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Gianfranco Bertagni. Architetture Utopiche

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Il nome di una privazione

Intervista a Daniele Borghi autore di
Pinocchio non abita più qui

Come autore cosa puoi dirci del tuo nuovo romanzo?

Scrivere Pinocchio non abita qui è stato molto complicato. Non perché la trama sia particolamente intricata o perché l'indagine psicologica sia stata particolarmente profonda. La difficoltà è stata tutta nella scrittura, nel cercare di capire come far parlare gli adolescenti tra loro, con gli adulti, con le persone che conoscono e con quelle che incontrano per la prima volta. Nei diversi momenti della vicenda i protagonisti passano da un italiano corretto ad uno che devasta i congiuntivi o a un romanesco più o meno greve. Ho passato molto tempo a rivedere i dialoghi. Per quanto riguarda la voce narrante ho cercato di proporla a volte ironica e altre volte partecipe. Ciò che mi premeva di più era differenziarla dai dialoghi dei ragazzi nella maggiore misura possibile.
È stato un esercizio di equilibrio piuttosto complicato. Spero che il romanzo arrivi ai lettori come in un contrappunto musicale: una lingua parlata, maltrattata e usata come strumento di mera comunicazione da una parte e dall'altra una lingua più formale ma non per questo fredda.
I punti di riferimento di questo libro sono due, e talmente diversi e distanti uno dall'altro da sembrare incompatibili.
Secondo la mia sensibilità di lettore, gli autori che meglio degli altri hanno scritto dell'adolescenza sono Stefano Benni e Pier Paolo Pasolini.
Benni ne ha tratteggiato il lato umoristico, onirico e iperbolico; Pasolini quello drammatico, quello dell'emarginazione e della violenza latente.
Forse sono degno di essere frustato, ma in questo libro ho cercato di unire queste due diverse visioni.
È ovvio dire che in nessuna vicenda umana compare solo il lato umoristico o soltanto l'aspetto drammatico, proprio per questo mi è sembrato giusto, quasi inevitabile, fare da ponte tra questi due sguardi sull'adolescenza. Sul risvolto di copertina c'è scritto che Pinocchio non abita più qui è una favola hard. Anche se la parola hard ormai richiama inevitabilmente il porno, credo sia stato giusto usarla e farlo nell'accezione letterale del termine e cioè dura, difficile, impervia.
Nauralmente la favola è riferita al mondo di Benni e hard a quello di Pasolini.
Io credo che nella scrittura si possa e debba usare soltanto ciò che si conosce. Per questo, oltre a questi riferimenti letterari, "Pinocchio" deve molto anche alla mia esperienza di vita trascorsa per quasi trent'anni proprio nei luoghi in cui Pasolini ambientò "Ragazzi di vita" e "Una vita violenta".
Se alla fine è venuta fuori una specie di lasagna alla confettura di ribes o delle albicocche sciroppate al pesto, saranno i lettori a dirlo. Per ciò che mi riguarda credo di aver fatto il meglio che potevo.

Hai degli scrittori di riferimento, degli autori che senti particolarmente vicini o che pensi abbiano influenzato il tuo modo di scrivere?

Degli autori che mi hanno formato ho in parte già detto parlando di Pinocchio.
Detto questo, credo sia molto difficile sapere chi o che cosa abbia influenzato la mia scrittura.
È sicuramente più facile capirlo da lettore che non da autore. Le cose che veramente e profondamente incidono sulla mia scrittura, come credo su quella di tutti, sono molto difficili da individuare. Se riesco ad assimilare in profondità uno scrittore, lo sento così "dentro" da non riuscire più a percepirlo come estraneo, e neppure vicino. Diventa parte di me e forse la mia scrittura ne risentirà, ma non sarà un influenza cercata, sarà un riflesso del suo mondo nel mio che produce frutti diversi dai suoi e da quelli che erano i miei prima di leggerlo. Gli echi diventano così profondi, distorti e irriconoscibili da non poter essere individuati.
La bellezza delle arti credo sia proprio questo: lasciarsi penetrare da un mondo, osservarlo con gli occhi dell'anima, lasciare che fermenti in qualche cosa di diverso e poi rimetterlo in circolazione.
Se fossi costretto a nominare uno scrittore da cui credo di aver imparato qualcosa (che è molto diverso dall'esserne influenzato), citerei una scrittore che farebbe inorridire la maggior parte dei lettori "colti".
Va bene, lo dico: Stephen King, il re del romanzo d'evasione, commerciale, horror, splatter, trash e tutto il peggio che si dice di lui. Se non l'avete ancora fatto, leggetevi Stand By me, Misery, Dolores Clayborne, Le ali della libertà (tanto per citare qualche titolo) e poi voglio sapere se non vi si saranno sgretolati un po' di luoghi comuni sul suo conto. Quando avete finito fatemi sapere se conoscete qualcuno che sa guidare, indirizzare e concludere una storia meglio di lui.

Cosa vedi nel tuo futuro di scrittore?

I miei progetti futuri? Per quanto riguarda la scrittura sarebbe già una gran fortuna averne. In un paese farcito di letame come il nostro pensare di scrivere e farlo come lavoro è come pensare di avere il sistema per vincere il SuperEnalotto. Quasi tutte le grandi case editrici non si degnano neppure di leggere i manoscritti che arrivano loro (non è una illazione, se non ci credete guardate i siti internet di Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, ecc. ecc.) e le piccole non hanno modo di conquistare uno spazio in libreria.
In un paese che si nutre di grandi fratelli, isole e fattorie a chi può interessare uno che si scervella per trovare una linea di scrittura che sia coerente con il romanzo che sta scrivendo? E oltretutto senza essere profumatamente pagato. Sarebbe quasi il caso di tenere nascoste queste pericolose inclinazioni, nel renderle pubbliche si rischia di veder revisionata la legge Basaglia.
Mi si chiederà: allora perché scrivi?
Potrei rispondere in molti modi, tutti ugualmente falsi e ugualmente veri. Mi limiterò a quello che sento meno roboante.
Perché mi piace farlo, perché mi ostino a schifarmi di quanto vedo e riesco ancora a sperare che il futuro sia migliore del presente.
Sarà una cosa grave?

(Fara Editore, giugno 2005)

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