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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 34
Ottobre 2002

Editoriale: Tracce ed orme

Scrivere etimologicamente significa incidere, incavare, scalfire. Il peso di un corpo può essere riassunto da un'orma; quello di un'anima da uno scritto da una serie di orme che costituiscono una traccia. Iniziamo allora il numero con le Tracce di Andrea, proseguiamo con quelle del nuovo pensiero africano, e con un commento alle prime pagine della Simmetria imperfetta. Concludono la recensione a Taglio intimo di Tommaso Labranca, e i siti consigliati. Buona lettura.


Le tracce di Andrea

GHIAIA
Firmi il contratto
schiacci l'interruttore
fai tutto quello che va
dal qui al là del filo.
"Improvviso sopraggiunto"
ha chiuso il tuo negozio,
il greto di una fontana
ti ha spostata
sul tuo destino di ghiaia.

RICEZIONE 1 DI 1
Disteso buio
al tramonto
il tuo lavoro
ha tracce di tuffo.
Mi hai servito
vino ghiacciato in cestelli di ghiaccio
perché restasse il mondo com'era.
Caviglie di purosangue
chiudono
il tuo raccoglitore,
un Daikin dalla sua parete
come timido grillo parlante
fa le carte alla tua condizione
e soltanto ora
ci pensi
mentre si versa ogni minimo
nei tuoi occhi di conchiglia.

HO SBAGLIATO TUTTE LE MIE FOTO
Ai denti
asserragliati come ringhiere,
affiderai l'assalto e domanderai
se altro leggo che il New York Times.
L'affare è una ciocca di terra
e come lampada del mio tavolo,
come nero uccello parassita,
aspetterai
il cedere della mia risposta.

FLAGS
Passi
per la punta
tirati su e sotto
occhi scuri
di angurie
l'estate
nei rivoli della tua camicia.
Fuori luna
bianca
vuota
più del tuo frigo
e dentro a pensare
che tutti e poi con la voce
"cosa mai,
tutti?" e intorno
"cosa partono
occhi scuri
insieme e tutti?" Io
peccato, non ricordo.

Andrea Campanozzi 

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Il pensare africano

(da Spunti di filosofia Interculturale: Oriente-Occidente-Africa
a cura di Paola Tiso - Amici dei Popoli onlus)

a - ESISTE UN PENSARE AFRICANO?

Quando si parla oggi del pensiero o delle filosofie africani, molti pensano subito che frequentando le biblioteche si possano trovare testi sull'argomento, ma costoro possono rimanere delusi non trovando monografie o opere di pensatori africani in campo strettamente filosofico. (…)
Si può far notare che alcune opere che portano il titolo di "Filoso-fia Africana" sono state scritte in gran parte da occidentali, molti dei quali missionari, che avendo vissuto in terra africana per tanti anni hanno tentato di portare alla conoscenza del mondo culturale occidentale il pensiero africano. Molti sono gli articoli scritti sul pensiero africano da africani ma spesso il problema che si incontra è quello della "lingua" da usare per mettere per scritto questo pensare africano, e questo resta il problema fondamentale. Le lingue africane non sono tutte scritte: non si studia a scuola una lingua africana in maniera scientifica. Ciò premesso, ci si può domandare in che modo una filosofia può dirsi africana. La stessa domanda può anche essere rivolta a tutte le altre culture. Si tratta di sapere quali sono le condizioni e le caratteristiche che consentono di parlare di una filosofia che sia europea, araba, asiatica o africana.
Una filosofia è sempre legata ad una cultura, è sempre una filosofia determinata. (…)
La riflessione filosofica nasce dal mettere in questione l'esistenza e il valore dell'uomo. Tale messa in questione non è tanto nel dubitare della realtà quanto nel dialogare con essa. Chi è l'Uomo, che cosa è il Mondo, chi è Dio? Sono domande che inducono alla riflessione filosofica, sono domande sul senso. Il filosofo è colui che cerca la verità, che pensa la verità nella sua totalità, ovvero la verità su queste domande e, dato che tutti gli uomini pensano, si può dire che in certo qual modo ogni uomo è filosofo sui generis. Tutti gli uomini possono rispondere a modo proprio alle domande riguardanti l'Uomo, Il Mondo e Dio.
In ogni caso, la sapienza accumulata nella tradizione orale costituita da miti, proverbi e racconti, riti, nomi, proibizioni e da tutte le manifestazioni della parola e del pensiero sono ciò che si può chiamare pensiero filosofico della tradizione orale africana. Non emerge qui il nome di qualche particolare personalità, ma il soggetto è la tradizione, la comunità, il popolo.

I miti
Tutte le forme letterarie africane usano dei simboli anche se alcu-ne storie sono più ricche di simboli di altre in quanto rappresentano tradizioni arcaiche. In genere ogni storia si struttura attorno ad un tema generale dal quale e verso cui tutto il racconto si svolge. Ogni mito ha un senso profondamente religioso anche quando tratta di argomenti cosmologici ed antropologici. Tutti i miti hanno valore morale e religioso. Essi sono vere e proprie creazioni del pensiero aventi fondamento immaginativo e speculativo. Ogni mito nasce dalla vita e la sua struttura una logica ben precisa. In questo senso, i miti stimolano il pensiero e sono oggetto di speculazione.

Proverbi e racconti
I proverbi ed i racconti, spesso di tipo eziologico o popolare, seguono un'altra logica. Mirano a giustificare lo stato attuale di ogni cosa. Se un bambino domanda come mai la capra cammina con quattro zampe e mangia sempre erba, il vecchio deve trovare una spiegazione convincente per non lasciare il bambino nel dubbio. Il racconto può essere detto eziologico quando risponde alla domanda: "perché", e dato che l'età dei fanciulli varia, e con essa la comprensione, il narratore alle volte usa un tono di voce variamente drammatizzante e un atteggiamento corrispondente alla verità del racconto. L'esempio e la testimonianza di vita che l'anziano conduce giocano un ruolo importante per la trasmissione del contenuto.
Un racconto è detto popolare quando rientra nella tradizione. Nel racconto la storia non cambia a seconda dell'età e della maturità del bambino, i personaggi del racconto sono spesso gli animali che giocano il ruolo dell'uomo. Il bambino deve poi svolgere un suo lavoro mentale, un'astrazione intellettuale, perché in tale racconto non ci sono risultati o conclusioni. Alla fine del racconto, la domanda viene rivolta al bambino che deve tirare le proprie conclusioni. In questo senso i proverbi sono carichi di insegnamenti morali e determinano spesso la modalità dell'inserimento dell'individuo nella società.

Leggende e favole (saggezza popolare)
Le leggende o favole sono pure creazioni fantastiche che mirano ad un insegnamento morale e servono per coltivare la vita intellettuale favorendo la riflessione. Spesso sono storie vere del passato, degli antenati, che vengono tramandate di generazione in generazione. Il maestro che racconta è già un modello di certezza tradizionale e deve insegnare comportamenti buoni. L'allievo da parte sua dovrebbe capire quali possono essere i comportamenti negativi da evitare. Queste leggende sono spesso ricche di figure eroiche che hanno fatto propri i valori della vita del popolo del quale ognuno è chiamato a fare parte integrante, pronto anche a dare la vita per difenderlo quando fosse necessario.

Riti e costumi
I riti così come i costumi sono primariamente preghiere e modi di invocare la benedizione e la bontà del Creatore. Sono forme e modalità per celebrazioni liturgiche e sacrifici. Queste forme variano da clan a clan, da tribù a tribù, ma sia il contenuto che il fine sono gli stessi.
Mediante queste usanze sia l'individuo che la collettività entrano in rapporto con la divinità e nella loro pratica si riconosce a quale popo-lo si appartiene. I riti ed i costumi caratterizzano un popolo ed il suo modo di pensare.

Nomi di persone
I nomi di persone e di luoghi hanno sempre un significato e c'è sempre una storia che li accompagna. Così, ad esempio, il nome "Ndem mboh", cioè "Dio il Creatore" allude all'eternità di Dio e fa sì che il finito, colui che porta questo nome, partecipi all'infinità dell'infinito. I nomi di persone e di luoghi caratterizzano la forma e il valore che rappresentano.

L'età del "Pensare" africano
(…) Il pensiero non ha colore né età, né è di ordine materiale, perciò, finché l'uomo vive, vive il pensiero. E antico quanto l'uomo ed è giovane quanto è giovane la vita.
E' assurdo parlare di inferiorità o superiorità di una cultura rispetto ad un'altra, perché il diverso non ha termini di paragone e gli interessi culturali dipendono dalla condizione di vita di un popolo. A causa delle condizioni di vita dell'uomo, nella società tradizionale africana non si è avuto uno sviluppo delle scienze matematiche. geometriche e filosofiche in senso stretto. (…) Nonostante questo, nel nostro studio terremo conto del pensiero tradizionale, scoprendo in esso i presupposti e la sapienza necessari a comprendere il pensare africano di oggi. Dato che il pensiero tradizionale è soprattutto orale, e sapendo che il discorso orale è più propizio alla riflessione rispetto alla scrittura, diviene spontaneo affermare che il discorso filosofico si svolge nel parlare dell'uomo di ogni tempo. Essendo ciascun uomo il risultato del proprio passato senza la sapienza popolare non vi è una vera corrente di pensiero.
Anche se non abbiamo nessun nome da proporre in campo filoso-fico, inteso in senso accademico, applicheremo un proverbio africano:
"Una testa sola non contiene la sapienza", volendo riferirci all'unità tra il passato ed il presente e stabilire così nelle menti di tutte le generazioni i criteri del nostro pensare.
Dove dobbiamo cercare la sapienza se non nella vita dei nostri pa-dri e nel loro Dio?
Riguardo al senso della vita, le società tradizionali africane hanno riflettuto abbastanza e c'è sempre da imparare dall' "anziano", dal "saggio" del villaggio, ma, dato che per esigenze sistematiche la filosofia deve essere rigorosa e critica, non possiamo parlare di una filosofia africana se non in senso lato (anche perché gli "anziani" trasmettono solo oralmente i loro valori e pensieri). Il carattere rigoroso del nostro procedimento è una specificazione sistematica della riflessione sul dato della tradizione dei nostri padri. Molti sviluppi e tendenze seguono questo procedimento per una costruzione fruttuosa del pensare africano capace di raggiungere tutti gli africani di ogni tradizione e cultura. (…)
Il pensare come scienza ha valore scientifico e universale, e come tale vale per ogni epoca, per ogni popolo e per ogni cultura. Dobbiamo vedere se in molti aspetti e teorie del pensiero non siano già presenti concetti d'ordine tipicamente speculativo che meritino di essere cono-sciuti per edificare il sapere universale.

(da MARTIN NKAFU NKEMKIA, Il pensare africano come vitalogia, Ed. Città Nuova))

b - LA SCORZA. IL LEGNO, IL CUORE
L'ospitalità nella cultura bantu

La via che abbiamo scelto per parlare dell'ospitalità Bantu è quella di compulsare strati culturali in cui si presume siano sedimentati i presupposti del fattore "ospitalità" inteso come valore, e dei fattori dinamici che lo rendono operativo.
"Bantu" è uno dei plurali della parola muntu che significa "persona", per cui "Bantu" tradurrebbe gente, popolo. Sotto il nome di Bantu vengono indicate molte tribù che occupano una gran parte dell'Africa Nera.
Possiamo pertanto dire che Bantu ha una risonanza vasta e varia, almeno quanto quella del termine occidentale, ed esattamente come per gli occidentali, all'interno dei Bantu esistono notevoli differenze, spesso antagoniche e, tuttora, insanabili.
Nel compiere questa scelta ci rendiamo conto delle difficoltà che derivano dal fatto che i diversi aspetti dei bantu fanno parte di una cultura integrale, non esistendo cioè parti che possano essere staccate, poiché ciascuna ha il proprio contesto ed è pienamente comprensibile soltanto in rapporto al tutto. Siamo di fronte a quella che i filosofi africani chiamano "rete di forze", una struttura in cui nessun punto della rete si muove senza ripercussione sul tutto.
Un'altra difficoltà ci viene dal fatto che, trattandosi di realtà africane, da esprimere in categorie africane, non è facile esporle usando concetti europei, per cui spesso ricorreremo a una lingua bantu, che sarà opportunamente tradotta, e più precisamente il Kimbundu, che è la lingua del gruppo etnico cui appartengo. La terza difficoltà è che l'Africa bantu è grande, e nessun nero o gruppo etnico può parlare in nome di tutti. Per cui noi partiremo da quel gruppo etnico che conosciamo meglio, appunto il Bantu Kimbundu, ed estenderemo le nostre considerazioni all'Africa nera in generale, lì dove possiamo cogliere elementi comuni come l'atteggiamento verso gli antenati, le caratteristiche linguistiche, i sistemi simbolici e mitologici, ecc.
Non va dimenticato, infine, che nella sua collocazione spaziotemporale, l'Africa bantu di cui parleremo non è solo quella del "dopo" le scoperte, che più tardi avrebbe conosciuto una divisione geometrica, fatta letteralmente con la riga e con la squadra durante la conferenza di Berlino del 1884/85, dopo la quale etnie che dovevano Stare unite sono state separate e viceversa, bensì terremo conto anche e specialmente dell'Africa del "prima" delle scoperte.
Il grande storico africano Joseph Ki-Zerbo infatti dice:
"L'Africa di ieri è ancora un dato contemporaneo (…). Esistono delle corti di capi africani tradizionali dove si ripetono gli stessi riti di cento o di cinquecento anni or sono; esistono formule sacrificali che rimangono immutate da forse un millennio."
In questa sede anziché seguire un criterio di analisi essenziale, che parte dall'essenza astratta dell'ospitalità per vedere come poi essa si realizza nelle varie manifestazioni, preferiamo un approccio per gradi successivi e concentrici.
Il metodo di analisi essenziale, infatti, se da un lato ci offre il vantaggio della chiarezza e della sistematicità, dall'altro ci sembra anche esposto al pericolo dell'ambiguità, come l'eccessiva idealizzazione, o l'evasione dalla storia.
Per un sistema di pensiero, poi, quale quello nero-africano, che non ha depositato la sua visione della realtà in "trattati" speculativi, non ci sembra facile seguire la via di un'analisi per essenze.
Fatte queste osservazioni, riteniamo di poter iniziare la nostra ricerca.

1. "Ospitalità", "ospite"
Il termine ospitalità in Kimbundu si traduce con la pa-rola ujitu. Ujitu è però la parola che si usa anche per designare il termine italiano "offerta", o meglio, "l'arte di fare offerta".
Il termine ospite, invece, si presenta in kimbundu con varie accezioni:
a) Mujitu - designa l'ospite in generale, e in quanto tale il termine non si discosta da ujitu, appena visto. Questa appartenenza allo stesso campo semantico di mujitu e ujitu, già può darci un'utile indicazione per la nostra ricerca.
b) Musonhi deriva dalla parola soizui, plurale jisonhi, e significa "vergogna". Qui, però, il termine si riferisce a quella vergogna sinonimo di timore reverente e ossequioso; pertanto musonhi è quel tipo di ospite che si comporta dinanzi alla persona che lo ha ospitato in modo scrupoloso e cerimonioso. È il caso, ad es., dei rapporti che in Africa si stabiliscono tra generi o nuore con i rispettivi suoceri.
c) Ngenji - è l'ospite visto come il viandante, pellegrino e forestiero.
d) Nzeizza - il termine deriva dal verbo kuitzenza, che significa "trattare con delicatezza", come quando si ha a che fare con un oggetto fragile.
e) Mukunji - è l'ospite visto in qualità di qualcuno che porta o racchiude dentro di sé un messaggio. In questa accezione vanno compresi i messaggeri, gli araldi, i missionari, i negoziatori di trattati, gli invitati a recare notizie o intimazioni dall'uno all'altro gruppo etnico amico o nemico, e la loro missione può comportare l'attraversamento di territori occupati da gruppi etnici ostili o poco noti.

2. Ospitare, accogliere
I verbi usati in Kimbundu per designare l'accoglienza dell'ospite sono prevalentemente due: kttzalela e kutam-bulula. E così li troviamo ad es., in Rom 12,13: "Muzalela jinga asonhi" (fate di tutto per essere ospitali); 1Pt 4,9: "Kala muthu a tambulule mukuà" (siate ospitali).
Prima di inoltrarsi nell'analisi del loro significato va fatta un'importante osservazione sul verbo kimbundu: esso presenta delle modificazioni semantiche estremamente interessanti per mezzo di certe particelle e suffissi verbali, dando origine a significati diversi. Vediamo, ad es., come viene tradotta la frase di Mt 10,20: "Non sarete voi a parlare, ma sarà lo Spirito del Padre Vostro che parlerà in voi". La Bibbia kimbundu traduce: "… ki enu dingi mu zuela, maji o Nzumbi ia Tat'enu muene u zuelela moxi dienu". Il kimbundu usa zuela, per il primo "parlare" e zuelela, per il secondo (che tra l'altro sta al presente e non al futuro).
Non è questa la sede per soffermarci sulle peculiarità di ogni forma. Ai fini della nostra ricerca ci limiteremo a osservare che delle forme in questione, non tutte coinvolgono il soggetto agente in egual misura. Le forme attive, iterative, passive, frequentative, ad esempio, toccano il soggetto nei suoi aspetti diremmo puramente sociologici e formali, mentre le forme relative, causative, determinative, coinvolgono il soggetto in tutta la sua dimensione etica, morale e antropologica, postulando un senso di responsabilità, del tipo di chi deve presentare i conti a qualcuno.
Torniamo ora ai nostri verbi impiegati per designare l'accoglienza dell'ospite: kuzalela e kutambulula. Il primo ha come verbo-madre kuzafa e in questa posizione significa propriamente "stendere una stuoia"; il secondo invece viene da kutambula e significa "ricevere".
Il fatto che i bantu nel contesto dell'accoglienza dell'ospite usino le forme relativo-determinative, lascia intendere che essi compiono l'ospitalità non solo con la coscienza di una iniziativa puramente personale, e nemmeno come un cieco istinto di solidarietà, bensì lo fanno in ottemperanza di imperativi e dettami ben precisi e con una ben chiara consapevolezza della responsabilità che grava su di loro quando devono muoversi nell'ambito dell'ospitalità. In altre parole i bantu vedono nell'ospitalità una domanda e un dono mascherati che esigono una risposta ed un'accettazione concrete, attente e responsabili.
Stando così le cose, allora, si può capire adesso la parentela semantica tra mujitu (ospite) e ujitu (offerta).
In questa prospettiva, dunque, il kuzalela non ci dà semplicemente il senso di stendere una stuoia per farvi dormire una persona, quanto il senso di stendere quella stuoia con riverenza, grazia e premura. Il kutambulufa non traduce semplicemente un ricevimento guidato da criteri individualistici e soggettivi ma, nel farlo, si deve dare il meglio di se stessi, perché chi ospita deve rappresentare tutta la comunità a cui appartiene, comunità che ècomposta dai vivi e dagli antenati, di cui parleremo più avanti.

3. Mentalità prelogica?
Lévy-Bruhl ha chiamato "prelogica" la "mentalità primitiva", volendo con ciò caratterizzare un pensiero che non si sviluppa secondo la logica aristotelica basata sul principio di contraddizione, un pensiero per il quale "gli oggetti, gli esseri, i fenomeni possono essere, in un modo per noi incomprensibile, se stessi e, nel contempo, qual-cosa d'altro".
Esiste ormai una vasta gamma di opere di ricerca sulla mentalità dei popoli africani che sono giunte a dei risultati diametralmente opposti rispetto a quelli formulati dal primo Lévy-Bruhl, anche se, a nostro avviso, sono ancora pochi coloro che hanno raggiunto il nocciolo del pensiero bantu. Ricordiamo, ad es., Placide Tempels, missionario belga nel Congo dal 1933, che ha raccolto le sue osservazioni e le sue ricerche nel libro La Philosophie Bantoue, pubblicato nel 1945 e ancora oggi fonte primaria per gli studiosi, con il quale l'Autore ci presenta un sistema di pensiero dei popoli studiati diverso dal sistema basato sul principio di contraddizione.
A parte P. Tempels, che si è mosso in campo più strettamente filosofico, il contributo di altri autori ha arricchito maggiormente il campo etnologico e antropologico, da cui poi è possibile estrarre una filosofia africana.
Comunque, alla cultura africana molto si deve ancora per quanto attiene il riconoscimento della dignità di pensiero e di filosofia.

(da P. ANASTASIO KAHANGO, La scorza, il legno il cuore, Ed. Nuova Specie, Troia, Foggia)

c - ASPETTI DELLA CIVILTÀ AFRICANA
Nel processo di mutamento culturale delle società tradizionali, avviato dallo scontro-incontro con l'Occidente, si sono verificati e continuano a verificarsi alcuni fenomeni particolari che dagli studiosi vengono designati con termini quali: disintegrazione culturale, deculturazione, detribalizzazione, vuoto culturale, integrazione culturale, selezione, fusione, ecc. Penso che sia bene dire brevemente di ognuno di essi.

Disintegrazione culturale
La cultura di un popolo, quando non si trovi sconvolta da periodi di crisi particolari, costituisce un complesso unitario, nel quale valori, istituzioni, usi, costumi e tecniche formano un tutto coordinato e sistematicamente integrato. La discrepanza tra i vari elementi, quando non raggiunge un grado troppo elevato, viene superata dall'adeguarsi del sistema o delle sue parti alle tensioni che si sono generate, e dalla sua capacità di assorbirle; in pratica, sia le discrepanze che le tensioni da esse generate, in tali casi, fanno parte della dinamica culturale, anzi ne sono la molla.
Quando però una cultura tecnologicamente evoluta, come è quella occidentale, si scontra con un'altra a basso livello tecnologico, come sono quelle etnologiche, il primo fenomeno che comu-nemente si verifica è quello della disintegrazione della cultura tecnologicamente più debole.
Il processo di disintegrazione può raggiungere una portata e un'estensione più o meno vaste, ma quasi mai totali; prima o poi la cultura tradizionale reagisce e dà la sua risposta. "Alla crisi disintegrativa - scrive il Lanternari - succede di norma, dopo un più o meno prolungato periodo di rielaborazione, l'apprestamento di una risposta adeguata, che dà via alle forme di reintegrazione culturale " (Lanternari 1974, 16).
La crisi di disintegrazione è molto dolorosa e spesso provoca fenomeni di vero e proprio sconvolgimento.
L'effetto disintegrante è, certo, ancora più consistente Quando ad essere attaccati sono i valori morali, le norme sociali o i riti, come storicamente è avvenuto con l'azione dei missionari, i quali spesso nel condannare si sono basati più sul pregiudizio e la mancanza di conoscenza che non sulla realtà dei fatti.

Deculturazione
Può essere indicata con il termine "deculturazione" l'azione, a volte organizzata e pianificata, altre volte inconsapevole, ten-dente a demolire la cultura tradizionale per sostituirla con una nuova. Storicamente essa non si è mai realizzata interamente perché, per la reazione della cultura tradizionale, essa ha dato luogo ad un processo integrativo, a seconda dei casi, integralista o nativista.

Detribalizzazione
La detribalizzazione è la condizione ottimale perché si verifichi la deculturazione. Spesso è scelta di proposito e pianificata dagli agenti esterni di mutamento. Esempi tipici di detribalizzazione possono essere considerate le reducciones organizzate dai gesuiti nel Paraguay e i "villaggi cristiani" sorti nel secolo scorso in Africa, istituiti dai missionari per sottrarre i catecumeni e i neofiti all'ambiente "pagano" e offrire loro un ambiente "cristiano". Le reducciones furono distrutte dai bandeirantes paulisti dopo le stragi del 1628-29; i "villaggi cristiani" furono abbandonati dagli stessi missionari che non ritennero più opportuno che i convertiti si di-staccassero dal loro ambiente tradizionale.
La completa detribalizzazione oggi si verifica per gruppi di poche persone, singole famiglie o individui, per periodi più o meno lunghi, o anche in modo permanente, attraverso fenomeni di inur-bamento o di emigrazione, per motivi di lavoro o di studio.

Vuoto culturale
Nei casi più drammatici della crisi descritta si può giungere al verificarsi del così detto "vuoto culturale". Esso corrisponde a quel momento critico in cui i membri di una società, con il crollo del sistema socio-culturale tradizionale, vengono a perdere la fiducia nei valori e nelle norme tradizionali e tuttavia sentono quelli importati come estranei, quindi non si sen-tono integrati in nessuna cultura.
Integrazione culturale. - L'acculturazione non è un'azione unidirezionale attuata da una cultura "più forte" che dà, nei confronti di una " più debole " che riceve, e tanto meno è un processo di semplice sostituzione di alcuni elementi cultu-rali con altri. Essa è un processo creativo dialet-tico a due sensi. Tutte e due le culture (o più) che entrano in rapporto danno e ricevono.
Se sono evidenti i cambiamenti prodotti dal-l'Occidente nelle culture tradizionali, altrettanto evidenti sono gli influssi di queste sulla cultura occidentale. Si pensi per esempio agli influssi del-l'arte " primitiva" su quella europea (Modigliani, Picasso, Gauguin, e tutta la corrente dei fauves), della musica negra, negro-americana e latino-ame-ricana su quella occidentale, della mistica indiana sulla mentalità e pratica di vita dei giovani occi-dentali, delle varie arti marziali tradizionali del-l'Estremo Oriente sul costume sportivo e sulla ci-nematografia occidentale. Per non parlare dell'in-fluenza sulla cultura occidentale di uomini come Gandhi, Martin Luther King, Mao, Castro; di movimenti negro-americani, come i Black Power, i Black Muslims, ecc. Anche i reciproci rapporti po-litici ed economici delle nazioni occidentali sono stati profondamente mutati dal sorgere dei giovani stati del Terzo Mondo .
La reciprocità e la dialettica sono caratteristi-che essenziali della natura del rapporto interculturale.
La fase negativa del processo acculturativo, quella della disintegrazione, non ne è che un mo-mento. Sotto la pressione dello scontro, la com-pattezza del sistema culturale si incrina. A volte si sconquassa, e può sembrare che il colpo sia tale da provocarne la distruzione. Ma la storia ci insegna che, a meno che non avvenga l'elimina-zione fisica della società nei suoi membri, la cul-tura prima o poi reagisce. Allora inizia un processo di reintegrazione degli elementi nuovi e, perciò di elaborazione e di strutturazione di un sistema socio-culturale che risponda alla mutata realtà di vita.
Selezione e fusione. Quando una cultura viene a scontrarsi o incontrarsi con un'altra, non tutti gli elementi nuovi apportati dal di fuori vengono assunti ed integrati.
Altresì non tutti gli elementi della cultura tradizionale vengono sopraffatti e distrutti.
Per ciò che riguarda gli apporti esterni si verifica una selezione. Alcuni elementi vengono rifiutati, altri accettati e rielaborati con funzione diversa da quella originale, altri infine vengono accettati, recepiti, fusi con quelli tradizionali superstiti ed integrati in un unico sistema socio-culturale, che risulta diverso sia da quello tradizionale, sia da quello straniero.
Come si è detto in precedenza, questa azione è reciproca e vale per tutte e due le culture che sono entrate in contatto.
Dopo l'evento culturale nessuna delle due sarà più uguale a prima.

(A. HAMPATÉ BA, Aspetti della civiltà africana, Ed. Bibl. Nigrizia)





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Un commento alla Simmetria imperfetta

Notizia
Nato ad Akureyri nel giugno del '62, Johan Thor Johansson è forse il maggior esponente del "moralismo logico", genere filosofico-letterario in cui si esprimono alcuni scrittori scandinavi. Ha esordito con racconti fantastici pubblicati da riviste letterarie dei paesi nordici, partzialmente tradotti in inglese e francese nella bilingue Montréal. Cultore dei segreti del linguaggio, immerso nelle terre che hanno visto nascere l'Edda, Johan Thor Johansson ha uno stile asciutto, apparentemente semplice a livello frasale, ma piuttosto complesso per quanto riguarda unità testuali maggiori (paragrafi e capitoli), ricco di risonanze che interrogano sempre il lettore sulle domande fondamentali dell'esistenza e del fare dell'uomo. Vi proponiamo qui un commento adespoto alle prime pagine del racconto.

Note critiche
Già il nome dell'autore, Johan Th. Johansson ovvero Giovanni Thor Figlio-di-Giovanni, sembra riassumere la struttura imperfettamente simmetrica del testo e suggerirne una prima chiave di lettura: il figlio estensione del padre, procedente da lui ma diverso da lui, con una sua autonomia, una sua storia; ma anche Johan che riflette su sé stesso, trascurando in questo processo di riflessione, inevitabilmente, l'espressione di una parte di sé: infatti ci si rivela in maniera incompleta (sia a sé stessi che agli altri) essendo noi uomini costitutivamente, materialmente limitati e imperfetti (basti pensare alla morte).
Il libro si apre con poche frasi che propongono al lettore diversi percorsi di senso:
"La tua primitiva idea di libertà"
In questa iniziale sequenza di parole l'aggettivo "primitiva" può suggerire la rozzezza, la non raffinatezza di un'idea originaria, oppure semplicemente un'anteriorità temporale senza connotazioni di valore. Il fatto che la "libertà" sia il complemento di specificazione del sostantivo "idea" può indicare che il nostro pensiero è determinato da una libertà più o meno consapevole, più o meno reale (sappiamo che in Platone la verà realtà è quella delle idee), una libertà che l'evoluzione filogenetica e ontogenetica dell'uomo (dello spirito) dovrebbe rendere forse sempre più evidente nel corso della storia.

"- che eri venuto già da tempo maturando - si era fortemente incrinata"
La parentetica pare svolgere una funzione importante: innanzitutto indica il processo di sviluppo di un'idea originaria, probabilmente vaga e sfocata, che ha preso tutto il tempo che le è stato dato per crescere, per dare poi un frutto maturo al punto da "incrinarsi", macerarsi (come la frutta troppo matura) ed entrare in crisi aprendosi così a una nuova comprensione della realtà.
eppure sentivi che non eri più prigioniero.
qui l'avverbio "più" ha un significato ambiguo: può indicare la cessazione della prigionia o il fatto che la condizione di prigionia non era maggiore di quella provata in precedenza.
L'uso della seconda persona mette subito in gioco il lettore, che viene quasi costretto, da un autore che richiede con una implicita insistenza la sua collaborazione, a porsi implicitamente alcune domande fondamentali: Fino a che punto sei libero? Hai consapevolezza delle tue responsabilità? Hai riflettuto sulla condizione umana (titolo di un famoso libro di Malraux che apparirà all'inizio del capitolo III)? Evidente già da queste prime righe come l'etichetta di moralista logico ben si attagli al nostro.
Appena sotto l'incipit, Johansson ci propone un racconto della memoria, quasi una favola spoglia ed essenziale: la storia di una scalata in cui una giovane incerta guida si trova a condurre, lungo un percorso insidioso cosparso inoltre di simboli, un piccolo gruppo di ragazzi. Ci limitiamo qui ad analizzare alcune delle valenze simboliche di questo primo testo narrativo.

"Il capo"
ovvero la guida, ma anche la testa sede della memoria, della ragione e dei sentimenti (il cuore è controllato dal cervello, sede della memoria e delle emozioni). Di fronte al pericolo cerca con una calma esteriore (dentro di sé cova il dubbio) di fare il punto della situazione: essendo più pericoloso ritornare sui propri passi non si può che procedere (la decisione di ascendere lo Snaefell risulta così irrevocabile, la scelta è stata già fatta a valle), ma bisogna dare alla volontà di proseguire un minimo di coesione che la mantenga, per quanto possa essere sottoposta a pesanti sollecitazioni, sufficientemente compatta. Ecco allora un'esile

"corda"
da intendersi forse in senso allegorico come un filo di energia positiva che lega al "capo" (inizio della corda stessa e luogo decisionale della persona) la volontà dei ragazzi. Di questi ultimi ci vengono cursoriamente accennati pochi tratti caratteriali:
- il senso pratico e l'atteggiamento positivo di Konrad
- la voglia di ricercare il mistero dietro ai fatti di Thor (il cui nome rimanda ovviamente all'autore)
- l'intellettualismo riflessivo di Olaf
- lo scetticismo di Gustav
- il fatalismo venato di una intima e profonda certezza del capo.
Nel racconto si accenna più volte a presenze sovrannaturali: i raggi di sole che simili a quelli di Aton protendono i loro "palmi" di luce in aiuto di ciascuno dei ragazzi; il misterioso angelo di Thor, che ne orienta immediatamente la volontà senza bisogno di parole; la menzione – che il narratore fa – del guardare oltre alla fisicità delle cose degli antichi poeti nordici.

Il capitolo I si conclude con un riferimento alla leggenda del monaco irlandese Brandano, esploratore dell'ignoto, dell' "al di là"; c'è infine il primo brano di tono epico con la kenning della colonna di cristallo (interpretabile come metafora di una trasparenza della volontà che può essere ottenuta con un freddo esame della ragione, la quale però al tempo stesso subisce il calore dei sensi che possono incrinare e disciogliere la compattezza della volontà, galleggiante per altro su un mare che rappresenta l'alterità/realtà in cui ciascuno di noi è immerso). Gli albatri color nebbia, uccelli dal significato sinistro per i naviganti, rappresentano con il loro bianco inquietante e sporco, un colore senza calore, ed ancor più con gli echi certo non tranquillizzanti dei loro versi, la paura dell'ignoto (che Brandano affrontava sostenuto dalla fede: per cui gli era ignoto più il percorso che la meta), paura che può inibire la volontà di affrontarlo e renderlo quindi noto.
Il capitolo II ci porta in avanti di quindici anni, rispetto al tempo della scalata. Johansson continua ad usare l'inquisitiva seconda persona. La scena è qui statica, rispetto a quella pericolosamente in movimento del I capitolo. Anche la descrizione del paesaggio, degli elementi naturali, ci suggerisce una situazione psicologica di distacco e meditazione. C'è tuttavia in latenza una progettualità, una voglia che le cose accadano, simboleggiata dai due desideri implicitamente formulati vedendo cadere le stelle in quella che potrebbe essere la notte agostana di S. Lorenzo (richiamata per altro da un riferimento geografico: l'omonimo fiume canadese). I due desideri sono conciliabili? Non ci è dato di saperlo, anche se forse lo sono in maniera problematica, come lo è ogni convivenza o ogni scelta (che è in fondo sempre esclusiva di qualcosa).
In questo capitolo c'è una sorta di velato elogio della solitudine meditativa: la lontananza quasi astratta dalla città natale (Akureyri) rimanda ad un distacco ormai da tempo avvenuto dal mondo dell'adolescenza. L'apparizione del falco dà un senso a questo distacco, recupera nel passato i valori che hanno formato la personalità di Johan e dà a questi una prospettiva nuova. È interessante osservare che il falco (simbolo dell'anima viscerale) non parla direttamente (i suoi versi risultano incomprensibili a Johan), ma scrive: c'è quindi un'ulteriore mediazione culturale (quella della forma scritta di un linguaggio orale) fra il rapace e il capo ormai adulto. Per altro le prime frasi il falco le scrive in una lingua ignota: Johan comincerà a capire qualcosa solo quando il volatile scriverà in tedesco (un'importante lingua "filosofica").
Al capo, alla ragione, il falco rivela che ha relegato il cuore, i sentimenti, al di fuori della sua vita, compromettendo la sua stessa esistenza.
Il falco comunica poi a Johan che tutto sta nelle sue mani, ma le sue mani non lo possono pensare. Le mani rappresentano, credo, le facoltà attuali del capo, la sua capacità di interagire, in maniera più o meno attiva (non a caso, come vedremo, esse possono subire variazione dimensionali) con la realtà: l'azione morale è sempre un atto della volontà che sceglie, ma le mani in quanto strumento dell'azione non pensano e non possono intervenire che su una porzione limitata di mondo (assai più limitata di quella potenzialmente accessibile al pensiero che ambisce all'eterno e all'infinito, pensiero che vorrebbe far star tutto all'interno della sua attività immaginativa la quale, se solo riflette su sé stessa, si scopre comunque limitata).
"Tutto può stare nelle tue mani" (secondo il pensiero), "ma le tue mani non lo possono pensare" (la mani simboleggiano la relativizzazione del pensiero agli atti concreti, dell'ideale al reale).
Quando il falco lascia la spalla sinistra (i lato del cuore) di Johan, lo libera in fondo da un peso (che è quello di una meditazione fine a se stessa che può tramutarsi in accidia): a questo punto la volontà di Johan, avendo acquisito per merito del falco una maggiore consapevolezza, può agire nel reale con una più concreta incisività. Ma è necessario anche un recupero della propria storia: a questo punto Johan riattiva sezioni della memoria che lo portano a considerare con una profondità visionaria il suo cammino umano.
Johan ritrova in una sorta di sogno il suo cuore (il falco) che ora gli parla di magiche rune, di segni che vanno interpretati (assunti costitutivamente in sé) per dare nuovo senso, nuovo impulso alla sua esistenza. Nel sogno Johan si riappropria della sfera emotiva e si trova a volare come il falco su una foresta (quella dei problemi, degli ostacoli, delle prove non privi comunque di un misterioso fascino) che si apre in un'ampia radura. Nella radura è incastonato un laghetto, immagine più grande dello specchio-catino che Johan aveva creato con le sue mani in seguito ad un improvviso acquazzone. Sul lago una ragazza sembra aspettarlo e lo accoglie in seno: ora il cuore palpita caldo poi riemerge la parte razionale e fredda che conclude il sogno.
L'autore, raccontandoci il sogno di Johan, abbandona la seconda persona per la terza. Al risveglio il personaggio Johan si ricorda a sua volta di un sogno che aveva fatto da ragazzo: il teschio che prendeva vita e gli parlava in una lingua sconosciuta (Johan non era ancora in grado di capire a fondo certe cose) e la rilettura nel testo greco (la lingua utilizzata dai LXX per diffondere la Bibbia nella diaspora ebraica) del capitolo 37 di Ezechiele: la visione profetica della rinascita di un esercito sconfitto di cui restano solo le ossa proietta il lettore in una dimensione che sublima anche le realtà più prive di speranza, se si crede in una costante, a volte nascosta, a volte imperscrutabile e incomprensibile presenza di Dio nelle cose del mondo.
Il capitolo II si conclude con uno stato di quiete, il capitolo III è preceduto da un secondo brano di tono epico: una tempesta (la rabbia di Thor) di nuvole scure, vento e lampi squarcia il cielo (il campo di Balder). In questo capitolo la meditazione di Johan su sé stesso (che continua con un certo distacco ad usare la III persona) si distende e poi si passa di nuovo alla II persona, dove Johan si vede come un contenitore in qualche modo passivo di rapporti, di persone incontrate, di storie in qualche modo costitutive della sua realtà. Ma il processo di analisi è solo all'inizio: Johan deve passare per la notte interiore, deve percorrere la grotta della Sibilla e mettere in gioco la sua scienza che vorrebbe essere provvidenziale, mentre risulta ancorata al tempo comune a cui l'autore fa subito ritorno (in prima persona) raccontandoci del suo viaggio in Piemonte. Il brano che conclude il capitolo ci presenta in estrema sintesi la genesi universale secondo la mitologia nordica.
Il capitolo IV è il racconto che Johan ci fa del ritorno al paese di Alba e di una visita a una pieve che ci riporta ancora una volta in una dimensione spirituale e simbolica: le pietre sono cariche di figure allegoriche, di segni che dopo secoli sono ancora lì a dirci qualcosa se abbiamo una chiave per interpretarli. Il capitolo si conclude con una fugace apparizione della Sibilla che stimola Johan a fare chiarezza: qui è ancora una volta presente un distanziamento da sé rappresentato anche dall'uso della III persona. Il freddo esame della ragione viene richiamato dagli icebergs di Hymir che - come si è già detto - possono perdere di consistenza se intaccati dal calore solare di Balder.
Il capitolo V ci racconta la prova classica del labirinto: Johan è in cerca del suo significato ("sai cosa significa il tuo nome?", gli chiede la Sibilla): per trovarlo deve attraversare la notte, intraprendere un cammino che non avrà ritorno ("Ci rivedremo?", chiede Johan alla Sibilla che gli risponde: "Non ora, non qui" - che ci ricorda anche un bel libro di Erri De Luca) se non, eventualmente nel ricordo: "Vorrei … ritrovare i miei passi." dice Johan e la Sibilla gli suggerisce di interpretare i segni (le rune): quei segni possono fornirgli anche appigli per la memoria che deve essere ordinata con un atto della volontà ("Dipende da te.") altrimenti i fatti e gli eventi non saranno per lui che un ammasso di detriti (l'immagine della parete di roccia crollata).
Johan inizia dunque a percorrere il labirinto, un viaggio ("uno dei più tristi piaceri della vita" secondo M.me de Staël) a cui è stato quasi costretto dalla constatazione che la mano sinistra si era rimpicciolita (c'era dunque una situazione di disarmonia, di disequilibrio che doveva essere affrontata). L'inizio è illuminato dalla ragione (la torcia), ma per proseguire gli è necessario spogliarsi (c'è un sfilamento del maglione che rappresenta però al tempo stesso anche un cordone ombelicale, un collegamento con le proprie radici, quasi un loro lento recupero), cioè rinunciare alle solite maschere quotidiane, se vuole accedere al nocciolo della sua anima. La scelta del percorso è lasciata a un "caso" condizionato dalla riflessione (la "testa" della moneta: Johan tende quindi ad escludere scelte puramente emotive). Johan si troverà infine schiacciato in un utero di roccia dove il lume della ragione non ha un ambito in cui agire (quasi come un feto che si faccia strada per venire appunto alla luce). Un fondo oleoso, un gocciolio lontano, il suo respiro difficoltoso, la ricerca senza - apparente risposta - di senso: "Sibilla dove sei?"), una folata di aria fresca che preannuncia la grande caverna in cui precipiterà: si tratta di una rinascita, di una rigenerazione, verso una meta desiderata ma non del tutto certa.
Il capitolo si conclude con una descrizione dell'albero dell'universo umanizzato: Yggdrasil che affonda (come Johan, come tutti noi) le sue radici nell'humus della materia e di uno spirito implicito in essa che comunque la trascende, e nutrendosene cresce sia fisicamente che spiritualmente, agisce e acquisisce una sempre maggiore consapevolezza di ciò che in lui si riassume.
Il capitolo VI è quello che si domanda il senso dell'implicazione più rigorosa della logica:
"se e solo se A allora B", significa che A e B si implicano vicendevolmente, ma la domanda che qui viene posta è la seguente:
se questa implicazione reciproca è data, perché è data? (C'è qui pure una questione di identità: "se e solo se A allora B" significa qualcosa come "A equivale a B")
Applicata al caso particolare:
Chi è Johan? Perché si trova implicato nel ventre della montagna? Perché è giunto in una grande e meravigliosa caverna? Perché questa gli gira attorno in un vortice rumoroso come il maglio di un fabbro gigantesco (Thor)? Perché una insostenibile benché parcellizzata energia luminosa lo acceca e minaccia di distruggere il suo corpo mentre il suo spirito si chiede un'ultima volta "perché"?
Come fosse ritornato da un viaggio sciamanico (che lascia anche segni fisici sul suo corpo: il bernoccolo, il dolore alla gamba), Johan si ritrova in un racconto che ora può interpretare come profetico.
"La ¯" sembra scritto da una intelligenza che dà senso a una materia spiritualizzata attraverso la luce. Questo racconto è preceduto da una sorta di prefazione ricca di suggestioni: la metafora della riflessione (sempre in qualche modo deformante: dallo spagnolo si passa all'italiano, dalla I persona alla terza; "Yo estaba muy cansado en mi cuarto", vs. "Era molto stanco nella stanza"), l'evoluzione (in senso teilhardiano, forse) di spirito e materia ("el espíritu se desarrolla conjuntamente a nuestro cuerpo"), il realismo inerte (che forse invoca uno spiritualismo attivo), la frammentarietà dell'espressione che è già quella delle forme o idee relativizzate al soggetto ("fantasías de mentes o situaciones particulares"), la necessità, per lo spirito, della solitudine ("cuando somos demasiado solos el corazón se va a la busca de algo más, de algo espirtual") che se priva di carità può però portare all'atarassia ("estaba convencido que la indiferencia es inhumana"), l'uso di termini non solo matematici quali "radice" e "esponente".
La ripetizione del titolo "La ¯" dà inizio al racconto vero e proprio della stanza della riflessione. Il riferimento alla porcellana del lavabo col termine inglese di "vitreous china" rimanda alla lingua cinese (la più parlata al mondo) in cui scrisse inizialmente il falco (v. nota 7).
I pomelli di ottone hanno tre punte che rimandano al triangolo della significazione: significante (parola scritta o parlata) - significato (la rete di senso abbinata nella mente a quella parola) - referente (la cosa, funzione o situazione del mondo reale a cui la parola fa riferimento). Si parla di incrostazioni d'uso: l'uso del linguaggio tende ad alterare nel tempo e nello spazio tutti e tre i componenti del triangolo, che però solo grazie all'uso condiviso e diffuso possono essere mantenuti più stabili. Il cambiamento è comunque inevitabile: ad esempio la parola "biscia" deriva dal latino "bestia", con alterazione del significante (da "bestia" a "biscia"), del referente (che è stato ristretto dalla classe generica degli animali ad una sottospecie di rettili) e conseguentemente del significato.
Il tubo dell'acqua corrente è forse una metafora del processo comunicativo. Lo specchio ci riporta al piano razionale-spirituale della riflessione. La luce naturale viene qui descritta in modo materico come una "lattea corpuscolarità", quasi fosse la sublimazione spirituale della materia stessa. I tocchi un po' squallidi (lo sciacquone di ghisa scrostata, il calpestatissimo tappetino, la tendina sbrecciata della vasca-doccia, il colore scialbo delle mattonelle di linoleum, la luce opaca e tremolante del neon, ecc.) conferiscono alla stanza una concretezza terrea che si contrappone all'essenza quasi solo mentale rappresentata dal volto, un viso che sembra sgretolarsi per lasciare libera la sua intelligenza, fra quattro pareti bianche (la somma di tutti i colori dell'iride), di immergersi nella finestra materialmente impalpabile della riflessione.
Lo specchio rivela forse in questo caso un narcisismo dell'intelligenza, da non considerare però solo nelle sue valenze negative, ma anzi come un necessario processo di autoanalisi che deve comunque aprirsi al mondo. Questo è quanto viene richiamato dal brano di tono sapienziale che chiude il capitolo: la saggezza bisogna portarla per strada, direi quasi applicarla al cammino che ognuno di noi ha da compiere, il suo peso è leggero, la sua utilità palese, eppure se usata in maniera egocentrica non può dare felicità perché rivela continuamente al soggetto i suoi limiti.
Il capitolo successivo è numerato col IV romano, il ribaltamento simmetrico del capitolo VI che precede il racconto bicipite de La ¯, racconto perno, col suo specchio, di tutta la struttura del libro. Qui alla ragione (la Sibilla) viene chiesto un giudizio morale sui fatti: lo scetticismo indifferente di Pirrone può giocare con le parole, non con i fatti: la sua astratta seduzione viene sconfitta dalla seduzione reale della carità (un amore operativo): l'anima dell'autore si appresta a vivere una trasformazione, o semplicemente una crescita: la proiezione dell'anima sul ponte crollato ha nostalgia del suo corpo, trascurato negli affanni della vita sempre tesa come una freccia alla ricerca di un bersaglio che non si riveli illusorio. Il corpo è stanco, l'anima è sola, il mondo attende. L'angelo è l'anima illuminata dalla carità che si apre all'altro, dalla verità che svela le apparenze, dalla speranza necessaria per dare spessore il nostro piccolo tempo: tutto questo è rivelato dal passo che ci allude, in chiusa al capitolo, al fallimento delle prove di Thor.
(...)
L'abside, la parte terminale della chiesa, contiene un affresco del giudizio universale in cui sono raffigurati i sogni e gli incubi della vita umana: sia Alba che Johan raggiungono uno stato di concentrazione tale che ne fa quasi due personaggi eterei, come fossero immagini anche loro impresse su un film che il lettore fa scorrere sotto i suoi occhi mentali. (...)



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Recensione

(di Tommaso Labranca nell'archivio del sito www.labranca.co.uk)

Alessandra Carnaroli mi scrive in e.mail e mi chiede: posso mandarti un mio libro?
Io rispondo: certo che puoi.
Il libro mi arriva. Lo sfoglio. Ma non riesco mai a leggerlo tutto.
Alessandra mi scrive ed è un po' delusa. Perché non mi dici niente del mio libro?
Io mi scuso, continuo a scusarmi e un giorno non ne posso più di scusarmi e prendo il suo libro e lo leggo.
Appena finito le scrivo questa e.mail:
"So che ti sembrerà incredibile, ma oggi pomeriggio sono finalmente riuscito a leggere dall'inizio alla fine il tuo libro, invece che saltando da una pagina all'altra come avevo fatto in precedenza. Per prima cosa mi chiedo: come mai hai voluto che lo leggessi? Non sono un esperto di poesia come può esserlo invece Aldo Nove. Ma sono comunque contento che tu me lo abbia mandato, come sono contento del tuo desiderio di avere un mio parere, desiderio espresso dalle tue mail di bambina delusa e io qui che mi sentivo un verme, schiacciato dagli impegni più stupidi,
rimandando sempre il giorno della lettura completa. Ma adesso il giorno è arrivato e la lettura c'e' stata. Cosa posso dirti? Non aspettarti nulla di simile a quanto hanno scritto la tua prefatrice e il tuo postfatore. L'ultima cosa che farei per parlare delle tue poesie è mettere di mezzo Nietzsche. Io dietro le tue parole non vedo parole d'altri, ma sento un luogo diverso da quello in cui sono vissuto io, una luce e un'ombra diversi, altre case e altre persone e una merce che invece è l'unica cosa che ci unisce al di là delle distanze geografiche e generazionali. La nostra koinè non è Nietzsche, ma la patatina Pai. Ecco perché le tue poesie mi sono piaciute.
Quelle che ho amato subito sono state quelle in cui più eri bambina: carta per manzo, bambino di latta, sotto il lenzuolo... con quel finale da brivido "abbasso lo sguardo e abbasso l'inter" cosa non sono quei due versi messi lì, c'è l'universo dentro, c'è la mente dei bambini e di chi è rimasto bambino nella psiche (quindi la mia mente) su cui anche le cose estreme, le tragedie scivolano, si dissolvono e l'attenzione passa repentina al marginale, al non-utile, al futile, alle cose che appassionano. E poi "Mi chiamo Candy Candy". Ma la mia preferita tra le preferite è oggi "Quando schiaccio uno scarafaggio!"
Anche le più adulte: "Quando ti sdrai sul divano" e "Adamo quel ramo e Piervito t'invito" che potrebbero essere cantate come romanze borghesi di tardo ottocento, scandalizzando i borghesi naturalmente.
Appena avrò il tempo di farlo aggiornerò il mio sito e metterò queste righe che ti scrivo anche lì, così tutti sapranno che a Piagge risiede una grande poetessa!"
 

Come vedi e senti
conservo,
congelo
surgelo.
Grasso
e calorie:
le verdure fresche
fanno troppo luce,
la carne rossa mi chiama
a voce alta.
Meglio il frigorifero
con i baffi
gelati
del vecchio e vero
capitan findus.


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