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AA. VV. Le voci dell'arcobaleno

 

Verrà l'anno

recensione di Brunella Bruschi

Il libro nasce una sera dell’ultimo dell’anno, o così perlomeno si intuisce leggendo, quando i fuochi d’artificio impazzano nel cielo in un caleidoscopio di colori e gli animali spaventati fuggono via, quando si sta insieme e si mangiano dolci vivendo un diverso ritmo del tempo. C’è una sorta di interruzione del tempo e dello spazio consueti tra un anno e l’altro, un tempo indefinito, uno spazio interiore: “Sembra / abbia attraversato / l’intero millennio / anziché l’istante”. Si fanno progetti per il nuovo anno, si percorrono con nostalgia i ricordi, si fa un bilancio del passato, dei nostri affetti, di come siamo cresciuti o rimasti noi stessi, della fatica di vivere e della nuova energia che ci si prospetta nella festa. Vera, però, resta un po’ in disparte, come sempre: “Io dentro avevo un cuscino / ed ero contenta di non dover uscire / e dire che bella tutta questa lucentezza”. Resta in disparte per ascoltare più a fondo il suo cuore in questo momento particolare “e / pensare ma che era quel/ pungolo da una parte del / cuore che per sé batteva / con la punta fuori dal tempo?” Solo così, in un tempo diverso, dalla cadenza irregolare, parte la moviola del recupero memoriale che riguarda affetti, case abitate, animali e piante, la scrittura, ed è un percorso a cui Vera non si abbandona del tutto, che è sempre illuminato da una razionale distanza, nonostante i punti di vista siano diversi e tra questi ci sia anche quello teneramente surreale della bambina.
C’è una lieve nostalgia delle cose passate: ”là fuori la luce era artificiale / anche dentro lo era ma io soffiavo / sulla candela le davo l’ossigeno / ed essa viveva viveva.”
Ma c’è anche la voglia di liberarsi delle scorie, di gettare le pentole vecchie, sebbene l’ultimo verso di una poesia reciti: “Tutto non possiamo buttare”. Dunque in questa festa c’è un dentro e un fuori, chi osserva e riflette dal di dentro e un fuori che spia con gli occhi del bosco il personaggio che parla in prima persona: “Il bosco è una casa di occhi/ li vedevo nascosti e mi vedevo a guardarli rompersi dai gusci/ e venire fuori a salutare il giorno / buon giorno la luce lambiva / ogni piccola foglia ogni piccola / fessura.”
E da questo sguardo biunivoco, come un guardare e guardarsi contemporaneamente, parte la girandola dei pensieri, delle considerazioni sull’oggi, sul passato e sul futuro. “Nella mia casa entrano i ghiri”; “Ora nella mia casa c’è posto per le rondini”; “Poi aprirò il cortile ai gatti”; “Se nella casa vorranno entrare le piante / c’è posto anche per loro”. Nel passato, nel presente e nel futuro si proietta la scrittura: “Paroline entrate di voi / mi fido siete sempre sorelle / mi avete visto nascere e poi mi avete / accolta nelle vostre culle di carta… Mi avete detto adesso basta / domani torniamo.”; “Attorno al fuoco invitavo parole / chiamavo le cose ad accompagnarle / nel viaggio ignoto ma tu dicevi / ci metti troppi percorsi dentro / come si può stare in una storia/aperta a tutte le direzioni?”
Le parole sono fidate perché si accompagnano alle cose e poi promettono di tornare ogni volta. La scrittura è il fil rouge che unisce in continuità presente passato e futuro, è una riflessione che continua, e nella prospettiva dell’anno nuovo è come gli affetti e le presenze naturali, un porto sicuro, un esercizio irrinunciabile che ritrae la vita vissuta in profondità, pur nell’incontro-scontro fra due lingue diverse che ulteriormente moltiplicano in un dialogo il discorso che torna col vento al mittente: ”Ora in due lingue da sola/ parlo a non so chi il vento / capisce pare e porta via/ al mittente il messaggio.”
In questi testi, naturalmente, c’è soprattutto una dichiarazione di poetica molto importante: scrivere è affiancarsi alle cose, rappresentarne la verità, come afferma Leopardi nello Zibaldone: “Chiamar le cose col loro nome” e come ci ha insegnato il nostro amico G. D’Elia: “Segreto è l’evidenza delle cose”. Il lavoro della scrittura ci fa crescere, ci fa maturare, non soltanto nel comporre poesia: ”Ci sono momenti in cui cresciamo fuori e ci vedono / ci sono momenti in cui cresciamo dentro e solo / noi vediamo e siamo più grandi di un palazzo…”
Il verso già citato: “ci metti troppi percorsi dentro”, inoltre, fa pensare proprio ad una riflessione che, in questo contesto, accompagna l’autrice sulla scrittura. Fino a questo libro, infatti, la sua è sempre una poetica discreta e sommessa, sobria e vicina alla realtà come questa. Ma ora lei si interroga se nel passato sia stata comunque troppo complessa, per un pensiero che seguiva tutti i suoi possibili snodi contemporaneamente, mentre ora si fa un ulteriore ordine, si osservano dettagli, piccole sfumature di ciò che ci circonda, di ciò che sta dentro di noi. Ogni poesia ha una sua particolare prospettiva e forma, e tutte compongono un discorso compatto e sfaccettato insieme. La poesia nasce per Vera dall’osservazione di un mondo minore, così come il modernismo brasiliano, di cui lei è un’appassionata studiosa, prescrive. Mi viene in mente il poeta C. Drummond de Andrade che Vera illustrò una volta al Merendacolo, a Perugina, e la sua originale poetica.
Nel passato si colloca il ricordo del padre che non c’è più, quello della madre, che è anche il presente, il filo fra la sua terra lontana e lei, un cordone ombelicale a cui si chiede sempre una presenza protettiva, e quello delle vecchie case abitate in confronto alla nuova: “Mio padre ci comprava i botti / ma io avevo paura / che scoppiassero e dal dolore / piangessero e poi di notte / venissero a dirci perché mi avete / da dentro spento il cuore?”
Nei confronti del padre, come sempre, compare una nostalgia pungente, un dolore soave, forse per non aver potuto comprendere fino in fondo il suo tormento, perché è venuto a mancare quando lei era molto giovane.
Ma la pena, qui come in molti altri testi, è stemperata da un’atmosfera un po’ onirica, disegnando lo sguardo della bambina che non sa gioire completamente dei botti, perché le fanno un po’ paura.
“C’è posto per i morti essi possono entrare ma debbono / stare in silenzio come si conviene / ai morti se no cominciano a lamentarsi / e non ho il cuore per tanto dolore / poi a loro le parole come fanno / a uscire da bocche da tanto tempo chiuse?”
Ecco un altro esempio di sguardo dal basso, dello stupore del sogno, che mi fa spesso pensare alla poesia di F. Pessoa, che Vera conosce profondamente e certamente è uno dei suoi autori preferiti.
Alla madre dice: ”La voce della mamma è un lungo filo / che attraversa l’oceano / io ci abito sempre che il telefono suoni/ mamma mi fai entrare un po’ di nuovo / in quel cordone?”; “La mia mamma mi cullava quando ridiventavo bambina / lei sapeva che ero adulta ma stava al gioco / io sapevo che lei sapeva e pensavo / dove mai potrò trovare una mamma / così burlona? Qui compare un ironia lieve che riesce a smorzare possibili toni retorici, che allontana qualsiasi banalizzazione di questo sentimento profondo, del legame con le proprie radici, della nostalgia dei propri luoghi.
Ancora con un tono di bambina si rivolge alla madre: “Per certi bordi cammino mamma / ma guardo bene non ti inquietare / so stare attenta e quasi scivolo/ ma poi ritrovo l’equilibrio / se non dovessi più farcela/ prometto che ti richiamo.”
In questo viaggio della mente Vera rivede le case che ha abitato: una era gialla e tutto dentro di essa era giallo, un’altra nera, ma lei rimaneva impigliata nella notte. Quella di adesso è bianca ed ha fuori un tappetino bianco, perché la casa sia linda per coloro che lei ama. La casa è una tana, un rifugio come per la chiocciola il suo guscio, ma è anche un piccolo tempio per i riti quotidiani che costruiscono gli affetti. Così nel rinverdire ricordi e fare progetti, magari di viaggi, partenze, ritorni, è arrivato un nuovo anno e “Il Natale è alle porte bisogna rifiorire…” per farsi trovare ancora pronti ad affrontarne l’inizio perché quello passato non si sa se sia durato un’infinità o solo un attimo.
A me questo libro è piaciuto molto e ho tentato di raccontarvelo un po’, non tutto per non togliervi il piacere della lettura; mi è piaciuto perché anche rispetto ai precedenti, che pure amo, ha una sonorità e un’essenzialità diverse. Le parole hanno tutte una forte necessità semantica, una propria emergenza, ma c’è una musicalità nuova che le fa anche scomparire dietro ai loro suoni che creano una melodia compatta e sottile. Mi viene in mente che in questo procedimento sia stata utile la lezione di G. Ungaretti, che Vera ha studiato da ragazza ed amato molto. È una versificazione che mi ricorda alcuni testi di C. Kavafis (almeno leggendo le traduzioni) pieni di sobrietà e di leggerezza, pieni di cose taciute dalle parole, ma espresse dalla musica.
Se è vero, come afferma recentemente V. Magrelli, che la poesia è l’arte di dire basta, di concludere e tagliare, e io sono d’accordo, altrimenti ci si parla addosso, ci si rifa il verso, allora questa di Vera è una grande poesia, perchè sa scavare nelle cose e nell’interiorità, senza mai cadere nello scontato, con slancio sincero e tenero pudore.
Voglio concludere con la prima poesia che annuncia subito lo stile dimesso e per la circolarità del libro può fungere anche da conclusione, ricordando un po’ il tono della famosa poesia di M. Moretti “Piove, è mercoledì, sono a Cesena…”: “Pare che piova fuori è il primo gennaio / pare che ci sia festa che scoppino i botti / io qui mi copro bene è freddo / ho costruito una cuccia tutta pronta / per le tempeste adesso nulla / più accadrà che non saprò risolvere / da sola.”

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