eugenio, ma da allora aveva avuto paura della gente, del pubblico, dell’applauso mortale. E non era più riuscito a cantare, cantare l’Opera in teatro, per un pubblico. S’era messo a dipingere per superare la depressione e scriveva poesie con timida determinazione. Ma quello era il suo sogno, il Bel Canto perduto.
Il 10 dicembre 1975 a Stoccolma, alla cerimonia di consegna del premio Nobel, dinanzi alla sala stracolma ed attenta, scintillante di luci, uomini in frac e signore in gran soirée, Eugenio Montale salì sul podio, strinse la mano al Re Carlo Gustavo di Svezia, s’inchinò al pubblico e s’avviò al leggio.
Per un attimo chiuse gli occhi e si vide in scena, alla Scala di Milano, in costume da Rigoletto, davanti al pubblico osannante.
Riaprì gli occhi, sorrise e lesse il suo discorso. Alla fine tutti applaudirono e s’alzarono in piedi. Eugenio sospirò, rassegnato: in fondo, pensò, sono soltanto un poeta. Male non faccio.

Francesco Randazzo, siciliano della diaspora, in salutare esilio romano e sovente col cervello in fuga all’estero, è regista e scrittore, soprattutto di teatro. Ha pubblicato testi teatrali, poesie e narrativa ed ha ottenuto vari riconoscimenti in premi di drammaturgia e festivals nazionali e internazionali. Completamente calvo, vive in una piccola casa invasa dai suoi libri, dai giocattoli di suo figlio e dai numerosissimi capelli dell’india yanomami che ha sposato per contrappasso dantesco.

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Menzionati sez. A

 

5 NOVEMBRE 1994 (da Otto piccoli stivali)

di Gabriele Falco (Mantova)

nera che porta via che porta via la via
nera che non si vedeva da una vita intera così dolcenera nera
nera che picchia forte che butta giù le porte

(Fabrizio De Andrè - Dolcenera)

Erano passati a prenderlo nel primo pomeriggio. Lui li aveva attesi in silenzio, respirando finalmente un po’ di tranquillità dopo gli ultimi giorni di trambusto. Nelle corti vicine, già dalla sera prima, non c’era più nessuno. Al mattino, senza nessun preavviso, era venuta una giovane donna, una giornalista. Voleva intervistare l’uomo del pollaio. Lo aveva squadrato con un certo stupore. Si aspettava di trovarsi davanti un vecchio squilibrato, incapace di inframmezzare qualche semplice parola in italiano nel suo rozzo dialetto. Invece aveva conosciuto un lucido quarantenne, che l’aveva fatta gentilmente accomodare in salotto, preoccupandosi immediatamente di giustificare il proprio cattivo odore con le ultime ore passate al pollaio. Lui avrebbe voluto offrirle qualcosa, ma erano giorni che sua sorella non veniva più a portargli le provvista e in casa aveva solo uova e acqua del pozzo. Mentre lui la fissava, lei aveva cominciato a fargli domande. Voleva sapere perché lo chiamavano tutti l’uomo del pollaio. E perché mai non volesse andarsene, nonostante il pericolo. E se era vero che erano anni che non usciva dai confini della sua corte. Aveva avviato il registratore, sperando che lui partisse da lontano, raccontandole i ricordi legati alla campagna e ai suoi genitori. Ma lei sapeva già tutto. Un giorno di quasi trent’anni prima sua madre non era tornata a casa. La mattina dopo avevano trovato i suoi vestiti in mezzo ai cespugli, vicino al fiume. Per la polizia era tutto chiaro: si era spogliata per fare un bagno e la corrente l’aveva trascinata via. Ma il corpo non era mai stato ritrovato e, per questo, i più maligni sostenevano che lei non era morta, se n’era semplicemente andata. Con un altro uomo, probabilmente. L’unica certezza era che poco dopo suo marito aveva abbattuto tutte le mucche, bruciato la stalla e si era tolto la vita. Era di questo che la giornalista avrebbe voluto parlare con l’uomo del pollaio. Lui, invece, si era limitato al presente. Con tono orgoglioso aveva elencato i nomi di tutte le sue ventidue galline. Le aveva mostrato il più piccolo dei pulcini e le aveva spiegato la sua amicizia col fiume. Mi fido di lui, aveva detto. A me non farebbe mai nulla di male. Ed era arrossito un po’ dalla vergogna confermandole che le voci che aveva sentito erano vere: da quando era morto suo padre non era più stato in paese, mai aveva attraversato il ponte di barche. Lei non aveva insistito, aveva spento il registratore e se n’era andata, chiedendosi se sarebbe stato possibile creare un articolo interessante partendo solo da quelle poche parole. Lui era tornato nel pollaio e si era seduto nel fango, ad osservare le galline litigarsi le ultime briciole di pane. Aveva chiuso gli occhi e se l’era immaginata nuda, come faceva sempre guardando le donne della televisione. Ma lei non era come loro e a lui non piaceva barare, neanche nelle fantasie. L’immagine nella sua mente era quella di un corpo poco attraente, eppure ugualmente eccitante. Si era calato i pantaloni e si era masturbato lentamente, prima di addormentarsi. Era stato svegliato da una pioggia sottile, ma intensa. Non dava tregua da più di una settimana e la terra ne era ormai satura. Quando gli uomini in divisa lo avevamo caricato in macchina aveva salutato con la mano tutti gli abitanti del pollaio, con la promessa che sarebbe tornato presto. Ora è in collina, immobile. Sta contemplando, per la prima volta dall’alto, la sua minuscola porzione di mondo. Si sente tradito, non riesce a credere che il suo amico fraterno l’abbia potuto fare veramente. Il fiume è un lunghissimo serpente, la golena un ratto indifeso. I tetti di case, stalle e fienili sono atolli insignificanti in un paesaggio piatto e lunare. Il braccio che gli avvolge maternamente il collo sta cominciando a tremare, forse per il freddo, forse per la paura. Sua sorella vorrebbe spostarsi verso l’argine, dove gli abitanti del paese stanno per accendere il fuoco. Poi arriverà il parroco e reciteranno tutti insieme il Rosario. Ma lui non sente il bisogno di scaldarsi, né di pregare, né di bestemmiare. Si divincola con delicatezza e, a piccoli passi, si dirige, solo, verso il paese. Non cerca né calorosi abbracci, né compassionevoli parole di conforto. Desidera solo mangiare un paio di uova.

Gabriele Falco è nato a Terracina (LT) nel 1973, ma da sempre vive a Mantova. Di formazione tecnica, ha alternato il posto fisso in azienda alla libera professione, rimanendo sempre nel settore informatico. Passa il poco tempo libero fra cinema, cd, libri e viaggi. È socio fondatore e attuale presidente dell'Associazione Culturale "Avamatta". Nel 2004 ha pubblicato con Edizioni Clandestine il suo primo romanzo: Come un killer sotto il sole.

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In punta di piedi (dalla raccola omonima)

di Giovanni Carullo (Avellino)

Il telefonino ti rende sempre rintracciabile. Con i nuovi servizi di localizzazione, sanno dove sei con la precisione di dieci metri. E spegnere il telefonino può essere peggio… Con questi pensieri in testa, nonostante questi pensieri, Anna spense il suo telefonino. Eppure le avevano detto di essere sempre rintracciabile, glielo avevavano raccomandato: "Vedi di non giocarti i prossimi permessi" erano state le ultime parole sentite prima di varcare il cancello, ma neanche aveva fatto caso se a dirle fosse stata una guardia oppure una collega.
Lei era sicura di essersi meritata quel primo permesso, come se la buona condotta dimostrata nei cinque anni trascorsi lontana dal mondo, fosse stato l'unico mezzo a sua disposizione per la conquista di quella boccata d’aria fresca di cui adesso, nel momento in cui sentiva il cancello automatico rinchiudersi alle spalle, pareva avvertire anche il sapore. Sapore indefinibile di vento e di salsedine, di polvere e di nebbia. Il sapore appena percepito della libertà, che non aveva mai creduto prima, Anna, potesse aver sapore. La sera, non oltre le 20.00, sarebbe dovuta essere puntuale davanti al cancello.
Il telefonino era stato il regalo di Agata per il suo compleanno, il quinto compleanno che Anna aveva passato nel carcere femminile di Nisida. Eppure Agata per i primi tempi era stata assai diffidente verso la compagna di cella, si trattava pur sempre di una condanna per omicidio, mentre lei era finita dentro per traffico di donne e di stupefacenti. Un giorno, ma questo un po' di tempo dopo, le aveva raccontato di quel cliente che dopo aver consumato con la più fresca delle sue “bambine”, soltanto dopo, insisteva lei, avesse deciso di mostrarle il distintivo.
Ma assai presto la sensibilità e la disponibilità di Anna avevano creato un’armonia completa tra le due.
Ad Agata il racconto di Anna era sembrato convincente: quale altra sorte poteva riservare a quell'uomo che la picchiava ed insultava, quale risposta migliore per replicare ai calci in pancia e agli sputi in volto solo perché, dietro quella puzza di vino, che gli impestava anche la pelle, la vedeva responsabile di quel corpicino nato senza parola, con un'occhio chiuso, e col sorriso spento?

"Ma lui dov'era, dov'era" aveva ripetuto Anna nel racconto "dov'era quella notte che avevo sentito il mio corpo aprirsi, dov'era quando usai le unghie per strappare il cordone, per sciogliergli quel nodo che lo soffocava…"
Agata si era emozionata; le era comparsa sul volto una maschera di commozione che nessuno, giurava Anna, nessuno della giuria aveva mostrato. Eppure cinque coltellate non erano state troppe, giuste appena a liberarsi dal suo peso, quando con le ginocchia sopra il seno, alternava pugni e sputi… Così quando, soltanto tre mesi prima, Agata aveva riconquistato la libertà, per Anna nelle lacrime dell’ultimo abbraccio si erano confuse gioia e dolore.
Dentro a quelle mura non aveva potuto mai usare il telefonino e soltanto adesso, insieme ai documenti e ad un “arrivederci” di rito, appena ironico, così le era sembrato, glielo avevano consegnato: "Lo tenga acceso se si allontana da casa, il giudice di sorveglianza ha disposto che resti sempre rintracciabile."
Anna affrettò il passo verso la fermata della metropolitana, ma non aveva mai pensato di raggiungere casa. Mai una sola volta in quei cinque anni. Per raggiungere l’Istituto dovette aspettare che arrivasse al capolinea, e percorrere ancora un chilometro a piedi di strada che saliva in collina. Era fantastico il golfo di Napoli in quella nebbia che stentava a staccarsi dal mare, le luci del porto ancora accese, ma dopo il primo sguardo Anna non si voltò più.
Costeggiò la recinzione del giardino con la speranza di vederlo, e soprattutto con il dubbio, che le faceva impazzire il cuore, che lo riconoscesse ancora. Se avesse bussato all’ingresso avrebbe rischiato i prossimi permessi.
Si afferrò con le dita alle maglie della rete e si alzò sulle punte: lo riconobbe. Più alto, sempre magro, lo sguardo fisso a terra.
Un’assistente lo imboccava, seduta accanto a lui. Doveva essere latte e cioccolato, lei pensò, gli piaceva tanto.
Provò d’istinto a chiamarlo, ma la paura e l’emozione le bloccarono il nome in gola. Aprì la borsa, estrasse il cellulare ed armeggiò sui tasti fino a che con le dita tremule cominciò a far squillare le suonerie.
Il bambino si voltò di colpo e lei si illuminò illudendosi l’avesse riconosciuta.
Gli sorrise e sollevò il palmo aperto della mano.

Giovanni Carullo è nato e risiede ad Avellino. Ha vinto il concorso Hi-tech 2002 e il Kriterion 2003 e si è classificato in numerosi altri. Suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista «Il Segnalibro», nella raccolta Premio di Rapolano 2004 e nel sito leggendoscrivendo.it

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Ciò che resterà di noi (incipit)

di Giacomo Colossi (Lograto, BS)

Sono già passati otto anni, ma mi sembra di essere partita ieri. Ho dormito in crioibernazione, ho sognato, mi dice Omega-2-E. Dicono sia molto intelligente, come programma. Parla direttamente ai nostri cervelli, a cui è collegato tramite onde radio. A dire il vero Omega-2-E controlla tutto, i sistemi di bordo, i supporti vitali, la navigazione, e noi tre. Grande invenzione, Omega-2-E. È la nostra madre adottiva.
I sogni di una cosmonauta in crio-ib possono svelare molti segreti. Omega-2-E dice che spesso facevo sogni erotici. Pluriscopate con uomini e donne, che duravano ore. Nel mio lettino, dice Omega-2-E, sudavo e gemevo. Ma credo che Vaghen il maniaco abbia anche sognato di ammazzarci tutti. Non so come abbiano fatto a reclutare un simile testa di cazzo psicopatico.
Per fortuna sono capitata con Sidny, il capitano Mark Sidny, di cui mi fido ciecamente. Ha esperienza. È il suo quinto viaggio interstellare. Dormendo in crio-ib ha perso almeno vent’anni della sua vita, vagando tra le stelle. E sulla Terra, naturalmente, è rimasto solo come un cane di Kanope. Come me. Ma, come dice il manuale dei viaggiatori dell’iperspazio, il tempo scorre in modi diversi, per tutti noi: relativismo spazio-temporale, lo sanno anche le formiche di Fendal-4. Come sanno che ogni scelta sbagliata si paga sempre. Molto cara.
Omega-2-E controlla la Floris-R, parcheggiata in orbita bassa. È il vascello che ci ha portato qui e che si presume ci riporterà indietro, anche se ha subito alcuni danni che i robot-meccanici stanno già sistemando. Io, insieme al maniaco ed al capitano Sidny, cercherò la risposta alla domanda che ci ha fatto fare tremila anni luce in direzione del centro galattico. Sono la sola del gruppo esperta in Materia-Oscura, e gli altri due dovranno fidarsi di ciò che troverò, o non troverò, qui. Un bel peso, per una che non voleva lasciare il suo paesino di cento anime, in Norvegia.
Kashval-5 è una ripugnante palude umida e puzzolente. Ha un’atmosfera respirabile, con troppa anidride carbonica ma sufficiente azoto ed ossigeno. Un’atmosfera che puzza costantemente di marcio, di vegetali in decomposizione. Possiede un unico grande continente fatto di fango, sterpaglie, colline basse e alberi moribondi. Vaghen ha dato il nome di sua figlia a quel continente. L’ha chiamato Righel, e Sidny ha registrato quel nome sul suo diario-di-missione. Righel, ora, è il nome ufficiale dell’unico continente di Kashval-5. Righel, ci ha detto Omega-2-E, è circondato da un oceano di acido cloridrico annacquato. Complicato farci un bagno.


Giacomo Colossi è un insegnante. Abita in provincia di Brescia. Ha partecipato a vari concorsi letterari con racconti di sf (premi Alien, Akery, Future Shock, Rill, Strade Perdute, ecc.), alcuni dei quali sono stati anche pubblicati. Ho scritto un romanzo, arrivato terzo al concorso nazionale Fantascienza.com

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Segnalati sez. B


Poesie (da Specchio)

di Gabriele Oselini (Viadana, MN)

Il vento del nord
Il vento del nord
soffia gelido.
Non vedo le sirene
né sento il loro canto.
Calpesto ciuffi d’erba
nell’asfalto eroso
affranti dalla neve.
Rincorro
cogli occhi
due cani ribelli.
Si amano fuori tempo
non so se abbandonano
o fingono
per poi riamarsi.
Cerco calore
ovunque.
Bastano due linee verticali
ad angolo
e una curva
per i miei sogni.

Febbraio
La pioggia
accompagna
le mie note
fuggenti
verso occidente.
Dai tetti
gelidi
macchie brune
segnano una linea
grigia.
Nascosti
aghi
verdi
di un pino.
Uccelli neri
come carboni
bagnati
in cerca di fuoco.
Astenia dello spirito.

Grigi aironi
Grigi aironi
colorano i rivali.
Nasconde
la nebbia
l’azzurro.
Gli occhi
ripiegati
seguono
i passi.

Nato a Viadana nel 1953 ed ivi residente, Gabriele Oselini si è laureato in Pedagogia presso l'Università degli Studi di Parma. Insegna Italiano presso la Scuola Media Statale di Sabbioneta (MN) dal 1985. Sposato con due figlie, attivo sportivo prima come giocatore di rugby e poi come tecnico, è ora assessore alle Attività culturali, sport e politiche giovanili della sua città, appassionato di letteratura e poesia fin dall'adolescenza. Nessuna pubblicazione fino ad oggi; contatti negli anni 76, 77, 78 con Daniele Ponchiroli, amico personale, capo redattore della Einaudi, a cui non fu dato alcun seguito, anche per la prematura scomparsa dello stesso.

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Poesie (da Preghiera in guerra)

di Stefano Martello (Roma)

Preghiera in guerra
Mio Signore, ti prego
fa’ che il colpo parta preciso,
e che colpisca al cuore,
perché non c’è bisogno che il mio nemico soffra
già si soffre abbastanza in questa merda di guerra,
ed io non riesco a ricordare una bella giornata,
perché anche se il sole brilla caldo,
qui c’è sempre qualcuno che muore.
Piove sempre sangue in guerra, mio Signore,
e mentre sono qui intento a pregare Te,
qualcuno si dimentica di stare attento,
e muore.

Italiani
Italiani,
brava gente,
italiani
bonaccioni,
italiani
turisti invertebrati nella giungla europea,
italiani
tutti “qui si fa l’Italia o si muore”,
italiani
con i discorsi eroici sotto la lama del barbiere,
ma dopo la partita, dottore,
che oggi c’è la finale!

Il mio nome
Troppo ho smarrito
per cercare sicurezza nel mio nome
che non dona verità,
ma regala magnanimo altre incertezze
chiuse nel limbo dell’inadeguatezza,
pronte ad emergere ad ogni “forse”,
e forti di un potere che non esiste.
Fuori luce e calore,
dentro buio e dolore.

Stefano Martello (Roma, 1974) è pubblicista e collabora con diverse riviste per articoli di cultura, diritto e comunicazione. Tra le sue opere poetiche, Il viaggio infinito (Salerno, 1998) e Dietro la curva (Salerno-Roma, 1999). Vive a Roma.

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Poesie (da Ho amato una principessa musulmana)

di Eros Maria Mallo (Ragusa)

Ho amato tanto una principessa musulmana
Ho mangiato con loro il riso con le mani in una squallida piazza romana
Ho insegnato la mia lingua ad un iraniano e insieme ci siamo fatti forza
Ho lavorato tanto e tanto ho sbagliato con un grande uomo palestinese
Ho sgobbato con egiziani tunisini marocchini
Avevo un amico clandestino che mi regalava tanta musica libanese
E poi lui che quando mi vedeva in difficoltà si metteva la mano in tasca e sorrideva


Chiediamo a voi il sottile e fine gioco dell’intelligenza perché vostro sarà presto il timone vostra un giorno la chiave dell’unica possibilità rimasta
Questi cuori così empi questi sciacalli di vite fragili che si aggirano ovunque che
[ violentano i candidi sogni dei bambini e delle donne
Sono loro i peggiori nemici dell’islam
Entrate ragazzi voi che avete i cuori grandi guardate con quanta cura le nostre mogli accudiscono i figli
Entrate e sarete ospiti graditiEntrate diamoci la mano e parliamo di noi e di come siamo
Abbiate il coraggio e la forza di non generalizzare soprattutto adesso che questo mondo va in fiamme
Ed insieme facciamoli tremare questi cuori attenti
Ed insieme facciamoli tremare questi cuori attenti
Ed insieme facciamoli tremare questi cuori attenti
Insieme
Insieme
Insieme

(06/09/04)

Il sole si confonde alla luna
La luna si confonde al sole
Le stelle cadendo dal cielo
Vestono di sangue le macerie

Con tutti quei dischi giocava Sergio con medesima foga con cui tiene in mano il telecomando saltellando
Fu così che conobbi Fabrizio molto prima di morire
Morir si può certamente di silenzio ma credo che quel fior vita mi diede per poter risollevar il capo E molti anni prima ebbi un vizio chiamato scrivere e dopo ancora una donna evanescente che mi potesse spingere
Tornava dalla guerra il re così re tanto potente e ricco da perdersi e diventare piccolo
Il potere spingeva Piero in prima linea lui era così guerriero da pensarci sopra e trafitto non fu da crudeltà ma da paura
Si riunirono nel loro bunker segreto i giostrai brindarono ma il vino non era quello dei poeti
Tornando a casa era una sera di primavera incontrai una bimba con un tamburello gitano
Da ogni personaggio strappai un giglio e lo portai al cuore
Quante volte Fabrizio giunse in mio soccorso tutte quelle volte che non trovavo le parole
Tutte quelle volte che dovevo spingermi oltre ed imparare ad amare

(A Fabrizio De Andrè 16/07/04)

Eros Maria Mallo è nato e vive a Ragusa dopo essere vissuto a Roma, Milano e in altre città. Dopo anni di silenzio ritorna a scrivere grazie all’entusiasmo riacceso da un paio di incontri fugaci con la poetessa milanese Alda Merini di cui con orgoglio conserva un aforisma con dedica della stessa. Coltiva anche la passione della musica, lavora nel settore della ristorazione, continua le sue cure e scrive, scrive tanto.

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Menzionati sez. B

Poesie (da Sarà da poeti il futuro)

di Enrica Musio (Santarcangelo di Romagna)

Me ne vado per le strade
Me ne vado per le strade,
lontano,
dove nessuno mi può raggiungere,
dove esiste la libertà,
dove mi posso sentire fiera
e unica,
speciale,
senza che nessuno possa dirmi
quello che devo fare,
me ne vado
per le tante strade.

Tu amavi guardare dietro ai cancelli
Tu amavi guardare dietro ai cancelli,
e spiarmi mentre
prendo la posta,
tu guardone
del mio vicino,
non hai mai nulla
da fare,
tu amavi
guardare
dietro
i cancelli.

Lasciando il cuore di porta in porta
Lasciando il cuore,
di porta in porta,
darlo a chi ha bisogno di cuore,
lasciandolo ai tanti amori,
come una puttana
di una periferia,
dare il cuore gratis,
a tutti,
senza un pegno,
o un dono,
lasciandolo di porta in porta.


Il mio passo beve l’ombra
Il mio passo fragile,
piano e flebile,
si beve a poco poco
l’ombra,
sparisce,
dai muri delle case,
non la ritrovo più,
accanto a me,
il passo che si è bevuto la
mia ombra.


Enrica Paola Musio è nata a Santarcangelo di Romagna. La passione della poesia c’è sempre stata, ma in seguito all’invito di un amico, è diventata impegno costante. È stata segnalata e premiata in numerosi concorsi.
“Mi piace scrivere poesie per comunicare, scoprire la mia sensibilità, con la speranza che la poesia non scompaia nell’efficienza, nella fretta e nell’ ipocrisia del mondo.”

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Poesie (da Kostantin Peròl)

di Costantino Loprete (Salerno)

Un nomade mio amico…
Andare fidando due passi tra sé
Tanto per via, un nomade mio amico
t’accontenta d’un sigaro all’anisetta
Ingiallito silenzio che sfuma nella destra
un marcio di pensieri arrotolato di tempo
che si spera, non seppe più d’angoscia
Qualche volta medita, perdute nottate
Di rughe che conosco, risalire al fiume
Qualche volta. E più volte piangendo
Dell’Irno malato, un gabbiano che segue
lo sa e non lo sa. Crepa di sereno
Racchiuso nel tiepido maestrale.

Il tuffatore
Paestum, arioso di felicità biomorfa
Isolato tempo del vasto mareggiare
Vibra tra i colonnati tipo magico
Nuda sussurra Eco il dolce ostro
Desta profondo che anima un sorriso
Emerge al fremito di un agile tuffo,
Libera Io come la fiorita mimosa
Una toccante empatia di equilibrio

La neve di Tirana
Argento scende inverno
da un agato cielo bora
sciama i loricati scarni
più notte aghi di gelo,
incanta la neve di Tirana
e poi il sole affiora
timidi lilà i bucaneve.
Abitano questo arco d’eterno
il lepre, con l’aquila e il lupo
con i giorni suoi il mondo
… istanti che mi ferma in cuore
un dejavù di kulle bizantine,
fredda presso il minareto
una traccia, antico sorriso…
come corrono buffi i corvi
come per celeste invito.

Costantino Loprete, 42-enne vive a Salerno dove è nato da lucani, (padre camionista di lingua italo-albanese, madre casalinga). Docente di fisica nella pubblica scuola superiore. Fuma però non divaga sogni; fotografia, cinema. Segnalato al concorso IIIM 2002.

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Poesie (da Leggermente fuori fuoco)

di Antonella Segantin (Casal Monferrato)

Il mio disagio
Il mio disagio
sfugge, dalla punta delle mie
dita.
Dieci dita.
Battezzarlo è venuto naturale,
dopo averlo visto
negli occhi degli altri.
Amplificato, grande
un milione di volte invade, adesso
un milione di volti. E di cose.
Lo puoi trovare, facilmente,
nell’iride bruna e nell’iride
chiara;
nel cielo gioioso di nuvole
danzanti;
nei ricordi che ieri avevi
dimenticato;
nell’ombra scura che il tuo passo
lascia nella sabbia. È un compagno
adorabile, con cui combattere e
mai vincere. Lo puoi scalfire
nell’ora in cui il sole è a picco;
lo puoi negare,
quando il vento non muove
i vestiti;
ma lo riconosci presto
nel breve
lampo della sera che ti avvolge.
Indolore come l’estate
e profondo come un fazzoletto
rosso.

Il piumone
Lo conosci,
l’inverno del cuore?
Quando nessuna foglia si muove
al vento
Quando la gola è talmente secca
da sembrare d’oro
Quando l’immobilità del cervello
blocca la parola
E se una luce si accende
gli occhi sono ciechi.
È la notte dell’anima e della volontà,
dove tutto dorme, quieto
… come un piumone disteso
su lenzuola raggrinzite
e stropicciate.

Antonella Segantin ha 26 anni ed ha sempre sentito il desiderio di scrivere. Ci prova e ci riprova e ultimamente la poesia si fa spazio fra le sue occupazioni sempre più spesso, ed il bisogno di scrivere e provare è sempre più forte, divertente, liberatorio e necessario.

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Altro partecipante

L'orsetto Tony (da Agrodolce)

di Saverio Fragomeni

Un giorno nella foresta, un cucciolo di orso di nome Tony ,giocando con le foglie e i tronchi d'albero si avvicinò ad una bellissima casetta tutta costruita in legno.
All'interno della casetta Tony vide alcuni bambini che insieme alla loro mamma osservavano un mobile che possedeva uno schermo e su quello stesso schermo scorrevano strane immagini.
L'orsacchiotto incuriosito cercando di capire, allungò il collo, trattenne il respiro e cercò di osservare meglio le immagini che provenivano dallo strano oggetto che poi seppe si chiamava televisione.
Con sua enorme sorpresa riconobbe in quelle immagini un altro suo simile. Era un orsacchiotto, ma meraviglie delle meraviglie, egli era completamente bianco mentre lui, Tony, era completamente bruno.
Rimase esterrefatto: "Come è possibile che un mio parente sia tutto bianco, come può essere tutto ciò? E come è bello: anche io, voglio diventare un orsetto bianco," e corse via a cercare i suoi genitori e i suoi fratellini.
"Mamma, mamma!"
"Cosa c'è piccolo," rispose mamma orsa, "sei tutto sudato, sporco, possibile che tu sia così vivace e mai obbediente come i tuoi fratellini?"
"Mamma," continuò l'orsetto, "ascolta!" e raccontò ciò che aveva visto: un orsetto tutto bianco.
Mamma orsa rimase perplessa, questo suo cucciolo era sì meraviglioso, vivace, ma un po' discolo e sempre in giro a vagabondare: ora poi questa storia dell'orso bianco la faceva pensare. Cercò di tranquillizzare Tony, lo lavò lo asciugò e gli preparò una bella colazione.
Trascorsero alcuni giorni, ma Tony non dimenticava il bianco pelo del suo simile e continuò a parlarne con i fratelli, con mamma e papà orso.
Papà orso era grande e grosso ma buono e saggio e amava perdutamente i suoi cuccioli e la propria compagna. Aveva visto e conosciuto la foresta e le regole che vigevano in quel mondo, era molto apprezzato dagli altri orsi e da tutti gli altri animali. Egli sapeva, per sentito dire, che esistevano altri luoghi altre civiltà e che molte di esse si sviluppavano vicino al mare del Nord.
Papà orso si consultò con mamma orsa e le disse: "È molto tempo che non facciamo una vacanza, perché non intraprendiamo un bel viaggio verso il mare con i nostri cuccioli?"
Mamma orsa, che amava molto il marito, accettò e in un battibaleno tutta la famigliola fu pronta per la partenza.
Cammina, cammina, cammina essi giunsero in una bellissima città dove vivevano molti uomini, e si recarono nei pressi del porto. Gli orsi, giunti vicino al mare, si nascosero dietro una siepe per non spaventare le persone e attesero che giungesse la notte. Nell'attesa si addormentarono, ma non Tony che continuava ad osservare con curiosità un mondo per lui completamente sconosciuto.
Infine, vinto dalla curiosità, l'orsetto uscì dal nascondiglio si avvicinò in prossimità del mare e si acquattò senza farsi vedere su un'aiuola piena di fiori. Si accorse che molte persone si avvicinavano ad una grande e strana pietra. Questo enorme sasso era una statua e raffigurava una bellissima sirenetta. Aguzzando le orecchie riusci a conoscere dalle escavazioni delle persone vicine che il nome della figura in pietra era "la sirenetta di Copenaghen".
Gli uomini, le donne, i fidanzatini, gli sposi, i bimbi, gli anziani insomma tutti coloro che si avvicinavano alla sirenetta sembravano che le parlassero e precisamente sembrava che tutti domandassero alla bella figura che facesse avverare i loro sogni, i loro desideri. Almeno così sembrava al piccolo cucciolo d'orso. Quando tutte le persone andarono via, Tony saltò fuori dal suo nascondiglio, si avvicinò alla sirenetta e la guardò con estrema meraviglia dal basso verso l'alto.
Con sua enorme sorpresa, si accorse che la sirenetta gli sorrideva e quindi lo salutò: "Ciao bell'orsacchiotto, cosa desideri?"
Tony un po' spaventato ma felice di poter gustare quel bel volto sorridente rispose: "Vorrei diventare un orsetto tutto bianco".
La sirenetta annuì continuò a sorridergli e lo rassicurò: "Torna dalla tua famiglia, perché si appresta la notte e fai un bel sonnellino, ciao."
Tony ritornò dai genitori e dai fratellini, si accucciò vicino al caldo pelo di mamma orsa e si addormentò.
Al mattino, con sua somma sorpresa, si accorse di essere diventato bianco e anche mamma orsa, anche papà orso ed anche i suoi fratellini, tutto intorno era bianco. L'aria era fresca, festosa, pulita, era caduta la neve.

Saverio Fragomeni è un insegnante in pensione, vive a Torino, ha due figlie ed è nonno felice di Nicole (3 anni) e Leonardo (4 mesi). Ha sempre amato leggere e ha partecipato al nostro concorso per il piacere che qualcuno, anche solo involontariamente, leggesse "I pensieri in libertà" un po’ autobiografici di un novello pensionato.

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