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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 94
Ottobre 2007

Editoriale: Ombre e radici, normalità e follia…

… di questo ci parla nel suo vivido racconto Subhaga Gaetano Failla e proseguiamo con un racconto empatico sulle apparenze vs le presenze di peso di Marco Bottoni, proseguiamo con i begli echi poetici di Enrica Musio e la caustica ironia di Giovanni Tuzet. Abbiamo poi l'avvincente racconto di Vesna Andrejevic che ci ricorda che “l’inizio di ogni viaggio sta nella nostra ignoranza” e infine la sempre illuminante lectio lucana di padre Bernardo M. Gianni. Buona lettura!

Lo zio Pino

di Subhaga Gaetano Failla

Ricordi? Si parlava di ombre famigliari, nostre o altrui, che gravano nelle relazioni all’interno delle famiglie, che limitano le nostre vite, se tali ombre non appaiono alla luce, se esse non spariscono sotto i piedi, sotto il sole a perpendicolo, allo zenit, divenendo allora vivificanti radici. Parlammo anche della formazione piuttosto recente di numerosi psicoterapeuti, che conducono oggi gruppi di clienti durante sessioni denominate “Costellazioni familiari”, e d’una mia partecipazione ad uno di questi gruppi, alcuni anni fa, durante un soggiorno nella comunità di Miasto.
Mi chiesero di interpretare il ruolo di “figurante”, essendo il numero di tali partecipanti insufficiente. Dovevo rappresentare cioè un figlio, un padre, un amante, una “figura” significativa all’interno di dinamiche familiari cristallizzate in grovigli irrisolti. Perfino da morti, la presenza di questi personaggi, i loro fantasmi, volteggiano cupi nel mantenere ben stretti dei nodi relazionali soffocanti, anzi, tale potenza può accrescersi proprio perché nascosta, non riconosciuta, corrompendo l’anima d’una famiglia e portando non di rado i suoi membri verso la condizione di malattia.
Questo in teoria, ma quando mi trovai a muovermi come un fantoccio, sotto le direttive del terapeuta, all’interno d’un cerchio di uomini e donne seduti a terra, con accanto a me, a breve distanza, persone che giocavano le parti di altre figure, dapprima pensai alla futilità e all’elemento grottesco di quei gruppi. Qualche minuto dopo pensai anche con disprezzo: “Devono essere davvero ricche queste persone se trovano il modo di buttare via così i loro soldi…”
Poi, però, con sorpresa, mi accorsi che qualcosa stava accadendo.

Le nostre conversazioni di Nantes, a svuotare golosi al mattino il ricco buffet dell’albergo, nel timore scanzonato di violare il bon ton e la pazienza delle cameriere sorridenti, e poi, a parlare felicemente spersi nei nostri passi dopo il vino, di notte, nelle strade d’un tratto chiassose di giovani intenti nei cauti bagordi estivi attorno ad altri tavoli all’aperto, e nelle nostre passeggiate alla luce cangiante del giorno, tra nuvole pioggia sole, sorpresi dal volto antico d’una chiesa che spunta allo sbocco di strade anonime o dall’improvviso apparire d’una vastissima piazza futurista, deserta, e a spasso ancora accanto alle acque placide della Loira, che sembra accompagnare, assorta, il nostro assorto cammino.
Io ti parlai poi d’un mio zio, dello zio pazzo, per quel che il ricordo mi donava. Non mi interessano ulteriori ricerche sui fatti, sulla verità di questa storia. Ti racconterò delle storie ascoltate, e vissute, non solo attraverso l’ascolto; d’una memoria che esiste, della sua verità nella mia vita odierna, di quel che adesso trovo nel ricordo.
Come al solito, mi faranno compagnia a tratti, durante il racconto, alcuni libri. Essi giungeranno, assieme ai miei giorni, per alleviare forse la solitudine del narratore.
Ci siamo. Inizio.

Si parlava raramente di questo mio zio – a tavola in genere, a pranzo, con mio padre al posto d’onore, mia madre, con un occhio ai fornelli, noi quattro figli chiassosi e spesso anche una mia vecchia zia, simpaticissima – e ogni volta che il suo nome giungeva nei discorsi dei miei genitori, le voci si abbassavano, circospette, a temere quasi l’ascolto d’orecchi estranei affondati nei muri della cucina. Questo mio zio, lo zio matto, lo chiamerò zio Pino, non solo per proteggerne – in un gesto forse del tutto inutile – la memoria, ma anche perché, sembra strano, adesso non ricordo più il suo nome. Gli psicologi avrebbero probabilmente qualcosa da dire su tale dimenticanza, ma a parlarne rischieremmo la noia.
Si bisbigliava, in racconti pieni di reticenze, frammentari, che lo zio Pino era impazzito durante il servizio militare, forse negli anni Quaranta o verso la fine degli anni Trenta. Sembra che a far scoccare la scintilla del suo grave malessere siano stati alcuni lavori di caserma umilianti, in cui egli venne relegato e sottoposto alla derisione degli altri soldati. Quei lavori, quei soprusi, avevano amplificato in zio Pino una dissonanza di status; proveniva egli da una formazione scolastica molto elevata per quel tempo e per un meridionale: forse era laureato o laureando in medicina. Da allora una grande sofferenza, una sorta di profonda tristezza, in mancanza d’un efficace aiuto, lo avvolsero strettamente, soffocandolo pian piano e guidando i suoi inconsapevoli simili, il suo prossimo, a rinchiuderlo in uno dei famigerati manicomi del Sud Italia.

Sollevare delle questioni sulla normalità e sull’anormalità non significa affatto (…) negare l’esistenza dell’angoscia personale che spesso è associata alla “malattia mentale”. L’ansia e la depressione esistono. La sofferenza psicologica esiste. Ma la normalità e l’anormalità, la salute e l’infermità mentale, e le diagnosi che ne derivano, potrebbero essere meno reali di quanti molti di noi credono. (D.L. Rosenhan, “Sani in manicomio», in L’altra pazzia, a cura di L. Forti)

Io non avevo mai incontrato lo zio Pino, fino alla mia età adolescenziale. Devo sottolineare, tuttavia, che di lui in famiglia non si parlò mai in termini dispregiativi o in alcun modo offensivi: il ricordo che mi giunge adesso di quelle frasi sommesse ha il tono del dramma incombente e d’una malattia dalle possibilità contagiose, se di quella malattia se ne fosse parlato a voce alta.
Le notizie sulla vita quotidiana di zio Pino, successive alla sua crisi, erano pressoché nulle, come se la sua esistenza fosse finita nel momento stesso della sua catastrofe esistenziale, ed egli vivesse adesso una esistenza postuma. Era stato risucchiato dal manicomio e lì la sua vita spariva. I suoi “fuochi d’artificio” linguistici divenivano per gli psichiatri e per molti altri soltanto incomprensibili e inutili deliri.

CARLO Non può rispondere.
CAPA D’ANGELO È muto?
CARLO No. La storia è un po’ lunga. Non parla perché non vuol parlare. Ci ha rinunziato. Eh, sono tanti anni. Dice che parlare è inutile. Che siccome l’umanità è sorda, lui può essere muto. Allora, non volendo esprimere i suoi pensieri con la parola… perché poi, tra le altre cose, è pure analfabeta… sfoga i sentimenti dell’animo suo con le “granate”, le “botte” e le girandole. Perciò a Napoli lo chiamano Sparavierze. Perché i suoi spari non sono spari: sono versi. È uno stravagante.
CAPA D’ANGELO Parla sparando, e voi lo capite?
CARLO Io no, mio fratello sì. Mio fratello capisce tutto quello che dice. Io capisco poche cose.
(E. De Filippo, Le voci di dentro)

Ma un giorno i sussurri su zio Pino si fecero più frequenti, e venni a sapere che egli era stato trasferito in un manicomio vicino alla nostra città. Mio padre pensò di andare a fargli visita, e comunicò la sua intenzione a mia madre. Io osservavo in disparte quel confabulare, non chiesi mai alcuna informazione al riguardo. Avevo forse quindici anni.
Tornarono i miei genitori con aria seria da una di quelle rarissime visite. L’impressione fu per loro talmente intensa che non nascosero alla famiglia alcuni particolari dell’incontro con mio zio.
Prima di ricevere il permesso d’entrare in manicomio, i miei genitori avevano atteso un po’ all’ingresso, e forse tale attesa si era protratta, in quel momento, inspiegabilmente. Poi furono ammessi in una stanza dove trovarono zio Pino. Il luogo era stato ripulito così in fretta che il fetore ancora perdurava. Mio zio aveva un braccio rotto, ingessato. Il personale del manicomio disse ai miei genitori che una caduta aveva procurato la frattura. Sembra che negli spazi delle istituzioni totali ci sia una diffusione davvero incredibile di incidenti di questo tipo… Mio padre non riuscì a nascondere il suo dispiacere, e il suo sdegno e disgusto. Da quel che compresi, lo zio Pino non aveva dato alcun chiarimento su quei fatti. Forse da tempo, come il personaggio di Baratto nel brano che segue, egli non era più “interessato alla partita”, o da quella partita era terrorizzato.

Racconterò la storia di come Baratto, tornando a casa una sera, sia rimasto senza pensieri, e poi le conseguenze del suo vivere da muto per un lungo periodo.
Verso la fine di una domenica Baratto sta giocando una partita di rugby con la sua squadra. Nel primo tempo compie un paio di azioni in contropiede ed entrambe le volte si ferma a tre quarti scuotendo la testa. Gli attaccanti della sua squadra non sono scattati in tempo per prendere i suoi lanci, ed entrambe le volte la palla è andata perduta. Gli sembra che la partita non lo riguardi, lo dice ad un giocatore con un orzaiolo sotto l’occhio che gioca in difesa con lui.
(G.Celati, “Baratto”, in Quattro novelle sulle apparenze)

Non avevo mai visto mio zio, tuttavia, solo adesso, proprio in questi attimi, davanti allo schermo del mio computer, mi giunge dal pulviscolo della memoria una foto mostrata dai miei genitori a tutti noi della famiglia.
“Guardate, guardate com’era bello!” diceva mia madre. “Ah, quanta sfortuna ha avuto…”
E nella foto c’era un giovane d’una raffinata eleganza, sorridente, con accanto forse alcuni suoi compagni di studio. Il luogo probabilmente era Napoli, sede universitaria di molti studenti del Sud.
Avevo più volte immaginato lo zio Pino nel suo successivo stato disgraziato, prima di vederlo in carne ed ossa, come poi avvenne. In tali occasioni, non giungeva alla mia mente nessun timore d’una follia violenta, nessuna immagine che incutesse in me la paura della cattiveria. Si parlava di lui come d’una persona mite e riservata, e proprio questa sua delicatezza, secondo le parole smozzicate dei miei genitori, gli aveva impedito una giusta reazione alle angherie subite in caserma, al tempo della sua crisi. Tuttavia, pensando a mio zio, non riuscivo a distogliere una sensazione di vaga inquietudine, attraverso quei sussurri che evocavano lontane e subdole possibilità di “contagio”: il caos poteva diffondersi verso tutti coloro che erano vicini a mio zio. La follia poteva colpire anche me.

- Lo “schizofrenico” è diventato un po’ come un eroe per la cultura underground, come l’outsider degli anni Cinquanta. Ha qualcosa da dire a questo proposito?
- Io non lo considero un eroe, penso che queste persone siano vittime, non martiri. Sono vittime, come altri nella nostra società, in relazione alla pratica psichiatrica istituzionale. (…) Inoltre sono vittime di questo tipo di idealizzazioni che, a suo modo, è altrettanto distruttiva, invalidante e mistificante della psichiatria istituzionale. […]
- Lei usa la parola schizofrenico. Ha per lei un qualche significato o validità?
- Uso questo termine tra virgolette, “diagnosticato schizofrenico”. Deve averlo sempre in mente. Questo termine ha per me validità scientifica solo come etichetta sociale, non ha alcuna validità dimostrata come etichetta clinica.
(Intervista con Aaron Esterson, a cura di A. Rossabi, in L’altra pazzia, a cura di L. Forti)

E venne il giorno in cui anch’io incontrai lo zio Pino. La notizia d’una sua visita a casa nostra si diffuse con rapidità; questa volta i bisbigli erano pronunciati a voce più alta.
“Mi raccomando, siate educati con vostro zio,” ripeteva a noi figli mia madre.
Mi sembrava che straordinari preparativi segreti d’accoglienza si svolgessero in casa, in attesa di zio Pino. Forse era un pomeriggio di fine inverno. Io aspettavo. Ero allora un timido adolescente, spaventato dalla vita. Ricordo il corridoio in penombra. Qualcuno si avviò verso la porta d’ingresso.
A metà corridoio incontrai zio Pino, accompagnato con molta cortesia da mio padre, il quale mi presentò a lui. Non avevo mai visto una persona così gentile e raffinata. Zio Pino forse aveva quasi sessant’anni, era abbastanza alto, e indossava un completo grigio, classico, elegante, portato con grande disinvoltura. Mi salutò con un bel sorriso e con una carezza sul capo. Per la prima volta nella mia vita mi sentii trattato come un principe. Dire che rimasi molto sorpreso non esprime nemmeno lontanamente il mio stato d’animo. Non rimasi a bocca aperta, ma quella sensazione indicibile si spalancò nel mio animo e rimase lì, protetta, ed ancora adesso ne sento la bellezza, la sua purezza. Zio Pino entrò poi con i miei genitori in cucina. Socchiusero la porta e non riuscii a sentire quel che si dissero. Si fermò a casa poco tempo, poi uscì e non lo vidi mai più.
Qualche anno dopo giunse la notizia della sua morte; anche quell’evento, accaduto in manicomio, fu ricostruito approssimativamente attraverso dettagli imprecisi. Si parlò d’infarto, si vociferò d’un fisico fin troppo provato, si pensò all’ovvio atto conclusivo d’una condizione disumana durata diversi decenni.
I funerali si svolsero in un luogo distante. Io non vi partecipai.
Ad un certo punto, a volte, per i motivi più disparati, alcune esistenze diventano inanimate, senza anima appunto, trasformandosi esse in maschere di cartapesta, con un’unica immobile espressione. Forse ciò, pur in uno stato estremo di costrizione e sofferenza, non capitò a mio zio. Forse la sua anima rimase in vita fino alla fine, e chissà ora essa dov’è, se davvero esiste, leggera come un sorriso.

“Provi a mettermi le mani addosso e le faccio vedere” disse Fantozzi con un fil di voce, e quello gli strappò tutta la parte anteriore della giacca e la buttò a terra, poi con sadica lentezza gli strappò la camicia in quattro pezzi, gli sputò in faccia, gli diede un calcio tremendo all’osso sacro e gli urlò dietro, mentre lui si allontanava: “Vai, fila prima che ti ammazzi di botte!”. Lui riprese la passeggiata con la signorina, continuando con un leggero tremito nella voce il discorso interrotto, senza commentare l’episodio.
(P. Villaggio, “Fantozzi va a passeggio con la signorina Silvani”, in Fantozzi)

L’estate è alla fine, il cielo è carico di nuvole scure, alcuni forti temporali hanno lavato le strade impolverate e la mia macchina. Il sole illumina per minor tempo questa parte di Terra. La grande carpa che aveva allietato i nostri giorni di mezza estate, nel piccolo lago, è stata uccisa dai pescatori, qualcuno ha visto i prati della riva colorati dal suo sangue. Il ciclo di nascita e morte, di trasformazione, prosegue inalterato, nonostante le profonde corruzioni operate nell’organismo del pianeta. E questo ciclo si presenta ancora a noi con sorprendente eleganza.

L’ultima rivelazione. Per questo per tanti secoli si faceva la maschera funebre del volto, per cercare di cogliere quell’essenza. Non appena una persona moriva, veniva fatta una maschera funebre, per catturare quell’immagine che la persona stava liberando nell’istante della morte.
(J. Hillman, Il piacere di pensare. Conversazione con Silvia Ronchey)

(Toscana, 24 agosto 2007)

Subhaga Gaetano Failla è nato a Scalea in Calabria nel 1955. Laureato in Sociologia a Urbino, ha pubblicato con altri un volume di carattere sociologico. Negli anni Settanta ha collaborato con la rivista «Carcere informazione». Suoi racconti e poesie sono apparsi sulle riviste: «Fernandel», «Il babau», «Re Nudo», «Calamo», «Orizzonti», «Il foglio letterario»; e su riviste e siti on-line italiani ed esteri (Il babau, alcuni anni prima rivista cartacea, L(’)abile traccia, un sito francese e uno thailandese); una poesia è stata pubblicata dal «Messaggero», un racconto è stato trasmesso da RAI Radio 3. Con Aletti ha pubblicato le raccolte di racconti Logorare i sandali (2002, vincitore del concorso Alla ricerca dell’autore), Il coltello e il pane (2003) e un racconto nell’antologia I porti sepolti vol. 3 (2002). È presente nelle antologie di Giulio Perrone Editore Racconti sotto l’ombrellone e Vite sportive, entrambe del 2007. Il lungo racconto “Il seminario di Vinastra” è stato pubblicato, quale vincitore del concorso Pubblica con noi nel volume 3x2 (Fara, 2006). Con Fara ha pubblicato anche La signora Irma e le nuvole (2007). Suoi haiku sono presenti nelle antologie in lingua inglese Zen poems (Londra 2002) e Haiku for lovers (Londra 2003). Queste antologie sono state tradotte in francese e tedesco. Suoi testi sono apparsi sulla rivista londinese «Hazy Moon». In «Orizzonti» ha pubblicato, fra l'altro, le interviste a Rigoni Stern, Alda Merini (in collaborazione con M. Mangani), Giuseppe Bonaviri (con V. Failla), Roberto Amato, poeta premio Viareggio 2003, Suad Amiry, scrittrice palestinese. Ha fatto parte di gruppi teatrali e partecipato a numerosi reading e iniziative letterarie. Svolge la professione di insegnante. Vive a Massa Marittima (GR).

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I Gravi

di Marco Bottoni

Ci sono persone che attraversano il tempo della loro vita con passo lieve.
Leggeri e sottili, scivolano in superficie con grazia apparente, si potrebbe dire con eleganza, e così facendo evitano gli ostacoli, sorvolano le difficoltà, galleggiano sulle situazioni più spinose e dure senza affrontarne i nodi, senza sentirne il peso.
Ad alcuni di questi accade, a volte, di volare in alto, o almeno così appare agli occhi del Mondo, e ciò gli basta, perché è nell’apparire che investono le loro energie, come se l’apparenza fosse un valore.
Se hanno un corpo ben fatto diventano Velini o Veline, se sono astuti e voraci primeggiano nella finanza, negli affari; se sono sufficientemente ambiziosi e privi di scrupoli, nonché tendenzialmente ipocriti, salgono i gradini della carriera politica su su fino ai più alti livelli del Potere.
Anche se non brillano, sono comunque sempre in vista perché stanno tanto più in alto quanto più sono leggeri, e se gli accade di essere del tutto vuoti, tanto meglio.
Ci sono poi Esseri (pochi e rari, a dire il vero) che non sono affatto leggeri.
Sono un numero esiguo, ma quando ci sono, sono certamente Uomini e Donne, e vivono la loro Vita piegando il Mondo, il Tempo e i fatti della quotidianità del loro peso.
Con il loro stesso esistere, e per quanto è pesante il loro corredo di Valori, deformano la Realtà che li circonda, modificano i fatti, orientano i comportamenti e, soprattutto, l’Essere delle altre persone.
Le influenzano, le modificano, le determinano.
Le fanno diventare, le plasmano.
Questi Uomini e Donne così particolari e rari, che vivono una vita a volte oscura, comunque sempre poco appariscente, sono i Gravi.
La loro Essenza, ciò che fa di loro il “sasso grosso” difficile da smuovere, è un impasto di Valori che riempie la quasi totalità del loro Essere, e che li rende solidi e forti, integri, fermi.
Coraggio e Onestà, Verità e Onore, Sapienza e Volontà.
Modestia, che è sapere esercitare il modus, cioè la giusta misura.
Autorevolezza, che è scegliere, nei rapporti con gli atri, la via dell’ augeo – auctor sum, io faccio crescere.
Critica e Coerenza, che è continuo dubitare e continuo perseguire.
Bontà, che vuol dire godere nel vedere gli altri stare bene.
Giustizia, che è avere una Legge Morale dentro di sé, e applicarla.
Fedeltà, che è rispondere sempre e comunque alle domande della Vita con tre semplici parole: “io ci sono”.
E Amore, che se uno deve farselo spiegare, non saprà mai cos’è.
Quando ci sono, per tutti i mesi e gli anni che stanno insieme a noi, può accadere che passino quasi inosservati, e che noi non riusciamo a valutarne bene le dimensioni, tanta è la parte di loro che sta al di sotto della linea d’orizzonte, dove vanno a cadere gli sguardi superficiali: ciò che appare, del loro essere, è a volte molto meno della famosa punta dell’iceberg.
Ma quando vengono a mancare, ci troviamo a fare i conti con l’enormità del vuoto che, della loro assenza, rimane.
All’improvviso, non ci sono più, e la mancanza della loro “gravità” ci fa sentire persi e spaesati, quasi incapaci di mantenerci in piedi, come astronauti impacciati e traballanti, privati della Forza in virtù della quale ci siamo sempre mantenuti in equilibrio.
Al di là del dolore della perdita, è questo vuoto, di loro, che ci sconvolge e ci dispera, e lo spazio che fino a ieri, col loro Essere, avevano occupato, diventa ora una voragine immensa, dentro la quale si ha paura di cadere.
Ed è così per ognuno di loro, indipendentemente da quanti e quali siano stati i giorni delle loro Esistenze, perché costoro sono fatti della stessa Essenza, e conosciutone uno, li sai praticamente tutti, si chiamino Pietro o Nino, Antonio o Giorgio, o Enrico, o Giovanni.
O Giovanna.
Così è.
Cioè, Amen.
E noi?
Noi qui, sassi ancora troppo piccoli, noi che restiamo, tristi e perduti, a guardare disperatamente il vuoto, “noi ritardatari” come dice Montale, che ne sarà di noi? Ci sono persone che, attraversato il tempo della loro vita con leggerezza estrema, compiuti che siano i loro giorni, volano via sottili, leggeri come sono sempre stati, e non esistono più.
A chi gli è stato vicino, ed ha buona memoria, di loro rimane, per un po’ di tempo, un sentore vago e indefinito, come il ricordo che si ha di un profumo.
Ma essi, non ci sono più.
Spariti, perduti, morti.
Ci sono Persone, invece, che non se ne vanno mai.
Quando si compie e si esaurisce il tempo del loro esser stati carne e pelle e cuore e muscoli e cervello, continuano ad esistere, anche nella loro assenza.
Soprattutto nella loro assenza.
Sono i Gravi, che hanno lasciato un’impronta, che hanno deformato la Realtà del loro peso, che hanno attirato con la loro Forza le Persone che gli sono state accanto e attorno, riuscendo a plasmarle e a farle crescere con gli stessi Valori dei quali erano impastati loro.
Coraggio e Onestà, Verità e Onore, Sapienza e Volontà.
Modestia.
Autorevolezza.
Critica e Coerenza.
Bontà.
Giustizia.
Fedeltà.
E, soprattutto, Amore.
Sono i Gravi, che hanno saputo compiere il miracolo di entrare in noi, di penetrarci della loro Essenza per farci diventare quelli che siamo.
Anche quando se ne sono andati, non c’è bisogno di esercitare, di loro, il ricordo, ci basta vivere: questo, di quel che sono, è Nino; questo, di quel che sento, è Giovanna; questo, di quel che conosco, è Pietro.
E in questo modo continuano ad esistere.
Sono i Gravi, Padri e Madri soprattutto, ma anche Amici, Insegnanti, Fratelli, dei quali viviamo l’assenza come un vuoto ma di cui, se siamo sinceri fino in fondo, possiamo dire che non ci è mancato niente, perché ci hanno sempre dato tutto, di sé stessi.
Persone morte sempre troppo presto, delle quali rimpiangiamo di avere potuto bere troppo poco, ma solo perché il bicchiere, purtroppo, è stato piccolo.
Bicchiere, della loro Vita, che ci hanno sempre offerto pieno.
Rimangono, ci sono, immanenti e presenti esistono non come un pensiero ma nella Realtà di quel che vogliamo, di quello che pensiamo, di quello che proviamo.
Paradossalmente rimangono, reali e veri, anche nella fame e nella sete che ancora abbiamo di loro, insaziata e insaziabile, né più ne meno come in tutto ciò che di loro abbiamo mangiato e bevuto.
Che ci ha nutriti, che ci ha cresciuti, che ci ha fatti diventare quelli che siamo.
E noi?
Noi qui, ancora così leggeri, noi qui ritardatari, che ne sarà di noi?
A noi restano giorni da vivere, spazi vuoti da occupare, Realtà da deformare con la nostra propria Gravità.
Soprattutto, ci restano bicchieri da riempire per offrirli a figli, mogli, mariti, amici, fratelli; bicchieri grandi o piccoli, non importa, basta che riusciamo a darli loro sempre e comunque pieni.
Pieni di Coraggio e Onestà, di Verità e Onore, di Sapienza e Volontà.
Di Modestia, di Autorevolezza, di Bontà, di Giustizia, di Fedeltà.
Ma, più di tutto, di Amore.
Intanto che lo facciamo, i Gravi sono qui con noi.
Sono qui in questa Bontà di Nino, in questa Forza di Giovanna, in questa Fedeltà di Antonio, in questa Conoscenza di Giovanni che è in me.
Da oggi, anche in questo Dolore.
Di Pietro.

Marco Bottoni (nella foto con Paola Castagna a sx e Leela Marampudi a dx) è nato a Castelmassa (RO) sul Po. È medico. Nel 2004 la Newton&Compton pubblica “Sullo stesso treno” nei Racconti nella Rete 2003 (presentato alla Fiera del Libro di Torino); Montedit pubblica la raccolta L’Altro e altre storie. Nel 2005 Fara inserisce “Storie di Donne” in Antologia Pubblica; Fullcolorsound pubblica “Addio” in Parole in corsa III; Giulio Perrone pubblica “Mareo” in IO scrivo – narrativa. Nel 2006 corre con la Fiamma Olimpica di Torino nel Comune di Mira (VE); pubblica con Fara la sua seconda raccolta di racconti intitolata Sullo stesso treno e altri racconti in Storie di vita. È socio fondatore della Associazione Culturale “Amici di Gianni per il Patì – Onlus” (progetti di alfabetizzazione e recupero sociale dei meninos de rua di Salvador de Bahía, Brasile). Sito personale www.marcobottoni.it

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Nuove variazioni poetiche

di Enrica Paola Musio

Non sono mai qui ad aspettare,
il suono dell’ariete
a sfondare questo mio dolore
questa vostra fedeltà
tradita e interrotta
ma verrò a cercarvi
con le mani in tasca
e una bella lama di coltello
a braccare il mio desiderio
di omicidio
o di mio suicidio
verrò solo a cercarvi
dove si perde per sempre
questo mio volto di donna.

(variazione di una poesia di Luca Benassi)

ALLEATI CIMITERI

Schivi nei litorali,
milizie tutte bianche
nude croci
tutte ben schierate
rovinano
questi cumuli
di saline.

(variazione di Cimiteri alleati poesia di Renzo Vassalluzzo)

(qui sotto variazioni ispirate a Fiori di Vetro di Antonietta Gnerre)

Nell’interno alla mia esistenza,
uno spazio ascolto
che mi viaggia e che tarla
passi scritti
nell’universo dei dettagli
una immagine resta
e un sogno si alimenta
e bussa solo al cuore
a portoni notturni
delle strade.

***

A rottami di parole,
senza pianto
pago le tangenti
a silenzi solo intelligenti
sto solo pregando
al cimitero
degli ebrei
e ascolto ferma
gli oggetti
nei ghetti
da racconti mutilati
nella storia.
(agli ebrei sterminati nei lager)

***

L’inchiostro del tramonto,
appende dei ricordi
e una poesia naviga
tanto bassa
a serbatoi smarriti
di parole
e mai gioca
scrollandosi lacrime
tanto notturne.
(a giovanna gazzoni e floriana raggi)

***

Le rive della Puglia,
raccolgono solo un equilibrio
del mare
pareti delle sillabe
offerte al sole nascente
racchiudono un flebile ricordo
sprigiona una minuta luce
a sfere di speranze
e l’onda si rompe
dietro ai miei passi
nel vuoto degli scogli
dondolante
della carta marina.
(ai miei parenti di Tricase-Lecce)

Enrica Musio è nata a Santarcangelo nel 1966. La sua prima pubblicazione, la silloge “Sarà da poeti il futuro” è stata inserita in Antologia Pubblica (Fara 2005). Nel 2006 ha pubblicato con Fara Dediche sillabiche.

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Ritirata

di Giovanni Tuzet

(questo racconto fa da contraltare a Pranzo di campagna)

Non c’è da scherzare per niente. È stata un’esperienza traumatica. Non ci hanno mostrato il menù! Non c’era preparazione! Non c’era ordine! Mostratemi se ce n’era un briciolo! È inaccettabile! Poi si stava troppo stretti! Considerando 60 centimetri di spazio per ogni commensale, in media, era impossibile stare tutti nello stesso ambiente senza dare le spalle a qualcuno! E che lentezza! Poi non c’erano gli aspiratori a diverse velocità! Non c’erano le salviette ai profumi di bosco! Neanche i bagni! Altro che! Alla faccia dell’ospitalità genuina! Almeno le posate potevano cambiarcele! Ce ne sono in offerta a prezzi da ridere! Che delusione! Quando Luís ha ordinato consommé gli hanno risposto con un grugnito! Quando Augusto ha rifiutato il primo quella cameriera che sapeva di scalogno si è messa a strillare come un ossesso! Oh sì, le specialità della casa e i piatti di una volta e la torta della nonna! L’oste era un villano! Quando ci ha servito quella benzina nelle sue coppette preistoriche non ci guardava neanche negli occhi! Non è un uomo! Non dovevamo cadere in un tranello del genere! Stolti che siamo stati! Bisognerebbe ritirargli la licenza, sarebbe sacrosanto, che tornino con le galline! Chi ha un parente in politica si faccia avanti! Questo è il problema! Non dico la raffinatezza, ma almeno la decenza! E poi sprecare così un Jolly, che ne abbiamo così pochi! Per non parlare del cinema parrocchiale! Della Pro Loco! Del Presidente! E le Drag Queen! Tutti degli incapaci, ignoranti, balordi! Gente che non sa stare al mondo! Non c’era logica! Zero organizzazione! Neanche il minimo sindacale! Se non li mantenessimo noi (garantito!) si sarebbero già estinti! Come i trichechi! Bisognerebbe raderla al suolo quella baracca ed erigere un monumento, un monumento a Darwin! Una bella piazza! Pulizia! Questo sì che sarebbe un piano regolatore e di sviluppo! Io mi candido con questo programma! Votatemi! Amici! Per un servizio degno di noi, del nostro rango, della nostra virtù! Questo ed altro richiedono le esigenze della società e della crescita! Oltretutto, è chiaro, potevamo comportarci peggio! Abbiamo fatto solo un po’ di baccano, rovesciato qualche vassoio, cantato, ruttato, vuotato lo stomaco, pisciato dalla finestra, toccato il culo della cameriera carina, strappato le tende, spaccato un attaccapanni, bruciato un sombrero! Non ci hanno fatto neanche uno sconto! Pezzenti! Barboni! E volevano contare i danni! Ma che danni! Figùrati! Via, via! Pedalare!

Giovanni Tuzet (Ferrara, 1972) scrive poesie, racconti e saggi di argomento letterario. Fra le sue pubblicazioni, si segnala il recente A regola d'arte (Este Edition, 2007), raccolta di saggi. È redattore di Atelier e di Argo. Insegna Filosofia del diritto all'Università Bocconi di Milano.

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Alla ricerca di Dulcinea

di Vesna Andrejevic

Sono già mesi che mi lambicco il cervello avendo delle seccature con la traduzione di un libro. Niente di strano ed insolito. Il lavoro di un traduttore è sempre una sfacchinata indescrivibile, un giogo a cui ti attacchi da solo per un’unica ragione. Ogni giorno che passa ne divento più sicura. All’inizio pensavo che si trattasse di una “nobile ricerca” della parola vera, se non propria, allora almeno della parola altrui. Poi, la ricerca è mutata in motivo di uscire dalla propria mutezza, cioè in desiderio che il testo originale diventi una specie di cartacarbone o di laccamuffa dei sentimenti e dei pensieri del traduttore, una sorta di finestra della propria creatività attraverso cui si entra ed esce dalla seducente illusione di una buona riuscita. Col passar di tempo, tutto il processo otteneva le sfumature ed i contorni dell’impazienza di intuire la fine di questa frenetica corsa sugli altri e sui noi stessi. E finalmente mi sono resa conto che si vive solo per scuotere il giogo, per provare il sollievo liberatorio di una potenza vulcanica che viene con ogni punto finale.
E come succede di solito, correndo dietro alle parole ed ai loro echi che diventano sempre di più deboli che gli si corre più dietro, uno si chiede nel proprio stordimento ma perchè questa maledetta parola sta proprio qui e perchè proprio essa è venuta in mente allo scrittore?! Così, mi sono chiesta pure io, scappando dall’impressione di aver fatto qualche bella cilecca, perchè il mio scrittore si è dovuto rompere la schiena per le gole balcaniche cent’anni fa e perchè ha dovuto rompere le scatole con le sue descrizioni dettagliate proprio a me un secolo dopo?! Una volta calmate la furia e l’ impotenza, chiamiamo quell’ultima pure “creativa”, (ma loro non spariscono mai, nemmeno quando ci sorridono dalle vetrine), da loro è emersa in un modo assai strano l’essenza della mia domanda: prima, perchè il mio scrittore ha scelto di viaggiare e poi perche di tutto quello che poteva scrivere, si è deciso a scrivere proprio un libro di viaggi con i cenni storici? Poi, che cosa rappresenta in realtà un viaggio e perchè mi sono messa in viaggio pure io insieme con lui, invitata o non invitata, chi lo sa, e finalmente come un viaggiatore diventa uno scrittore? Ma prima di tutto, chi è oggi un viaggiatore? Un’altra specie che il nuouvo ordinamento del mondo ha sterminato o forse lui è sopravvissuto in qualche versione turistica, assai mutata che a volte finisce prima che cominci in una travisata realtà virtuale in cui solo un clic del mouse porta una soddisfazione perversa “dell’instant viaggio” dove abbiamo visto tutto in modo migliore, senza alcuna fatica, senza stress che oggi sono impiantati in ogni aeroporto, in ogni stazione sia ferroviaria che degli autobus, in ogni autostrada?
Si dice che ogni viaggio sia simile allo specchio della nostra anima e a tutto quello che noi siamo. Ed io aggiungo: “Assomiglia pure a tutto quello che noi non siamo”. Perché l’inizio di ogni viaggio sta nella nostra ignoranza. Essa fa differenza fra il formicaio turistico che si mette in viaggio per vedere ciò che sa già in anticipo che vedrà e che potrà aspettare, il che più o meno sta in una bella cartolina illustrata, e fra il viaggiatore che segue la sua incognita provando un’insopportabile febbre cerebrale e dei brividi che una volta erano i pensieri, i quali lo costringono a scoprire tutto quello che si deve vedere e sapere. In una parola, durante il viaggio bisogna venir a sapere il suo scopo. E di fini di un viaggio ce ne sono tantissimi, specialmente oggi quando quasi tutto è scoperto, quando le frontiere cadono da una parte e dall’altra risorgono come le catene vulcaniche che minacciano e separano la gente. Eppure, qualche viaggiatore si azzarda a partire. Come mai? Proprio perchè ogni viaggio, nonostante la sua immensa contradditorietà, ha delle sue buone regole. Prima di tutto, si viaggia perchè ogni viaggio deve incominciare e poi finire. Se non finisce, si deve procedere o si parte di nuovo tornando sempre “al posto di delitto” finchè non ci sia chiaro cosa abbiamo fatto. Per questo, oggi più che mai, il viaggio è in realtà il viaggio dentro noi stessi, nella nostra curiosità e meraviglia, alla ricerca di una valida risposta, o almeno di una sola parola che porterà l’acquietamento e il declino della moderna epidemia di adrenalina con cui si perde ogni senso e la bellezza del vivere. Quasi ogni viaggio rappresenta la ricerca di noi stessi e della nostra identità perduta anche se ognuno di noi può addurre un miliardo di motivi perchè si è recato in un certo luogo. Così si viaggia per dimenticare o per ricordare, per trovarsi o perdersi, per mostrarsi coraggiosi, ma allo stesso tempo per trovare l’occasione e il pretesto di piangere un po’ perché non siamo amati, compresi, felici, sani e salvi, ricchi ecc. Le scuse e le ragioni si trovano sempre, ma la nostra più grande spinta è la cognizione che dopo ogni viaggio dobbiamo tornare in qualche posto, e “il posto” vuol dire soprattutto la casa perché il ritorno a casa significa che abbiamo almeno qualche certezza, perfino allora quando durante un magnifico viaggio intuiamo che alla fine del nostro viaggio ci attende solo un’ombra che assomiglia proprio a noi stessi dall’inizio della nostra ricerca. La bell’illusione che abbiamo visto o colto qualcosa, cioè che “l’ abbiamo trovata”, prima o poi svanisce in mille ricordi e immagini spezzate, per non dire in specchietti, che solo uno scrittore può allungare e salvare dalla completa perdita. Per questo i più grandi e i più bravi viaggiatori sono gli scrittori e i poeti perchè ogni parola scritta rappresenta un viaggio dove si palesano gli innumerevoli veli che coprono la parola e la nostra illusione che alla fine del viaggio riusciremo ad arrivare fino ad essa, non è altro che solo un gioco tentacolare di verita e d’ inganno che ci spinge sempre a un nuovo gioco, a un nuovo viaggio, a una nuova parola.
L’antica saggezza incarnata nei racconti tradizionali porta sempre con sè un tocco divino cioè le indicazioni per l’uomo come può non solo passare bensì viaggiare attraverso la vita in modo migliore. Così, in una favola di origine serba si narra di una ragazza di una straoridinaria e insolita bellezza, fatta di neve, rugiada, vento, fiori ecc., la quale ha ammaliato non solo tutti i ragazzi ma anche il figlio del re. Innamorato cotto, il principe acconsente insieme con gli altri pretendenti alla mano di ragazza alle condizioni assai insolite che lei pone promettendogli che sposerà il ragazzo che sarà con il suo cavallo più veloce di lei. Però, ogni pretendente perirà se lei vince la gara. Certo, incantati da una bellezza così grande, tutti i pretendenti e il principe con loro cominciano a gareggiare con lei. E come succede in ogni favola dopo tante peripezie, il principe essendo il più bello, buono e abile, riesce a raggiungere la ragazza, ad acchiaparla ed a metterla in sella dietro di sè, ma “giunto che fu in montagna altissima, si girò d’immproviso, ma di ragazza non c’era nemmeno una traccia”. Non c’è modo più adeguato, più raffinato e più artistico per esprimere l’eterna brama umana di bellezza che ci sfugge sempre e la quale è sempre inafferrabile. Le finitezze esistono solamente sotto le nostre apparenze della loro esperienza vissuta, solo nel viaggio dei nostri pensieri attraverso i nostri desideri e aneliti. Nello stesso modo a volte può succedere che allo scrittore sfugge il vero motivo e scopo del suo viaggio, però, nonostante tutto, continua a portarlo avanti proprio quell’illusione seducente che è instancabile a sussurragli che una volta, magari nell’ultima parola scritta, lui riuscirà a cogliere un’altro filo della bellezza vissuta scoprendola in un’altro punto, in un’altra virgola, in un nuovo punto interrogativo o almeno nei puntini…
Su tutti i viaggiatori del mondo emerge per la sua “nobile illusione” il personaggio di Don Chisciotte di Cervantes, una simbiosi irripetibile tra il carattere di protagonista e la poetica dello scrittore. Don Chisciotte è un vero viaggiatore perchè oltre il viaggio eseguito fisicamente, lui viaggia pure tra la realtà e la finzione, tra la verità e la favola, e la sua stella splendente che lo conduce sempre avanti è proprio la sua Dulcinea che nè lui nè noi abbiamo mai visto o incontrato. Però, quanto più è assente, tanto meglio la immaginiamo presente. Proprio come la raggaza della favola serba, no? Anche se Sancho Panza a volte ci avvisa ironicamente che Dulcinea è tutto tranne una “segnora”, lei rimane sempre per noi, proprio attraverso l’ebbrezza d’amore e le fantasticherie del più noto sognatore del mondo, il più nobile ed irraggiungibile esempio di bellezza e nobilità a cui uno deve non solo aspirare bensì bisogna corrergli dietro così da sconsiderato e folle come lo fa il coraggioso cavaliere. Per questo il viaggiatore non può persistere nel suo cammino se in lui non vive un po’ di Don Chisciotte. Perchè anche lui come Don Chisciotte trasfigura la realtà esterna in quella propria lasciando il posto allo scrittore il quale le mette il timbro della sua immaginazione trasformandola nella “realtà narrativa” che qualche volta passa nella vera realtà proprio per la sua autenticità. In breve, non viaggiamo mai da soli, è tutto il mondo intorno a noi che viaggia con noi. Il viaggiatore-scrittore porta con sé sempre il binocolo puntato al contrario. Così mentre guarda il mondo intorno a sé, il mondo si specchia dentro di lui. Quale immagine, tale lo scritto.
Per questo, quando ci penso un po’, una volta passati “l’urlo e il furore”, mi resta solo da ringraziare il mio scrittore per avermi portato con le sue vicende a una bella ricerca della sua Dulcinea riportandomi alla fine attraverso le gole balcaniche a casa. Del resto, Lassie comes home sempre, no?

Vesna Andrejevic (1965, Belgrado) nata nello stesso giorno del suo idolo Pirandello, sempre in cerca di un editore e con la modesta speranza che un giorno realizzerà almeno la decima parte del successo del suo idolo, si occupa di traduzione multimediale a Belgrado. È professoressa di lingua e letteratura serba e di letteratura internazionale e fresca neolaureata in lingua e letteratura italiana. Fra i vari riconoscimenti a lei sono particolarmente cari: la segnalazione nel concorso Pubblica con noi (2005), il secondo posto nel concorso Artistico Internazionale “Amico Rom” (2005) e Premio ICON (2006). Scrive narrativa, traduce film e i libri e coltiva i suoi sogni letterari.

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Riflessione sul brano del Vangelo di Luca 4,14-30

di Bernardo Francesco Maria Gianni

Dopo che lo Spirito Santo manifestatosi nel Battesimo aveva condotto Gesù nel deserto, ora lo conduce ad agire e manifestarsi come Messia, taumaturgo; come uomo che parla con autorità e agisce con potenza nel suo ministero pubblico. L'espressione «Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo… e tutti ne facevano grandi lodi» (cf Lc 4,14-16) non significa che Gesù, appena vinte le tentazioni, rientrò in Galilea per attuare la sua opera di evangelizzazione. A Luca interessava ricondurre Gesù in Galilea per fargli inaugurare la sua predicazione nella sinagoga di Nazaret nel momento più solenne del sabato, quando gli Ebrei si riunivano per ascoltare e commentare la Parola ed ogni adulto poteva essere invitato a leggere un passo della Scrittura. Gesù ne approfittò per pronunciare il suo discorso programmatico: «Si recò a Nazaret… ed entrò… di sabato nella sinagoga… Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio… per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore» (cf Lc 4,16-19). Questo testo inserito tardivamente nel libro del profeta Isaia, quando il popolo d'Israele tornato dall'esilio di Babilonia trova il tempio distrutto, fa riferimento all'anno di misericordia del Signore, cioè al Giubileo, un momento più di ideale che effettivo ripristino della giustizia sociale.

«Poi arrotolò il volume… Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui» (Lc 4,20). Luca qui mostra tutta la sua abilità letteraria e il suo spirito di osservazione; infatti dopo la lettura del testo profetico viva è l'attesa dei presenti che desiderano sentire come il giovane Maestro spiegherà quel misterioso oracolo che Gesù dichiara, con una frase lapidaria, riguardarlo direttamente: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4,21) Questo è uno dei punti centrali del brano dove Gesù fa una "lectio avverativa" ovvero: quanto dice la Scrittura oggi si compie! La portata messianica di parole applicate a se stesso, provoca sui presenti un duplice sentimento: «Non è il figlio di Giuseppe?» (cf Lc 4,22) Da una parte un senso di ammirazione per quanto Gesù aveva detto con seplicità in ordine all'oracolo; dall'altra un senso di avversione per la persona che, provenendo da umili condizioni, aveva osato attribuirsi la qualifica di Messia designato da Dio. Gesù non solo non dà spiegazioni ma incalza l'uditorio e dice: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui…» (cf Lc 4,23). I Nazaretani sono increduli e richiedono che Gesù compia dei miracoli anche nella sua patria. Gesù richiamandosi ad un altro detto: «Nessun profeta è ben accetto in patria» rivela la ragione per la quale si rifiuta di fare miracoli a Nazaret, che sta nell'atteggiamento dei concittadini che mostrano la mancanza di una iniziale apertura alla fede. Nel suo ministero segue i profeti Elia e Eliseo che hanno operato, per mandato divino, miracoli in favore di indivudui non appartenenti al popolo di Israele. (cf Lc 4,25-27). Luca ci apre così una prospettiva perché legge gli avvenimenti alla luce dell'evento pasquale, dal quale promana un messaggio di salvezza universale.

Riprendendo il testo del v. 21 «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi», è da osservare che Luca usa la parola "oggi" sette volte e sempre in un contesto importante, cosa che fa anche la liturgia nel giorno di Pasqua (oggi Cristo è risorto!), e in altri tempi dell'anno, cioè l'azione di riportare all'oggi la storia e l'evento che Gesù ha vissuto. In Luca, ad esempio, la prima indicazione di ciò la troviamo al capitolo 2,11 «oggi vi è nato nella citta di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore»; una seconda indicazione la troviamo al capitolo 3, 22 nella scena del Battesimo di Gesù, secondo la seguente più probabile traduzione: «Tu sei il mio figlio prediletto, io oggi ti ho generato»; un'altra indicazione la troviamo nella scena di Zaccheo, ricco capo dei pubblicani, al capitolo 19,9: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa»; il settimo oggi è al capitolo 23, 42-43, quando il ladrone sulla croce dice: «Gesù ricordati di me quando entrerai nel tuo regno. Gli rispose: In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso». La liturgua ripropone questa operazione di Luca e l'oggi diventa uno dei luoghi, come ad esempio i poveri, i prigionieri, che Gesù sceglie per rivelarsi. Ma uno dei luoghi che eccelle su tutti, in cui il popolo di Dio incontra il suo Signore vivente, è la confessione della fede pasquale, dove la liturgia rende contemporanei gli eventi della storia, li mette a contatto con la nostra storia affinché possa partecipare di quella salvezza che Gesù ha operato una volta per tutte.

Bernardo Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia di San Miniato al Monte:
Monaci Benedettini di Monte Oliveto
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze

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