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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 100
aprile 2008

Editoriale: 100 mesi!

Eh sì, questa webzine ne ha fatta di strada grazie a tutti coloro che l'hanno sostenuta con le loro opere, ai tanti lettori che magari casualmente ci hanno dato una sbirciata, agli autentici fan che ne vorrebbero addirittura una versione cartacea… Per festeggiare, questo numero è particolarmente ricco: iniziamo dal Monologo per santa Teresa di Gesù di Maria Rosa Panté per arrivare all'Equilibrista di Mattia Pari, alle Due nuove poesie di Raffaele Ibba, alla riflessione poetica di Riccardo Burgazzi, a quella sull'humanum exitum di Franco Casadei; intanto i vostri occhi cadranno sui versi con dichiarazione di intenti di Luca Ariano, sulla lectio lucana di padre Bernardo e sui racconti con micropoesie di Marco Zavarini.
Per chi può, a fine aprile e siamo a Traversetolo e il 19 a Firenze: sarà bello incontrarci. È già uscito l'atteso bando del Concorso Pubblica con noi 2008. La bella foto delle porte è di Cecilia Caprettini, che ringraziamo per la disponibilità.


Monologo per santa Teresa di Gesù

di Maria Rosa Panté

Non la possiamo lasciare da sola in cucina; così abbiamo deciso dopo l’ultima… l’ultima… non saprei come definirla.
Visto da fuori è stato un incidente: abbiamo udito il rumore, e, una volta in cucina, abbiamo veduto tutte quelle uova a terra, e lei ferma. Dio perdonatemi, io ho pensato soprattutto alle uova; sono giovane e la fame a volte mi tormenta. Non che la Madre ci chieda chissà quali sacrifici, ma siamo povere, viviamo di carità e tante uova erano un tesoro.
Per questo abbiamo stabilito che da sola, in cucina, la Madre non può stare.
Però, dopo aver visto lo scempio delle uova, io ho guardato lei: non l’avevo mai veduta durante… durante. Non so come dire: un attacco? No, non è certo una malattia. Un episodio, un momento… no, durante una visione. Ecco una visione estatica, un rapimento.
L’ho osservata e ho scordato le uova, l’ho osservata e mi sono impaurita, poi ho pensato che anch’io, anch’io avrei voluto provare l’estasi, l’unione intima e unica con Dio.
Sono certa che lei, dopo aver tanto dubitato di sé stessa, all’inizio non mi crederebbe, cercherebbe di farmi dormire di più, mi farebbe mangiare un po’ di carne; quando una consorella afferma di avere visioni o di cadere in estasi, la Madre raccomanda subito queste cose per essere sicura che davvero siano doni di Dio e non frutto di un carattere malinconico o dell’ansia di mettersi in mostra.
Eppure, proprio lei, mi hanno raccontato le sorelle più anziane, ha spesso questi momenti.
Una delle prime volte fu vista levarsi da terra in chiesa, durante la Santa Messa. C’era molta gente e la Madre, quando tornò in sé, si adirò: non le piace dare spettacolo. Pare abbia chiesto a Dio più discrezione e Dio, almeno in questo, l’ha accontentata.
Nessuno sa, nemmeno lei, quando arriveranno i rapimenti, le visioni, i doni, come spesso dice, di Dio: ma, se avviene in cucina è un disastro!
In quei momenti resta immobile, come di pietra. È assente, il suo corpo è qui, ma il suo spirito si unisce a Dio: io non ho dubbi. Quando si riscuote non sta bene, ma non credo sia un dolore fisico, piuttosto non le piace ritornare; là dov’era c’è la beatitudine, una felicità sconosciuta, c’è Dio.
Sulla terra, invece… ci siamo noi, gli amici, i molti nemici, la famiglia e le sue malattie. In realtà mi pare difficile trovare una donna così malata eppure così attiva, così piena di vita, di entusiasmo.
Una volta con un’altra novizia abbiamo fatto un gioco pietoso e crudele insieme: abbiamo passato in rassegna il corpo della Madre per vedere se ci fosse un pezzo, un organo sano.
Ne è venuta fuori quasi una filastrocca che non ho mai avuto il coraggio di riferire a nessuno, l’unica che ne riderebbe sarebbe proprio la Madre, che nei ritagli di tempo scrive per noi bellissime preghiere in rima e canti e filastrocche che ci tengono allegre.
Ride anche lei, ma non sempre.

Nella testa c’è confusione
nelle orecchie canti d’uccellini e cascate.
Il cuore duole di passione
nello stomaco crude staffilate.
Lussata dal demonio la spalla.
Quasi morta Dio la riportò a galla
.

Molto irriverente, me ne vergogno. Però è tutto vero. La Madre da giovane fu lì lì per morire d’una malattia sconosciuta, le avevano già sigillato gli occhi con la cera, ma non morì.
Si dice che guarì grazie alla preghiera interiore. Certo, quando si risvegliò, riusciva a muovere solo il mignolo: era tutta rattrappita e con terribili dolori di nervi.
Nessuno sa come riuscisse a sopportarli, nessuno sa come guarì: dopo il mignolo, mosse poco alla volta braccia e gambe, camminava a carponi, infine tornò normale. Insomma non proprio normale: le malattie l’accompagnano ancora. Qualche volta persino lei cede e piange per il dolore, forse anche per la nostalgia del mondo estatico ove incontra Dio… Eppure non si arrende. “Finché vivrò” dice “mi renderò utile come mi ordina Dio”, anzi Sua Maestà: giacché lei lo chiama così.
La Madre obbedisce, pure mi pare più adatta a comandare; la Madre è umile, ma io la trovo combattiva, non mi stupirei che ogni tanto sgridasse addirittura Dio o gli desse qualche consiglio, perché la Madre, quando non è in estasi, ha i piedi ben piantati per terra.
Scrive lettere in continuazione a tutte le Priore che custodiscono e reggono i monasteri di Spagna. I monasteri delle Carmelitane, quelli del nuovo ordine nati proprio per il volere della Madre Fundadora, di Teresa di Gesù.
Ha scelto questo nome per la sua speciale devozione a Gesù, il Gesù uomo, che è venuto sulla terra per noi: Teresa è Marta e Maria insieme, vita attiva e vita contemplativa. Non disprezza il corpo, ma l’esteriorità. Veste di stracci, sempre pulitissimi e anche noi dobbiamo essere pulite, i conventi sono poveri ma tirati a lucido, la Madre non puzza mai. No, non disprezza il corpo, per questo ci dice spesso di concentrarci per l’orazione sulla Passione di Gesù.
E poi, poi non oso dirlo, non so come dirlo, lei, la Madre lo ha visto, lo ha visto! Nemmeno lei che ha parole magnifiche e chiare per tutto, nemmeno lei l’ha descritto. Dice che ricorda particolari come le mani e nella sostanza l’emozione d’un’apparizione bellissima, come nei quadri che lo ritraggono dopo la Resurrezione. È un pensiero così grande che per poter parlare con lei, devo concentrarmi e dimenticare queste meraviglie, devo talvolta farmi forza per avvicinarla, perché lei ha udito la voce di Dio, lei lo ha veduto.
Starle vicino è un tormento e una gioia, soprattutto quando la osservo mentre gioca con le piccole ospiti che di tanto in tanto stanno un poco in convento, sono le sue nipotine o quelle di altri amici. La Madre si trasforma, quella bocca che ha conversato con Dio, trova il linguaggio dei fanciulli e tutte le bambine sono conquistate da lei, dalla sua fantasia, dalla sua tenerezza. D’altra parte lo dice il suo Gesù… “Lasciate che i bambini vengano a me”.
In questo periodo pasquale la Madre ha detto che ci guiderà sul cammino dell’orazione interiore e dunque fremo nell’attesa che ci narri anche cosa vede quando le uova le cadono di mano, quando resta immobile e dura come una statua e nessuno, nessuna forza riesce a spostarla o a farla sedere, oppure quando si solleva dal pavimento come se Dio la avvicinasse a sé con una carezza invisibile, poi ci ripensasse e decidesse di lasciarla ancora un po’ sulla terra, con noi. La Madre, infatti, non ha finito il suo compito, continua a viaggiare per la Spagna, in qualsiasi stagione, con qualsiasi clima: Dio chiama e lei va!
Una volta o l’altra verrà il mio turno e la seguirò, sarà un’avventura lo so. Qualche monastero è stato fondato nel corso di una notte per evitare ostacoli, attacchi, espulsioni. Sì, sarà un’avventura, per me, che sono giovane, ma per la Madre! Talvolta la osservo e vedo le rughe profonde, gli occhi cerchiati, la stanchezza. Poi sorride, chiede un po’ di burro (ogni tanto ce lo fanno trovare davanti alla porta del convento), corre a scrivere una lettera e tutto si rischiara, tutto prende vita. Come l’ammiro! Non ha paura di nulla e di nessuno. Un tempo sì, un tempo ha temuto per la sua anima. Chi non si spaventerebbe di fronte a Dio? L’infinito che irrompe in una vita limitata: questo è il dono, il favore di Dio verso Teresa. Lei lo dice spesso, ci vuole molto coraggio per accettare un tale dono.
Ma la sua paura più grande e tormentosa è stata all’inizio, quando temeva che tutte le sue visioni, le sue esperienze estatiche fossero una trappola del demonio, perché il demonio non è quel mostro che si pensa, il demonio sa camuffarsi, il demonio sa ingannare. Teresa a lungo temette che questi doni fossero pomi avvelenati. Era in preda a una disperazione tale che non viveva più, per fortuna un confessore intelligente capì che quelli erano autentici doni di Dio.
Rimaneva da temere solo l’Inquisizione: la temevano i suoi amici. La Madre no, ormai il suo Amato l’aveva rassicurata e poi non era tipo da restare a lungo triste. La Madre infatti dice sempre: “Dio mi liberi dai santi musoni!”
Lo dice scherzando anche a un frate piccolo, piccolo, Giovanni della Croce. L’ho intravisto qualche volta, un uomo così piccolo, scuro, scuro, dicono sia tutto spirito, anche lui ha grandi doni da Dio. Ci credo, in lui, nel suo volto scarno, inquieto si vede di più. Il volto della Madre ancora grazioso, ancora tondo e con tre nei a sottolineare le belle labbra. Il volto della Madre invece, non pare quello di una Santa e che Dio mi perdoni se oso tanto.
Il fraticello è uno dei confessori della Madre. Ne ha avuti molti: non è mai soddisfatta e con loro ha un rapporto strano. Qualcuno lo strapazza, qualcuno lo accudisce come un figlio, tutti li ascolta, ma credo che, alla fine, siano loro ad obbedire a lei. Lo dico con certezza perché poco tempo fa ho sentito un padre lamentarsi, diceva, (quanto mi viene da ridere ora) diceva: “alla fine bisogna sempre fare come vuole lei” e intanto preparava la sua cavalcatura per andare dove la Madre gli aveva “chiesto” di andare.
Però la amano, perché li segue come una madre premurosa… Così è anche con noi. La regola ci impone rinunce, digiuni, povertà, ma non tristezza o umiliazione fine a sé stessa. Sempre la Madre raccomanda alle altre Priore di non usare mai le punizioni corporali, nemmeno un pizzicotto. Non si deve chiedere a nessuno più di quanto possa dare.
Se mi chiedessero perché amo tanto la Madre, e non tutti la amano, anzi… io subito direi… perché è buona!
La Madre vede il mondo, vive nel mondo, ma oramai nel suo intimo è già da un’altra parte, da tempo lei è entrata nella VII stanza!
Una volta il suo Amato Le chiese “Chi sei tu?” ed essa rispose “Sono Teresa di Gesù. E voi?”
“Sono Gesù di Teresa.”

Maria Rosa Panté è nata nel 1961 a Borgosesia, cittadina in provincia di Vercelli dove vive. Insegnante di materie letterarie in istituti superiori, attualmente si occupa della produzione di materiale multimediale e ipertesti per la didattica. Ha pubblicato un libro di poesie e prose, L’amplesso retorico. Voci femminili dal mito (2004) e nel 2006 un libro di racconti: Noi che non fummo muse (Manni). Ha partecipato a diversi concorsi di poesia e narrativa, conseguendo premi sia per la produzione poetica, che per la prosa e la saggistica.

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L'equilibrista

di Mattia Pari

Fu così che lo incontrai.
Legai con cura la corda ai due alberi.
Ci saltai sopra e cominciai a camminare sospeso tra i due rami.
Osservavo il metro e mezzo che mi separava dal suolo e immaginavo tutto il resto. Mi trovavo a circa dieci metri da terra, ovviamente senza reti di sicurezza, quella è roba da dilettanti. Gli spettatori erano increduli, meravigliati dal mio coraggio, ero il padrone assoluto del momento.
Poi un piede posizionato male o il vento, certo quello stupido vento mi fece inciampare e cadere.
Cadevo spesso, mi rialzavo e ricominciavo a sognare.
Potevo imparare, ne avevo la stoffa e poi mi ripetevo che nei circhi il vento non c’è.
Fu così che lo incontrai.
Sedere a terra e deciso a rialzarmi.
“Fa male quando si cade.”
“Il dolore non è fisico” – risposi.
“Sei saggio ragazzo, quanti anni hai?”
“Dodici, signore”
“E sei un equilibrista?”
“Un giorno il migliore di tutti, per il momento lavoro come aiutante di bottega.”
“Come di chiami?”
“Ador.”
“Genitori ne hai?”
“Non ne ho signore, vivo solo.”
“Il mio nome è Sanar e cerco un aiutante, ma il lavoro che offro è faticoso, si gira il mondo, non si possono mettere radici e la paga è bassa, ma in cambio insegno un mestiere, un’Arte”
“Che lavoro fa signore?”
“L’equilibrista.”
Il mio viso si illuminò – “L’equilibrista?”
“Il migliore di tutti.”

In qualche anno visitammo centinaia di città, conobbi migliaia di persone, dormii in tantissimi letti e lentamente il mio concetto di casa si sostituì alla vicinanza con il Maestro.
Egli divenne un padre, una madre e un datore di lavoro; egli divenne tutto.
Ed io divenni parte di un progetto.
Divenni parte del futuro.
Ci allenavamo diverse ore al giorno, perché egli diceva che senza esercizio non c’era speranza.
Il concetto della speranza mi confondeva.
“Qual è la nostra speranza?”
“Tu.”
“Io?”
Non aggiunse altro. Non chiesi altro. Il vento portò via quelle parole.

Di notte, mentre il Maestro dormiva approfittavo del silenzio e provavo i miei numeri alla luce della fiaccola.
Passavo avanti e indietro su quella corda per ore, correvo, camminavo, saltavo. Prima di andare a riposare mi esibivo nell’ultimo numero.
Spegnevo la fiaccola ed attraversavo l’ostacolo nel buio.

Una notte nella gioia senza applausi della mia impresa, il Maestro mi interruppe.
“Bravo, stai migliorando.”
“Grazie, ma sento che per quanto possa affinare la mia tecnica, qualcosa non funziona.”
“Cosa?”
“Forse, qualcosa che non si vede, qualcosa che è dentro di me.”
“Il tuo equilibrio è precario.”
“No, il mio equilibrio è perfetto.”
“Non essere presuntuoso, l’equilibrio non è visibile. Non guardare con gli occhi, osserva con il cuore. L’equilibrio non è solo trovare stabilità. Tutto te stesso deve subire una mutazione, devi trasformarti in un paradosso.”
“Paradosso?”
“Hai mai visto una quercia che salta con agilità su una fune di piccolo spessore?”
“Certo che no!!!”
“Quello devi diventare, muta il tuo corpo e la tua mente, cambia aspetto, vivi un’altra vita. Stabile nella sua precarietà.”
Mentre si allontanava nel buio della notte, aggiunse “Non mi resta molto tempo impara, impara in fretta, figliolo.”

Erano ormai due mesi che eravamo in viaggio, senza fare esibizioni: la cosa mi stupiva e non capivo la destinazione del nostro pellegrinare, da giorni camminavamo in un bosco senza contatti umani.
Una mattina non resistetti alla curiosità.
“Maestro, dove siamo diretti?”
“Alla città degli equilibristi.”
“E che razza di posto è?”
“Il mondo è la nostra casa, il pubblico la nostra famiglia e quella città… siamo noi stessi. Essa esiste perché noi esistiamo, vive perché noi viviamo.”
“Come può una città vivere!”
“Perché non dovrebbe farlo?”
“La risposta non è difficile, per iniziare serve un cuore.”
“Quello non manca, anzi quelli non mancano. Un cuore per ogni equilibrista.”
Erano molti anni che seguivo Sanar: più lui invecchiava, più il mio corpo prendeva forza, sembrava che le mie mani, i miei piedi, i miei occhi, la mia mente, si stessero sostituendo alla sue. In quel momento capii che non ero mai stato solo.
“Siamo arrivati.”
Un fiume immenso, chilometri di acqua in tempesta, un mare in un fiume. Acqua contro acqua, nessun fuoco avrebbe potuto fermare quella distesa azzurra.
“La città è un fiume?”
“No, stupido, dopo il fiume c’è la città, essa è situata in una piccola isola al centro del letto.”
Mi sforzai di vedere l’altra sponda, niente.
“L’unico accesso è quella fune” indicò una sottile linea nera sopra l’oceano blu.
“Incredibile…”
“Andiamo.”
“Non ho paura.”
“Lo so, ma non è il vuoto, il mare che devi temere, è la solidità del tuo equilibrio.”
“Non ho paura” ribadii con decisione, cercando di convincermi di quel che dicevo.
Salimmo sul filo e cominciammo a camminare, ma quando arrivai a metà della strada, successe qualcosa.
Sentii delle forze venire verso di me, ombre scure, mi distraevano, confondevano la mia testa, non percepivo più nulla, nessuno dei sensi rispondeva. Non vedevo, non sentivo, niente…
Barcollavo, non volevo cadere, non volevo morire, non ora, non prima di essere diventato il migliore equilibrista del mondo.
Cominciai ad urlare con tutte le mie forze, sommersi il frastuono delle onde, i sensi tornarono e le ombre si allontanarono.
Piansi.
Il Mestro sorrise.
Arrivai stremato, ricordo volti, case, aste, corde, mattoni, pietre, alberi, un castello, poi svenni.
Il sogno fu un incubo, pieno di ombre che mi deridevano mentre annegavo in una bacinella.

“Benvenuto sull’isola!”
Mi svegliai, stropicciai gli occhi e con fare indeciso ringraziai.
“Io sono l’amministratore della città, mi chiamo Entor.”
Era un uomo di almeno novant’anni, con i capelli bianchi, le mani lunghe, con molte grinze ed un grande mantello nero.
“Piacere, Ador… dov’è il mio Maestro?”
“Il vecchio Sanar è andato a bere qualcosa alla locanda, ha detto che aveva bisogno di sciacquare la bocca.”
Sapevo bene che quando il maestro diceva “sciacquare la bocca” era sbornia certa.
“Mi può accompagnare da lui?”
“Certo, seguimi.”
C’erano atleti ovunque, corde situate in ogni dove, le case erano tutte comunicanti: era come se un intera città si risolvesse in un'unica casa. E gli alberi inghiottivano il paesaggio proteggendo le strutture in mattoni. Fantastico.
La gente era vivace e i loro abiti erano molto colorati. Guardandomi intorno vidi che l’acqua del fiume circondava completamente l’isola con un muro verticale di una decina di metri.
“Scusi, signor Entor, ma com’è possibile che il fiume non inghiotta questo piccolo spiazzo di terra?”
“Mi sembra evidente, ci siamo noi e loro scappano, hanno paura!”
“Chi?”
“Codardi!”
“Loro chi?” insistetti.
“I pensieri cattivi.”
“Ah! i pensieri cattivi, certo, certo” pensai che il vecchio soffrisse di demenza senile.
“Sai, ci domandavamo tutti che aspetto avessi?”
“Io? Come mai tutta questa curiosità?”
“… Certo, ci immaginavamo qualcosa di più, però… hai solo diciotto anni, com’è possibile che tu sia già pronto? Eppure Sanar è così sicuro, dice che non ha mai visto niente di simile, che non ha dubbi”
continuava il suo stupido monologo, questo Entor era veramente pazzo.
“Arrivati.”
Mi precipitai dentro la locanda. Trovai il Maestro completamente ubriaco che ballava saltando su bottiglie vuote posizionate a caso sul pavimento.
“Maestro!”
“Ragazzo, ben arrivato, bevi qualcosa con noi!”
La gente mi osservava in modo strano.
“No, grazie Maestro, credo che sia meglio che anche lei si riposi, il viaggio è stato lungo e…”
“Non sono affatto stanco!”
“Maestro, la prego, andiamo a dormire.”
“Vai tu, io non ho tempo per dormire, i miei giorni stanno finendo.”
“Lei è solo molto stanco e, se posso permettermi, un tantino brillo, si fidi…”
“Non brillo ragazzo, ubriaco! Ubriaco fino al midollo!”
Guardai Entor, che nel frattempo era entrato, e cercai con gli occhi il suo aiuto.
“Ragazzo, lasciagli godere gli ultimi giorni!”
“Perché tutti parlate di ultimi giorni, questo non è un funerale, questa locanda non è un luogo santo e il barista non è certo un sacerdote! Ma siete tutti pazzi in questa città!”
Il silenzio che seguì le mie parole mi pietrificò: rimasi lì in piedi, in mezzo alla stanza con le guance rosse.
“Come fai ad essere così egoista?” disse Entor rivolgendosi a me.
“Non è colpa sua, vecchio, la colpa è mia, lui non sa niente” interferì Sanar.
“Come non sa niente, vuoi dire che non gli hai detto chi è, chi sei tu, chi siamo noi e perché si trova qui?”
“Esattamente.”
“Perché?”
“Avevo paura, so cosa vuol dire avere un fardello sul cuore, sapere di essere l’unica speranza ed essere destinato a vivere poco. Avevo paura a spiegargli che la sua vita dipendeva dalla mia morte, che non c’era altra scelta, che il nostro è un destino tanto nobile quanto tremendo. Avevo paura a spiegargli che il nostro incontro non è stato casuale, che nulla è casuale, quando vivi in bilico tra cielo e terra.”
“Ma…”
“Non dire una parola vecchio, è tardi, sono stanco ed ubriaco, domani è un altro giorno; l’ultimo giorno, ora voglio solo dormire.”
Andò dal barista e chiese una stanza per la notte, salì le scale senza voltarsi. Nessuno se ne accorse, ma su un gradino delle scale in legno cadde una lacrima.
Corsi fuori dalla locanda, corsi più che potei, saltando su tutte le corde che mi capitavano a tiro, saltavo e correvo senza mai toccare il suolo, le persone mi guardavano esterrefatte, arrivai fino alla fine dell’isola e gridai, gridai con tutta la mia forza.
Ero così vicino all’acqua che sentivo a fatica la mia voce, ma continuai imperterrito a gridare. La mia vita era legata alla sua morte: che cosa voleva dire? Perché mi aveva nascosto delle cose, qual era il mio ruolo in quel luogo folle e perché Sanar doveva morire, come avrei fatto senza il mio Maestro, senza la mia guida?
Urlai contro il fiume, corsi sulla fune da cui eravamo entrati in città. L’acqua era particolarmente agitata e a metà strada sentii di nuovo quella tremenda sensazione, ombre nere ovunque, saltai sulla corda la utilizzai come elastico, mi spinsi più in alto che potei e volteggiai più volte su me stesso, ricaddi sulla corda in equilibrio sul solo piede destro.
Il fiume si fermò, l’acqua era immobile, non c’era più nessun rumore.

La notte lasciò il posto al giorno.
“Ador!”
“Sveglia Ador!”
Stropicciai gli occhi ed ebbi l’impressione di cadere, cercai di aggrapparmi alla corda, e quando fui lì a penzoloni nel vuoto, capii che non era un’impressione, avevo dormito sulla fune.
“Forza, veloce! Vieni giù di lì!”
“Maestro… arrivo.”
“Oggi è il grande giorno, diventeremo una cosa sola. Ora però non dire una parola e seguimi.”
Entrammo in una specie di tempio in stile orientale, arredamento, colori e giochi di luce, tutto molto curato. In breve mi trovai di fronte a tanti quadri.
“Osservali, Ador, osservali bene, perché questa sera loro diventeranno tutti parte di te. Sono gli equilibristi che ci hanno preceduto, i migliori del loro tempo, ognuno di loro ha fallito la missione e da domani anch’io farò parte di questa galleria degli onori ed orrori. L’orrore è la sconfitta. Ormai l'avrai intuito: noi dobbiamo sconfiggere i pensieri malvagi, portarli fuori dalle menti delle persone è facile per chi ha il nostro talento, ma impedir loro di rientrare e molto difficile. Fino ad oggi è stato il mio compito, da domani sarà il tuo, la conoscenza di tutti i tuoi antenati e la mia ti verrà trasferita nel rituale che mi concederà la morte.”
“Maestro, io non so…”
“Smettila con questa insicurezza! Non volevi diventare un equilibrista, il migliore di tutti, ebbene eccoti l’eredità. È un compito importante Ador, spero non mi deluderai.”
“Farò del mio meglio.”
“Ne sono certo, non ho più niente da insegnarti.”
“…”
“Sei stato un buon allievo.”

Quella notte tutto si compì nei ritmi lenti del buio: le poche fiaccole rosse confusero il rosso del fuoco con quello del sangue. Lì iniziò il mio viaggio alla ricerca della salvezza.

LETTERA DI UN EQUILIBRISTA…
Usavo il mio talento nella speranza di liberare le loro menti. Il denaro mi serviva per vivere, certo, ma la mia ambizione era altra.
Volteggiavo sulle loro teste tra stupore dei bambini e sconcerto degli adulti. Il mondo aveva bisogno delle mie esibizioni, il mondo aveva bisogno di pensieri felici ed io sapevo dove trovarli.
Non è difficile, sono sempre lì, stipati nei cervelli, non scappano, ma hanno paura e si nascondono, temono i brutti pensieri.
Il segreto è catturare l’emozione negativa e concedere libertà al resto. Incredibile? No, d’incredibile c’erano solo i miei spettacoli, le mie capacità!
Cielo, com’ero abile, il migliore di tutti: guardandomi, la forza di gravità non sembrava non essere mai stata scoperta. Il “NEW TIMES” scrisse “L’uomo che nacque sulla fune”, il “BB” pubblicò un titolo a tutta pagina “Il volatile senz’ali”.
Non avevo scelta, ero nato per creare quell’atmosfera di vuoto, per concedere un quarto d’ora di libertà.
Quando ero lassù, non so spiegarlo; appena cominciavo il numero sentivo una grande forza negativa venire verso di me, ma in breve la domavo, la confondevo, ed essa restava incantata dai movimenti del mio corpo.
Si addormentava.
Il problema è sempre stata la conclusione: il risveglio, è quello che confonde. Il sogno è realtà, il resto è solo finzione.
Quando scendevo dalla cima e vedevo quelle facce – i loro sorrisi e i loro occhi – capivo. Sono quelli che tradiscono; i sorrisi sanno essere ipocriti, hanno imparato per necessità, ma gli occhi sono ingenui, ti si presentano davanti e sai già cosa vorrebbero dire.
Li osservavo smarrito, senza trovare lo sguardo giusto per scusarmi. Scappavo dietro il sipario e mi vergognavo, rannicchiato dietro il tendone piangevo, ma la mia sofferenza non placava mai quel profondo senso di insufficienza.
I pensieri, è vero, li catturavo, li portavo in alto sopra alle loro teste, ma poi tornavano ad aggredirli quando i miei piedi toccavano il suolo, o meglio quando la mia anima si macchiava della sabbia del circo.
Mi allenavo otto ore al giorno nella speranza che perfezionando il mio spettacolo potessi superare l’ostacolo temporale e presentare al pubblico l’esibizione infinita.
Era quella la mia missione.
Il talento non mi mancava, ma non basta un'abilità codificata dall’uomo e concessa dalla natur a sconfiggere qualcosa di così straordinariamente astratto e presente al contempo.
Ogni volta, anche quando pensavo di esserci riuscito, quegli occhi tradivano il mio fallimento.
Provai ad alzare la fune fino quasi a sfiorare il tendone, ma non cambiò nulla.
Dovevo fare saltare la mia anima, e per farlo dovevo liberarmi dell’involucro pesante che la custodiva con l’ingrato compito di non farla volare via.
Tutti i regali prima o poi devono essere scartati.
Quello era il mio regalo.
Quello fu il mio regalo.
Un salto memorabile, praticamente volai.
Catturai tutti quelli stupidi pensieri cattivi e li frantumai contro le stelle.
Certo, certo qualche bocca tradì sconcerto, ma si sa non c’è da fidarsi di quelle; sono gli occhi il segreto.

Mattia Pari, classe 1983, lavora in una azienda del settore credito, è laureando in Scienze Giuridiche e insegna diversi anni difesa personale.

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Due nuove poesie

di Raffaele Ibba

La gita ad Antas

A dettagli di colline appese a montagna al cielo
quasi grappoli di verdi, intensi nelle diversità dei rosa
dei rossi dei grigi dei marrone dei blu.
E c’erano i perastri, a mucchi bianchi increspati
di punti rossi e lievi capelli gialli, appena tenui,
e i ciclamini ad osare farsi orchidee
viola dello spudore di gloria ricercata.
E c’erano soprattutto le prataiole spatolate
fitte in rincorse bambine, gioconde, vestite a festa:
un’attesa partecipe della tua memoria d’amore.

E c’eri ovunque dentro a noi, tu, minatore di cuori
speleologo dei silenzi delle nostre vite
raccoglitore delle svettanti cime di erbe fiorite
delle iscrarie infestanti di bellezza partecipe
le degradate discese dalle tue cime a noi
squarciati a tritolo ed a fatica di umani
spezzati a miniera, a gallerie, a morte,
a gioia con te nei nostri corpi tuo tempio.

Ed ho visto il sole tramontare sulla mia città
ritornata in quest’ora che t’ascolto e cerco,
amico silenzioso ed accogliente coro dei vespri
del mio desiderare canti alle punte lanceolate
delle foglie d’amore disperse di rosso e bianco
a fiotti e infiorescenze nate da te
negli arenili e nei dossi di questo esistere
vivo nei fragori di fuoco disseminati
sopra questa ampie distese di acque.

 

Non ho ricordi di mio padre

Non ho ricordi di mio padre faccia al vento e al mare
era uomo di terra ed alberi
di lavori fatti su vegetali bambine
piccole, curate ad occhi, a canalette d'acqua, faticose
quando l'acqua era faticosa, a braccia e fredda
tra gli spenti freddi accesi del farsi di vita.

Ed oggi…

inseguendo gli accessori del tempo
come investigazioni a malerendere
o rovinetterie ed insaponatori a flussi di demoni,
ricercando l'obbiettivo del trepercento, prefissato
al fine predetto del capitale capitalante,
e chissà perchè i poeti non parlano più del capitale
o di Dio come emozione d'amore,
ma soltanto del – mi disturbi tesorino?
me la dai o non me la dai la tua pansé –

Sapevo l'occhio del vento
ed intendevo le necessità apofatiche del Dio-Più-Altro
che non t'insegue ma ti trova,
e ti perdona e si fa amare;
sapevo l'occhio allegro di Gesù,
quello di Nazareth di Galilea
– da cui non viene niente di buono
e tanti, o Filippo, sono d'accordo con te, ancora –
sapevo le scritte di Nietzsche sui muri
a graffitterie, raffinate da mal di testa feroci
nella domanda se ho ancora un giorno,
o un'ora un istante
avanti la demenza,
e la sua atea supplica a Dio, a cercarlo
a cercarlo
negando disperatamente e vediamo se ci sei, bastardo,

sapevo tutto
ma non l'amore
così, che prendi e dai,
come un percorso di voci
un ascolto d'istanti lontani
e scatta il telefono
e si apre
l'urlo fragile della tua parola
pronto?
pronto?

Eccomi.

Raffaele Ibba è nato nel 1950 a Cagliari, città dove vive e lavora come insegnante di storia e filosofia nei licei. Si dedica alla poesia in modo intenso dal 2000, per una sua neccessità intima di vita e di cuore. Ha pubblicato due libri di poesia con le Edizioni della Meridiana di Firenze: Il disonore dei canti nel 2003 e La verità bugiarda nel 2006.

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La poesia dal buio della coscienza

di Riccardo Burgazzi

Ogni volta che fisso il vuoto, (1)
e si ferma l’orologio,
il treno salta la mia stazione
e devo tornare indietro.
Abisso trovato ad occhi immobili,
avvolge
e fa degli altri mormorio in sottofondo.
Eco di passi nella memoria
si perde giorno per giorno
su una sedia, fissando il vuoto
tra le voci commosse dei vivi;
loro non sognano questo assurdo,
io non so spiegarlo:
entravo nel giardino quasi per gioco,
ora le rose mi affogano.
Sarà calandomi nel buio fischiando,
o per un morso nel petto:
il tempo invidia chi
trova luce nel vuoto.

Ho pensato che questa poesia potesse introdurre l’argomento “dal buio della coscienza”, in quanto elaborata in riferimento al decorso di una malattia che a esso conduce: la demenza senile. Ecco allora spiegato il perché di quell’Eco di passi nella memoria – che – si perde giorno per giorno / su una sedia, fissando il vuoto. Fissare il vuoto è un’esperienza che nella quotidianità capita a tutti, un breve stato di “dormiveglia ad occhi aperti” che può appunto far perdere, per qualche istante, la cognizione del tempo (si ferma l’orologio) o produrre distrazioni (il treno salta la mia stazione / devo tornare indietro). Questi momenti, di “abisso che avvolge”, nella vita di tutti i giorni sono controllabili (si riesce ad uscirne); la malattia, invece, fa sì che le rose di questo giardino affoghino il malcapitato.
Possiamo dunque sfruttare questa immagine per introdurre un discorso sul “fare poesia” come “un entrare, quasi per gioco, nel giardino delle rose”, perché questo calarsi nel mistero è ciò che compie il poeta in cerca di versi.
Viene allora in mente quel Porto sepolto, dove – diceva Ungaretti: … arriva il poeta / E poi torna alla luce con i suoi canti / E li disperde // Di questa poesia / Mi resta / Quel nulla / Di inesauribile segreto.

Inesauribile segreto. Che relazioni intercorrono tra “poesia“ e “buio della coscienza”?
Si dovrebbe innanzi tutto chiarire cosa s’intenda per “buio della coscienza” e cosa per “poesia” e naturalmente non sono concetti esauribili in pochi minuti, basti pensare a quel brillante Benigni che nel film La tigre e la neve ricordava: “per fare poesia una sola cosa è necessaria: tutto!”
Il legame più evidente che sussiste tra “produzione poetica” e “buio di coscienza” è, probabilmente, ciò chiamiamo “ispirazione”. Mario Barenghi, letterato contemporaneo, definisce ispirazione il “contatto privilegiato con una fonte di autorità non accessibile a tutti, ma da tutti riconosciuta. Essa può configurarsi come ispirazione divina, e allora assume i caratteri dell’invasamento, del rapimento e, quindi, dell’entusiasmo; oppure come ispirazione umana, geniale, manifestazione di uno straordinario estro, che può rasentare la follia e che comunque non è compatibile con un normale equilibrio. L’ispirazione comporta distinzione, privilegio individuale, ma contiene un elemento di passività: essere ispirato rinvia a un agente estraneo; questa estraneità va dal grado massimo della riduzione ad oracolo, dove il locutore è semplice organo della parola altrui, al minimo, in cui a esprimersi è il genio individuale, l’essenza profonda del locutore stesso”.
Ora, è il porto sepolto che, nell’eco dei suoi inesauribili segreti, suggerisce al Poeta tutto ciò di cui ha bisogno (stregandolo e sfruttando la sua penna), o è il poeta, che sedendo e mirando interminati spazi di là da una siepe opera libero producendo i suoi canti?
Se possiamo identificare l’ispirazione come la risposta alla domanda “da dove arriva la poesia?”, è legittimo chiederci anche dove essa vada, provando così a rispondere a una questione molto odierna: “è ancora possibile, oggi, la poesia?”
Ebbene, leggendo l’opera di un qualsiasi autore, bisognerebbe chiedersi, per capirla a fondo, quale idea egli abbia di “poesia”, domandarsi: “Qual è il ruolo, la funzione della poesia, secondo questo autore?”
Molti di coloro che fanno poesia non saprebbero rispondere; spesso sono i “poeti del cuore”, quelli che lasciano parlare il porto sepolto per loro, che danno voce alle emozioni che stanno vivendo (persi nel giardino). È una questione importante: molte volte si confonde la produzione in versi con uno “sfogo di sentimenti”; ebbene, se così fosse, il ruolo della poesia sarebbe estremamente relativo, quando invece essa “ha la pretesa di essere la verità delle cose”, perché – diceva Ezra Pound – “è il linguaggio carico al massimo grado di significato”.
Proviamo allora a dare una definizione di poesia e a farlo considerando il problema del tempo. Oggi, la forma letteraria di maggior successo è infatti il romanzo, la prosa (non la poesia!) ed il romanzo è per sua natura collocato nel tempo: nessun autore può farne a meno, per qualsiasi storia c’è bisogno di riferimenti temporali. Oggi, in una società dove “tutto scorre in fretta”, anche la poesia ha bisogno di riferirsi al tempo; può essere allora definita un “fermare il tempo sintetizzando parole con immagini o immagini con parole”; dove “sintetizzare parole con immagini” significa “metaforizzare” (dire “scorre sabbia nella clessidra” anziché “passa il tempo”) e “sintetizzare immagini con parole” significa “descrivere sguardi” (quindi, viceversa, dire “rosso” anziché “sangue”).

La domanda da cui siamo partiti, allora, diventa: “È ancora possibile, oggi, fermare il tempo?”
Finché ci sarà l’uomo, possiamo starne certi, sopravvivranno le arti e tra esse anche “la più discreta”, che ha il compito di dire sempre come stanno le cose. Certo, man mano che il tempo passa si ha la sensazione che la verità sia sempre più nascosta, però, se prendiamo per buono che la poesia derivi dal buio della coscienza e sia un “fermare il tempo, calandosi nel buio, per uno sguardo” allora essa potrà sempre essere trovata, anche nelle esperienze quotidiane.
Il rischio sarà saltare la stazione e dover tornare indietro.

(1) L’incantesimo della Regina, tratto da Il silenzio della Poesia, Riccardo Burgazzi, Fara Editore, Rimini, 2008.
(2) L’autorità dell’autore, Mario Luigi Barenghi, Milano, Unicoplì, 2000.

 

Riccardo Burgazzi è nato a Milano il 13/02/88, ha frequentato il liceo scientifico ed è attualmente iscritto alla facoltà di Lettere Moderne all’Università Statale di Milano. La sua prova di italiano ha gareggiato in un concorso letterario per il miglior tema di maturità 2007. La sua produzione poetica è iniziata di recente: alcune sue cose si trovano in farapoesia.blogspot.com e una sua plaquette è inserita ne Il silenzio delal poesia (Fara, 2008).

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Riflessione sul brano del Vangelo di Luca 9,37-56
la lectio divina settimanale all’Abbazia di San Miniato al Monte

di Bernardo Francesco Maria Gianni (v. anche qui)

Dopo l'esperienza del Tabor, il Signore scende dal monte con Pietro, Giovanni e Giacomo: «l giorno seguente, quando furono discesi dal monte (…) un uomo si mise a gridare: Maestro, ti prego di volgere lo sguardo a mio figlio, perché è l'unico che ho. Ecco, uno spirito lo afferra e subito egli grida (…) lasciandolo sfinito. Ho pregato i tuoi discepoli di scacciarlo ma non ci sono riusciti. Gesù rispose: O generazione incredula e perversa, fino a quando sarò con voi e vi sopporterò? (…) Gesù minacciò lo spirito immondo, risanò il fanciullo e lo consegno a suo padre (cfr Lc 9,37-42). Il Signore torna dalla luce e conosce la penombra del dolore, dell'oscurità, dove si può perdere di vista il senso di essere creature amate da Dio e solo la fede può rialzare il nostro sguardo alla ricerca di un significato, di una relazione col Signore. Gesù guarisce e richiama alla vita un figlio unico, segno dell'unica possibilità di vita per questo padre, ma questa volta al cuore dell'agire di Gesù c'è un giudizio, un confronto con i suoi discepoli che sono incapaci di guarire e di richiamare alla vita, anche se all'inizio della loro missione Gesù aveva dato loro potere e autorità su tutti i demòni e di curare le malattie (Lc 9, 1). Evidentemente i discepoli hanno fallito la loro missione e la risposta di Gesù è molto chiara e ci riguarda profondamente: O generazione incredula e perversa, fino a quando sarò con voi e vi sopporterò? (Lc 9,41). Gesù risana il fanciullo malato di epilessia, che nella cultura antica non poteva che essere frutto del demonio, e lo riconsegna al padre. Mentre tutti erano sbalorditi per tutte le cose che faceva, disse ai suoi discepoli: "Mettetevi bene in mente queste parole: Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato in mano degli uomini". Ma essi non comprendevano (…) e avevano paura a rivolgergli domande su tale argomento (cfr Lc 9,43-45).

Colpisce questa divaricazione di consegne per cui un figlio guarito ritorna al padre, e Gesù che guarisce non ottiene la riconoscenza da parte degli uomini, ma è invece oggetto di una consegna senza speranza che lo conduce alla croce. Allora, forse, comprendiamo la ragione per cui questi discepoli e noi stessi non siamo capaci di guarire, perché di fatto partecipiamo della incredulità e non sappiamo restare in compagnia di Gesù. Ma perché Gesù resta solo? Perché i discepoli non comprendono? Qual è il segreto di questi miracoli che Gesù compie? È un segreto di amore e di attenzione agli altri, è la logica per cui: Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me (cioè per l'amore) la salverà (Lc 9,24). Gesù dona sé stesso ed è questo il segreto del suo essere capace di guarire; Gesù non trattiene nulla per sé stesso e rinnova l'umanità. Siamo perciò invitati, per una sorta di analogia, a calare nel nostro cuore questa logica anche se è molto faticoso, ma la Quaresima è un cammino che si fa nel nel deserto per stare in compagnia con questo Gesù. Allora, forse, anche noi saremo capaci di fare qualche miracolo, dopo un lungo apprendistato naturalmente, altrimenti tutto resta nella logica dell'esteriorità. L'evangelista Luca ci mostra come questi discepoli non siano propensi a compiere questo cammino di apprendistato e come Gesù risponda al quesito intorno al quale discutevano: Frattanto sorse una discussione fra loro, chi di essi fosse il più grande. Allora Gesù (…) prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me (…) poiché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande. Giovanni prese la parola dicendo: "Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non è con noi tra i tuoi seguaci". Ma Gesù gli rispose: Non glielo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi. (cfr Lc 9,46-50)

È quasi impensabile che nella logica di consegna e donazione che abbiamo sottolineato sorga una discussione di "leadership", tanto per restare in tema di attualità. Gesù prendendo un fanciullo accanto a sé lo presenta come esempio di chi è piccolo e ultimo, per ricordare ai suoi discepoli che devono tornare ad essere un po' come fanciulli, perché Gesù ci ha insegnato che il paradigma del regno è proprio la dimensione di innocenza; ma Gesù potrebbe anche volerci dire che sarà accolto da coloro che in suo nome se ne fanno testimoni, foss'anche un fanciullo, il massimo segno della debolezza e fragilità. Dunque servire la parola del Signore è essere testimoni del suo amore, è sentirci convocati per adempiere a questo servizio che è il cuore della nostra esperienza di fede, che non è autosufficienza frutto della nostra cultura ma esperienza di essere amati da Dio. Per questo il Signore guarda con occhio speciale i peccatori perché in loro questa logica può affermarsi in pienezza se c'è un' apertura, una disponibilità, mentre i discepoli mostrano di rinchiudersi in loro stessi per decidere chi sarà il suo successore in una logica veramente mondana. La conferma di questo atteggiamento negativo dei discepoli è nel comportamento che hanno di fronte a un tale che scaccia i demòni nel nome di Gesù, perché glielo impediscono per il fatto di non avere una sorta di certificato di appartenenza. Sant'Agostino in una brano caro agli umanisti diceva. «Tutto ciò che è buono deriva dal buono e dunque da Dio». Gli umanisti apprezzavano questo tipo di impostazione perché consentiva loro di muoversi, con una certa libertà, anche nel grande patrimonio della tradizione classica non cristiana, in un percorso che li portava a cercare una sapienza spirituale presente anche nelle altre diverse culture: un tema attuale recuperato dal Vaticano II, cioè l'idea di uno Spirito che agisce seminando il bene qua e là.

Concludiamo, aprendo uno spiraglio sul cammino di Gesù verso Gerusalemme che è il tratto specifico del vangelo di Luca nel narrare la vicenda di Gesù diversamente dagli altri evangelisti. È l'idea della consegna al Padre; di questo viaggio verso il tempio che diventa la pietra su cui inciampa Gesù; e quella città che dovrebbe essere il tramite per entrare nella comunione di ritorno al Padre, diventa il luogo in cui avviene la consegna agli uomini: un viaggio quindi carico di significati. Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme (Lc 9,51). È importante vedere come Gesù si muova dall'immagine del piccolo gruppo di discepoli alla grande città che non lo accoglie e non riconosce la predilezione antica di Dio espressa attraverso la voce dei profeti. Entrarono in un villaggio di Samaritani (…) Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme (cfr Lc 9,52-53). I Samaritani erano in dissidio per ragioni politiche e religiose con Gerusalemme e questo cammino di Gesù conosce la non accoglienza come quando bambino è costretto a nascere fuori Gerusalemme. E vediamo ancora come i discepoli siano legati ad una logica del tutto umana: Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? Ma Gesù si voltò e li rimproverò. E si avviarono verso un altro villaggio. (cfr Lc 9,54-56)

Bernardo Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia di San Miniato al Monte (lectio.divina@libero.it)
Monaci Benedettini di Monte Oliveto
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze

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La casa di Teresa e altre poesie

di Luca Ariano

ad I.

In quella casa Teresa ha trascorso
stagioni – quando hai gli occhi spensierati,
ma le generazioni passano
e delle onde sugli scogli rimane un po' di sale
a erodere il tempo d'un tuffo.
Fiulin le conosce bene quelle case,
lui che ancora gioca con l'Enrico,
stanotte in riva all'Enza con la gola trepidante
e calzoni stirati dal vento d'una promessa
non ancora mantenuta.
L'Emilio una domenica a Milano senza partite,
nell'imponente silenzio di San Siro
tra cani scodinzolanti e stoviglie della festa,
a svuotare scatoloni come prima d'un ritorno.
L'Andrea voterà socialista – forse per tradizione:
suo padre commosso
a fischiare l'Internazionale
che nemmeno una lira avrebbe preso negli anni Ottanta.
Guido è rimasto comunista per quarant’anni
anche quando suo fratello Paolo
non è più tornato dalle valli
e il Maresciallo Tito era un altro sogno
da riporre in cantina.
Sicuramente lui c'era quando han bruciato
Giordano Bruno: ha filmato tutto
col videofonino e lo puoi scaricare su you tube
ma per le scene piccanti lo trovi su you porn.

***

ad I.

Ogni benedetta mattina all'Emilio
tocca insegnare a quei ragazzi in bomber
e stivali d'oca – figli della buona borghesia,
ancora freschi di spedizioni punitive
a schiacciar le zecche ubriachi di birra
la sera ai Navigli.
Se lo ricorda Luciano che giocava a scuola
con lui, ora tifa Lazio e l'ha riconosciuto
manganellare in una rissa.
Suo nonno era sceso in Piazza Principe
fino a Piazza De Ferrari e Tambroni
“L'abbiamo cacciato noi!”
Ora ha il sorriso d'un dolce vecchietto
di forti rughe ma con la Volante Rossa
non c'era da scherzare... “Se non era per il Partito
li sistemavamo ben bene!”
E la faccia di quel bambino sorridente in una foto
scolorita sarà il truce polso d'un dittatore
morto del suo letto in tarda età.
Teresa coi suoi occhi di febbre danza di tosse
ma dal lucernario della mansarda la nebbia
mescola le case come un brano d'opera
cantato in altre stagioni d'antiche radio.

***

ad I.

Stessa stazione un anno dopo,
sala d'aspetto a sfogliare giornali;
un operaio interinale suicida:
lascia moglie e figli.
Teresa volta un'altra pagina
prima dell'ansia d'un volo interrotto nella nebbia.
L'Enrico – che la sua storia pare uscita
da un film d'Almodovar... da una canzone
di sorcini – vorrebbe una zingarata d'altri tempi,
tra campi come quando le risaie si riempivano;
non rimane che l'Emilio con la sua spoglia casa
tra lo scalo merci e il silenzio dei marmi.
Stasera guarderà una tribuna politica
prima di due passi in Duomo per i cent'anni
della sua Beneamata.
Fiulin si ricorda la pioggia a Senigallia,
con tua nonna già vittima dell'osteoporosi
e quel cancro che soffiava da Casale
non troppo lontano.
C'era un sole d'autunno a Barceloneta
tra mura sfarinate di vecchi pescatori:
non è roba da turisti, tapas in quel bar
dove ancora ritrovi le facce di quartiere
incartapecorite dal sale e dai gas

***

I cavalieri d'Annibale
- si dice presso il Ticino, sconfissero
i fanti di Scipione in fuga sul Trebbia.
I cercatori d'oro – dai tempi di Plinio –
setacciano il fiume e ora non rimane
che pescare metalli pesanti
mentre la Tavola Periodica sgorga dal rubinetto.
Teodosio non ci credeva poi molto in quel Dio,
preferiva Apollo e Marte,
ma il potere delle religioni vale più di mille eserciti.
L'Emilio ripassa la sua storia
e quando Claretta sul divano si struscia,
manda giù il suo boccone amaro e gli anni all'Università.
Il professor Piero non capì mai
l'azione di Via Rasella e il figlio Franco,
comunista dell'ultima ora,
forse ci sperava davvero nella Rivoluzione.
Nell'antica provincia romana c'è odore
di raffineria, di petroliere nel porto
che tanti sghei hanno portato:
guai a parlarne ma quei sorrisi non diventeranno
mai padri e la chemio per quel cancro al polmone
ha il sapore nero del vento che s'alza di notte.

 

Piccola dichiarazione di intenti poetici

Ho iniziato a scrivere poesie molto giovane, tra i quattordici e i quindici anni. Francamente non ho poi fatto troppa teoria sul mio scrivere pur naturalmente avendo una mia visione etica e poetica. Mi spiego meglio; per me è fondamentale in poesia scrivere quello che sento cercando di dosare bene l’ispirazione ed un certo uso del linguaggio. Se badassi solo al linguaggio sarebbe un puro gioco formale, in caso contrario pensieri in libertà. Mi va di raccontare storie e se mi fossi fatto troppe domande anche sulla virgole forse non avrei scritto nessuna poesia. Le medito naturalmente molto prima di scriverle e le ritocco, magari negli anni. Leggo molto ma non riesco ad inventarmi uno stile per seguire mode o scuole. Ho dei maestri e il sogno è sempre quello di raggiungere la loro profondità, la loro “universalità” ma io penso che sia un falso mito romantico quello del nascere poeta al di fuori di tutto. Ci sono persone che nascono con una certa predisposizione ed una certa sensibilità che va coltivata anche tramite letture.
Io continuo a pensare e a ribadire che se davvero si ama la poesia non si può fare a meno di leggerla, rileggerla, di cercare e scoprire nuovi autori, di confrontarsi con altri poeti accettando consigli che a volte possono ferire quando si è troppo orgogliosi o narcisisti ma col senno di poi ci saranno molto utili per migliorare, crescere e maturare.

Nato a Mortara (PV), Luca Ariano vive ora a Parma. Ha pubblicato la raccolta di poesie Bagliori crepuscolari nel buio nel 1999. Numorose sue poesie sono apparse su riviste, blog e siti letterari su internet. Collabora con le riviste «Il foglio clandestino» e «Tabard».
Nel 2005 è uscita una sua plaquette ne La coda della galassia e la sua seconda edizione di poesie Bitume d'intorno, con la prefazione di Gian Ruggero Manzoni, per le Edizioni del Bradipo di Lugo di Romagna.

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Racconti con micropoesie

di Marco Zavarini

In questa ragnatela
di silenzi
rompo una maglia
scrivo una storia
sincera – il valore
che da solo conosco

Chiedo un appunto
per svelare un incanto
o rimettere al vento
una nuova illusione

 

La zucca

C’era, in casa, una grande zucca, che nessuno osava tagliare. L’avevano lasciata in un angolo, al buio, ci passavano vicino spesso, i loro pensieri e i loro percorsi obbligati da una stanza all’altra la sfioravano appena. Si scambiavano parole di reciproca comprensione: è così dura…
E l’avrebbero lasciata marcire, per buttarla finalmente, con sollievo, e finalmente le loro mani non avrebbero più tremato di fronte al dovere di impugnare i coltelli.
“L’hai tagliata tu? ci sei riuscito… era…”
Bastava un gesto sicuro, lo sapete già cosa farne, della polpa, o forse no?

Parafrasando Goya

Se il sonno della ragione genera mostri, il sonno dell'anima genera demoni

I tageti

Nel giardino c’era sempre stata solo erba, con pochi fiori portati dal vento, piante, e le foglie secche cadevano spontaneamente come erano nate.
Non avevo mai pensato di seminare fiori, pensavo che il mistero della loro nascita appartenesse solo alla natura.
Poi ho interrato, prima in una terra accogliente, bagnandoli sempre, senza sapere cosa sarebbe successo, poi nel giardino, dei semi, dei tageti.
I semi si sono rotti, e quegli steli delicati sono diventati l’appoggio per tantissimi fiori, che hanno circondato tutto il giardino
Anche dopo essere appassiti, quei fiori hanno lasciato cadere a terra i loro semi, e ogni primavera e autunno i tageti tornano a spuntare, spontaneamente, ormai riconsegnati alla natura.
Avevo sempre creduto che nella vita crescesse molto meno di quello che si semina, ma se i semi che germogliano non sono tutti, ci sono i loro figli, anche se noi non li conosciamo più per nome.


Givatam

Dono e conservo

Tradire
Sposa il morire


Chi cerca trova

Oggi questo proverbio mi risuona nella testa come una regola, un programma a cui attenersi metodicamente, che si è impresso in anni di ripetizioni ad alta voce. E vorrei scrivere qualcosa, ne sento la necessità.
Così mi reco dal fiorista più vicino, in cerca di ispirazione, me lo impongo, osservando i fiori più belli che espone. Orchidee di tutte le specie, rose, fiori tropicali… ma… niente, nessuna folgorazione.
Come accade per l’amore: quando lo cerchi non arriva.
Tornando a casa senza risultati, smetto di pensare alla mia ricerca e, di getto, mi viene un’idea!
Era dentro di me, e non era uscita perché mi fissavo su quella voce proverbiale.
Tutti possediamo la capacità di amare, e anche l’ispirazione, che forse sono poi due facce della stessa cosa.
Basta stare attenti. Mi vengono in mente le parole di Seneca: “La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l'occasione”.
Ecco, chi ascolta trova.

Anima, non mente
canta parole

Rifiata nei silenzi

Una nube sull’emisfero destro
Era tanto che non ci sentivamo, finalmente dietro l’angolo sbuchi col tuo passo e il tuo sguardo che non sono mai muti, e l’emozione di quel momento, nel rivederci attende, insicura, le nostre umane conferme verbali.
“Come stai? Cosa hai fatto… mi racconti…”
E questi discorsi piano piano sbrigano le pratiche del lavoro della mente, riempiono le distanze dei fatti trascorsi.
Nello spazio di un respiro e di un sorriso, ascolto tutte le parole che non ci siamo detti.
E il tuo corpo si carica, del colore della tua anima.


Quanti anni hai?

Ne son passati…
ma come posso contare
i giorni vissuti
e quelli saltati


Maya

Nella stanza, lunga e stretta, ci sono veli alle pareti e due porte contrapposte. Una è ricoperta di materiale plastico, blindata, la seconda è di legno di frassino e non ha maniglia.
La stanza è abbastanza confortevole ed ordinata, ma ci sono delle crepe nei muri vicino alle porte, dalle quali, se ci si avvicina, si possono intravedere molte persone al di là di quella blindata: forse c’è un ritrovo, o una festa… alcuni schiamazzi sono soffocati ma striduli, e a ben accostarsi alla parete, vibra l’eco di un suono di battiti scanditi, gravi.
Dall’altra parte, un buio che ti sgrana gli occhi. Non ci sono rumori. Si può solo scorgere, grazie al riflesso generato dalla luce di un unico raggio, che proviene da una fessura in lontananza, un gocciolare, ma è assente il rumore dell’impatto delle stille con una superficie.

Lei si trovava già da tempo in quella stanza, ma non sapeva perché. In realtà non se l’era nemmeno chiesto, ma l’ascolto delle voci al di là della fessura le fa affiorare la domanda.
“In ogni caso” – si dice – “qui non sembrerebbe esserci molto”, quindi, seguendo il richiamo delle voci, decide di provare ad aprire la porta blindata. Con la mano un po’ indecisa preme sulla maniglia ma, anche spingendo con forza non ci riesce: è chiusa a chiave.
Allora pensa di bussare. Dopo alcuni tentativi, una voce: “Desidera?”

Triade

Tre lati
intenti
Ritiri

Marco Zavarini lavora come project manager nel settore della business intelligence. Prima di approdare alla poesia è stato songwriter e cantante di alcuni gruppi rock. Ha da poco pubblicato con Fara la sua prima raccolta, L’analisi di infinite conseguenze.

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La morte, nuovo inizio?
Riflessioni dopo l’incontro con Vittorino Andreoli

di Franco Casadei

“Questo ardente desiderio del vero, del reale, del non apparente, del certo, come lo odio” (Nietzsche). “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. // Scenderemo nel gorgo muti” (Cesare Pavese). La posizione nichilista dei due autori esprime il rifiuto violento verso la verità e la bellezza del reale da un lato, e dall’altro la struggente malinconia per l’esito dell’avventura umana che si conclude nel nulla della tomba.
Fin da bambino ho vissuto con angoscia non primariamente il problema del dolore e della morte, ma l’incertezza del dopo, il dubbio del nulla. Ho sempre pensato che fosse preferibile l’inferno che scomparire. È una violenza disumana la prospettiva che tutto finisca nel vuoto, che non ci sia un destino. Dal momento che anche il nichilista non può sopportare che la morte senza senso sia l’ultima parola – se finiamo nel nulla allora anche la vita è niente e l’uomo è solo l’ombra di un sogno fuggente – ha sposato negli ultimi secoli la posizione illuminista di chi esalta le strabilianti possibilità di prolungamento della vita attraverso la scienza a servizio della medicina. Prevale la convinzione che, prolungando indefinitivamente questa vita, si giungerà a vincere la morte. Sarà solo questione di tempo! La scienza biologica ci dice invece che l’uomo è “geneticamente programmato a termine” (Angelo Scola) e che pertanto dovremo fare i conti con questo appuntamento e con il dramma che inevitabilmente implica.
Ripensando a quanto detto dal prof. Andreoli, torna alla mente la vicenda grottesca narrata da Robert Musil ne L'uomo senza qualità. Al marito che piange la morte improvvisa e inaspettata della moglie, e gemendo si chiede ad alta voce: “Perché sei morta?”, lo scienziato (o meglio lo scientista di turno) risponde meravigliato in un modo che è assieme scientificamente esatto ed umanamente assurdo. “Caro Signore, ecco la risposta alla sua domanda: sua moglie è morta per arresto del cuore...”. Ad una domanda sul dolore e sulla fine della vita ci si limita alla risposta scientifica (!), razionalistica. Non si vuole riconoscere che la conoscenza del reale, per rispetto della ragione, deve sondare un mistero più grande della ragione stessa.
C’è, grazie a Dio, un’altra posizione che – come diceva Andreoli – si tenta comunque di censurare; la posizione che ha la sua radice nel senso religioso, dimensione strutturale a ogni coscienza e popolo. La morte vista come nuovo inizio, come riconoscimento della fragilità umana al suo apice che ha necessità di qualcuno che ci venga incontro, E chi se non un dio? E chi se non Dio? Ma come riconoscerlo? In un incontro. In un fatto. Avvenuto e trasmesso fino a noi: “E si fece obbediente, fino alla morte”. Ha avuto compassione del nostro nulla e si è fatto uno di noi e come noi ha voluto passare la cruna dell’ago della morte per testimoniarci che non ha essa l’ultima parola sull’uomo. “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?" (1Cor 15,55).
La riflessione sulla morte – al di là del dramma e della tristezza che implica – si rivela benefica perché relativizza tante realtà secondarie che abbiamo purtroppo assolutizzato (Giovanni Paolo II ). Conforta la preghiera del poeta R.M. Rilke: “Dà, o Signore, a ciascuno la sua morte. La morte che fiorì da quella vita, che in ciascuno amò, pensò, sofferse”.

Cesena 4 marzo 2008



Franco Casadei (Bertinoro di Forlì-Cesena, 1946), otorinolaringoiatra, vive e lavora a Cesena. Dall’età del liceo compositore di zirudèle e filastrocche in vernacolo romagnolo, solo dal 2000 scrive liriche in lingua italiana. Impegnato in ambito sociale e civile, già responsabile dell’Associazione “Medicina e Persona” di Cesena, attualmente coordina il gruppo “Amici AVSI” di Cesena che opera a sostegno dei progetti dell’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale, presente nei paesi più poveri del mondo. Sue poesie sono presenti in Poeti romagnoli d’oggi e Giovanni Pascoli, 2005 e Poeti romagnoli d’oggi e Charles Baudelaire, 2007, antologie a cura di Franco Pollini, ed. Ponte Vecchio, Cesena. Ha vinto diversi premi (tra cui il Carlo Levi e l’Ungaretti) e pubblicato I giorni ruvidi vetri (Il Ponte Vecchio, Cesena, 2003) e Se non si muore (Ibiscos, Empoli, 2008).

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