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Gianfranco Bertagni. Architetture Utopiche

Il libro

Intervista a Daniele Borghi
autore de Il nome di una privazione

Quanto si riflette Daniele Borghi in quello che scrive?
Per uno scrittore che non si riflette in quello che scrive credo che la
diagnosi più corretta sia quella di schizofrenia. La sola alternativa
potrebbe essere data dal compenso: se un autore è pagato a cartelle può anche scrivere cose che non gli appartengono, ma in quel caso la sua produzione non può essere considerata scrittura e, tantomeno, letteratura. La scrittura è la più libera delle arti. Non occorrono attrezzature o materiali, produttori o sponsor. Chiunque si accomodi davanti ad un foglio bianco e si lasci condizionare da elementi estranei al suo sentire non può essere preso in considerazione come autore.

Cosa puoi dire del Daniele Borghi come persona?
Sono disgustato dall'arroganza del potere. Amo chi mi fa sorgere dubbi e ho una pessima disposizione d'animo per gli integralisti di qualsiasi credo, verso quelli che sono convinti di essere il centro gravitazionale dell'universo e verso i carrieristi ad ogni costo. Naturalmente i miei piaceri più grandi sono la lettura e la scrittura, ma forse non c'era neppure bisogno di dirlo. Queste mie passioni mi portano inevitabilmente a coltivare la solitudine e questo, a volte, viene frainteso.

Quali sono gli aspetti della tua tua sensibilità che ti hanno portato a
scrivere? Che senso ha scrivere per te?

Per scrivere occorre soltanto avere voglia di farlo. Non credo che sia
necessario avere una grande sensibilità o aver avuto particolari
esperienze. Certo, se si è in possesso di questo binomio, i testi hanno maggiore respiro e spessore e, più in generale, si riesce a trasmettere qualcosa. Naturalmente non sta a me dire se nei miei testi compaia questa specie di "marcia in più", posso soltanto sperarlo. Per me scrivere èormai una abitudine irrinunciabile. Probabilmente all'inizio era solo un modo per per gridare la mia esistenza in vita, ma adesso è qualcosa di diverso. Ora la definirei una esigenza.

Come si sono venute elaborando l'ambientazione e la trama di questo che è il tuo primo libro su carta?
Chiunque abita in un grande centro non può evitare di entrare in
contatto con persone senza fissa dimora. Naturalmente i sentimenti che suscitano questi incontri sono diverse per ognuno di noi. A me, come era inevitabile, hanno spinto verso la scrittura. Volevo parlarne, volevo in un qualsiasi modo affrontare l'argomento, anche perché nessun altro sembra aver voglia di farlo. L'unica occasione in cui si parla di queste persone è quando c'è qualche giornata di freddo intenso, per il resto nulla. Vengono realizzate intere trasmissioni televisive per far adottare cuccioli di anilmale, per questi uomini neppure una parola.
Anche se le stime sono diverse a seconda della fonte che le esprime, soltanto in Italia ci dovrebbero essere non meno di sette-ottomila di queste persone. È un numero enorme, e nessuno ne parla. La trama, i personaggi e l'intreccio vogliono porre il lettore davanti a questa realtà. Si può non essere d'accordo con i metodi usati dal protagonista, ma almeno lui affronta il problema, non gira lo sguardo dall'altra parte.

Quali sono gli autori che senti più vicini e quelli che ti hanno formato?
Sono convinto che ogni riga che ho letto abbia in qualche modo
aiutato a formarmi. Più che di autori io mi innamoro di libri. A memoria ti faccio una specie di Hit Parade.
"La famiglia Winshaw" di J. Coe. "Morte a Venice" di R. Bradbury, "Una stella di nome Henry" di R. Doyle, "Seminario sulla gioventù" di A. Busi, "Preghiera per un amico" di J. Irving, "Saltatempo" di S. Benni. "Il lamento di Portnoy" di P. Roth e "Hey tu, Baby" di M. Leyner.
Ecco, se dovessi in cinque minuti scegliere dei libri da portare in un
viaggio interstellare prenderei questi. Di sicuro, appena a bordo, mi
dispererei per averne trascurati altri, ma i primi titoli che mi vengono in mente sono questi. Come vedi sono libri molto diversi tra loro e non so darti un motivo preciso per cui io li ami così tanto. Quando leggo, contrariamente a ciò che faccio quando scrivo, mi lascio molto trasportare e non indugio nella riflessione. Me la godo e basta.

C'è un lettore tipo che pensi possa maggiormente entrare in sintonia con le storie che racconti?
Francamente non lo so. Rispetto a questo posso soltanto esprimere dei desideri. Spero che un lettore che si sazi del mio libro sia una persona sensibile, una persona intellettualmente onesta e che tragga piacere dalla lettura. Qualcuno che si lasci prendere dalla storia, dai personaggi e che, arrivato alla fine, si ponga delle domande. Io non ho intenzione di dare delle risposte, sarei felice se i miei testi riuscissero a porre delle domande. Mi rendo conto che un obiettivo del genere sia molto ambizioso, ma credo che sforzarsi di raggiungere un risultato difficile sia più meritevole che arrivare ad uno di profilo mediocre.

Viste le difficoltà di farsi leggere se non si fa parte di un certo
giro, se non si viene pubblicati da editori grandi o medio grandi,
perché pubblicare un libro?
Questa è una domanda che anch'io potrei rivolgere a te. Sei un editore che non appartiene a quelle due categorie eppure non mi pare che tu abbia voglia di smettere. Comunque la tua domanda ha una risposta molto semplice: lo si fa per passione. E perché, forse presuntuosamente si spera comunque di ottenere attenzione.

Ci sarà un futuro per il libro tradizionale?
Chiedersi se il libro potrà aver un futuro è come chiedersi se l'umanità avrà ancora voglia di pensare. Certamente i segnali che arrivano dalla società non sono per nulla incoraggianti, ma ad essere pessimisti non si combina mai nulla. E poi, come dicevo prima, è la passione che ci spinge, l'amore per la lettura e per questi strani oggetti di carta che sono i libri. Il loro odore quando sono nuovi e li apri per la prima volta, le emozioni che sanno regalare, le ore di assoluto estraniamento che a volte capita di incontrare leggendo... Chi può fare altrettanto?

Come si può appassionare alla lettura almeno una parte del mondo
giovanile?

Se la lettura è un attività poco praticata dai giovani la responsabilità è sia della scuola che delle famiglie. Come può un adolescente appassionarsi alla lettura con ciò che gli propongono i programmi scolastici?
Ho una figlia che fa la seconda media e vorrei che qualcuno mi spiegasse come può affrontare un libro con atteggiamento giocoso quando le fanno imparare a memoria tre pagine di Divina Commedia. Potrebbe farlo soltanto se fosse colta da una specie di Sindrome di Stoccolma, non vedo alternative. Il mio non è un giudizio di valore sulla Divina Commedia. Quello che voglio dire è questo: affrontare a dodici anni un opera come quella è come dire ad una vecchietta che è andata in montagna per le vacanze che
il programma è stato rivisto, niente passeggiata ma la parete nord del Cervino.
A questi ragazzi servono storie che li appassionino, magari anche
scritte male, non importa, per apprezzare la qualità della scrittura c'è tutto il tempo. Ciò che occorre è che comincino a vedere il libro come un luogo di divertimento, di spazio personale, di tempo libero usato bene, di godimento psichico.
Oltre a questo, come dicevo prima, le famiglie.
Se un ragazzo vede i propri genitori rincitrullirsi davanti alla televisione in ogni momento libero, come potrà venirgli in mente di
leggere? La televisione è più comoda. I programmi sono predigeriti e gli spot ti danno anche amorevoli consigli sui prodotti da acquistare.
La voglia di leggere e la curiosità intellettuale sono come l'altruismo: non sono innati, hanno bisogno di essere stimolati.
Quando si hanno tre anni tutto ciò che si vede ha un solo nome: MIO. Poi con il tempo e qualche esperienza si comincia a dire nostro. La curiosità intellettuale credo funzioni allo stesso modo. Ridere leggendo un libro è la migliore pubblicità che si può fare alla lettura.
Se i ragazzi avessero in casa qualcuno che lo fa credo che le librerie
aumenterebbero notevolmente le loro vendite.

(Fara Editore, marzo 2003)

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