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Gianfranco Bertagni. Architetture Utopiche

Il libro

Subhaga Gaetano Failla è nato a Scalea (CS) nel 1955. Laureato in Sociologia a Urbino, ha pubblicato con altri autori un volume di carattere sociologico. Suoi racconti e poesie sono apparsi sulle seguenti riviste: Fernandel, Il babau, Re Nudo, Calamo, Orizzonti, Il foglio letterario; una poesia è stata pubblicata dal quotidiano Il Messaggero, un racconto è stato trasmesso da RAI Radio 3. Presso l’editore Aletti ha pubblicato le raccolte di racconti Logorare i sandali (2002), Il coltello e il pane (2003) e un racconto nell’antologia I porti sepolti vol. 3 (2002). Suoi haiku sono presenti nelle antologie in lingua inglese Zen poems (Londra 2002) e Haiku for lovers (Londra 2003). Queste antologie sono state tradotte in francese e tedesco. Suoi testi sono apparsi sulla rivista londinese Hazy Moon. Collabora con la rivista Orizzonti. Ha fatto parte di gruppi teatrali. Vive a Massa Marittima (GR).

Intervista a Subhaga Gaetano Failla autore di

Il seminario di Vinastra


Perché scrivere racconti oggi? Per lanciare un messaggio, per fornire uno svago alternativo?

Sono piuttosto sospettoso quando si parla di “messaggio”, mi viene facilmente in mente un’arte legata ad un canone, spinta a forza dentro un modello, un’arte condizionata da un certo stile culturale e ideologico. Scrivo racconti perché ciò mi dà gioia. È per me semplicemente un atto creativo, il mettere al mondo una creatura che avrà vita propria. E se questa creatura sarà bella, potrà diffondere la bellezza, se sarà buona e armoniosa potrà diffondere bontà e armonia. E se parlerà una lingua nuova, potrà trasmettere il fremito della scoperta d’una ulteriore dimensione vitale. Mi piace raccontare storie anche oralmente, mi piace pure ascoltarle. Forse è un modo per ricostruire la comunità, il gruppo, essere insieme accanto ad un fuoco dopo una giornata sorprendente, bambini riuniti in penombra che raccontano storie incantate.

Come ti sei avvicinato alla scrittura e quali sono state le letture fondamentali, quelle che poi ti hanno spinto a scrivere in prima persona?

Sono sempre stato un lettore voracissimo, sin da bambino, da quando ho conosciuto per la prima volta i classici letterari attraverso una collana per l’infanzia di libri illustrati, “La scala d’oro”, della UTET. Nello stesso periodo infantile ricordo un bellissimo racconto delle Mille e una notte, il quale narrava d’un regno sottomarino dove si celebrava la morte in grande letizia. Mi è capitato di ritrovare durante la mia vita quel regno. Poi, da ragazzino, giunsero i libri di Verne, di Haggard delle Miniere di re Salomone, di Mark Twain, e La commedia umana di Saroyan, un libro splendido letto a scuola, frequentavo la seconda media. Da adolescente mi appassionai alla letteratura americana, quella conosciuta per merito soprattutto di Vittorini e Pavese: Caldwell, Steinbeck, Hemingway, Dos Passos, Faulkner… Gli italiani li trovavo spenti, appesantiti da un grande carico di orpelli letterari. Rispetto agli americani, la letteratura italiana non aveva per me il dono del dinamismo, del dialogo scattante, fluido, asciutto. Poi ci fu il periodo di Poe, dei francesi (soprattutto Maupassant e Sartre), e finalmente conobbi anche gli italiani: Pavese, Vittorini, Buzzati, Cassola, il teatro di Eduardo… Cominciai poi a coltivare con assiduità l’amore per il racconto fantastico. E allora giunsero a farmi compagnia H.G.Wells, London, Bradbury, Borges… Poi vennero i beat e i russi, e Joyce ovviamente, e tanti latinoamericani (per tutti, un solo nome: Felisberto Hernandez). Per fortuna giunse anche Bukowski – un grandissimo scrittore, sottovalutato – a rallegrare un mio periodo faticoso. Tra gli italiani d’oggi amo leggere Bonaviri, Bufalino, Tabucchi, Rigoni Stern, due dei quali da me anche intervistati per una rivista. Voglio ricordare un solo racconto italiano: La sirena di Tomasi di Lampedusa.
Il passaggio dalla lettura alla scrittura è stato per me un fenomeno quasi naturale, ritardato, forse, solo dalla mia timidezza.

E a proposito del tuo stile e della tua poetica, come ti vedi e come pensi di essere visto?

Generalmente chi mi legge per la prima volta definisce i miei racconti “strani”, e ciò – se c’è un contatto del lettore con questa pretesa stranezza – mi fa piacere. Vorrei creare un’opera in prosa dove possano convivere armoniosamente diversi stili, perfino diverse forme di scrittura, con l’inserimento, per esempio, all’interno del tessuto narrativo, di poesie, di onomatopee, di brani di scrittura teatrale. Da qualche anno ho scoperto una forma di scrittura, l’haibun, proveniente dalla tradizione letteraria giapponese, che organizza nel corpo d’uno stesso racconto la narrazione in prosa intervallata da haiku.

Cosa puoi dire di te a chi sta leggendo questa intervista? Chi sei come persona e come scrittore?

Sono un tipo nato d’autunno, a due passi dal mare, sotto il segno della Bilancia, che ama la compagnia e la solitudine, il teatro, la corsa, Van Gogh, gli gnocchi, gli scacchi, il mare naturalmente, il sax e il flauto… Conosco quasi a memoria il film Qualcuno volò sul nido del cuculo e alcuni racconti Zen. Chi mi conosce da poco tende a vedere in me una specie di gentleman d’altri tempi, un po’ compassato, piuttosto distratto, poi, più tardi, appare anche un mio aspetto da mattacchione, divertente e bizzarro. Per il resto, chissà. Come scrittore mi piace lo stile visionario, con una particolare attenzione alle possibilità innovative del linguaggio.

Per chi pensi la tua narrativa possa essere particolarmente interessante? Hai in mente un lettore tipo?

Quando scrivo, racconto silenziosamente la mia storia ad una diecina di persone: scrivo cioè rivolto mentalmente alla mia compagna, a familiari e nipoti e ad alcuni cari amici, i quali saranno coloro a cui, subito dopo, proporrò in lettura le mie storie (si possono tormentare i propri cari in vari modi…). Mi piace pensare ad un lettore talmente innamorato della vita da avere in sé un pizzico di follia, come direbbe Zorba il greco.

(Fara Editore, dicembre 2006)

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