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Il libro

v. anche Odissea

Intervista a Helene Paraskeva
La lettura come viaggio immaginario

di M. Cristina Mauceri, University of Sydney

Helene Paraskeva ha esordito in Italia l'anno scorso con la raccolta Il tradegiometro e altri racconti con cui ha vinto la prima edizione del concorso Pubblica con noi indetto da Fara Editore. Con Helene abbiamo parlato del rapporto con il suo paese d'origine, la Grecia e la sua cultura, in particolare la mitologia greca. Poiché Helene conosce bene la letteratura inglese che insegna da diversi anni, mi interessava anche approfondire il suo rapporto con questa tradizione letteraria. Abbiamo anche discusso alcune tematiche e personaggi dei suoi racconti, alcuni dei quali sono spesso degli outsider.

Quando sei arrivata in Italia e quando hai iniziato a scrivere?

Sono arrivata in Italia nel 1974, ma scrivevo già in Grecia dove ho ricevuto perfino il terzo premio dal teatro statale di Salonicco per un opera teatrale in tre atti scritta in greco. Arrivata qui ho continuato a scrivere in greco e poi, piano piano, è avvenuta questa metamorfosi e dal greco sono passata all'italiano, ma non ricordo quando.

Ti consideri una scrittrice migrante?

Sì, abbastanza anche se l'approdo a questa identificazione è un ritorno nel senso che inizialmente non capivo se scrivevo perché ero migrante e scrivevo quindi sulle traversie della migrazione o scrivevo comunque a prescindere dal fatto di essere migrante. Alla fine ho capito che quello che importa è che ciò che scrivi sia autentico e accettato.

Qual è il rapporto tra scrittura e il tuo paese di origine? Anche se non riveli esplicitamente dove sono ambientati, si capisce che diversi racconti si svolgono in Grecia.

La mia location è la mia scrittura. Il mio quartiere è un quartiere periferico in Grecia che ho conosciuto molto bene, ma i quartieri periferici, almeno nel Mediterraneo, sono tutti uguali. Quindi la partenza è da là, ma non lo faccio per dire che questa è la Grecia. È più importante la localizzazione del quartiere periferico mediterraneo. Il mio paese di origine è la periferia e scrivo anche di questo.

La cultura greca emerge anche in figure mitologiche, penso ad esempio al centauro dell'introduzione a Il tragediometro e altri racconti, al riferimento al mito di Sisifo nell'omonimo racconto, vuoi spiegarmi che cosa significa appartenere a questa tradizione mitologica e se e come condiziona la tua scrittura?

Inizialmente è un peso, questi miti mi torturano e mi assillano, perché non posso scappare da questi personaggi, però dopo che li ho rifiutati e allontanati, quando ritornano, sono più amici, perché sanno che io ho 'lottato' con ognuno di loro. Ho messo in discussione ciascuno di loro. Il mito si può usare in due modi, come Eliot o Joyce. Il primo lo usa per controllare la situazione, per contrapporre la storia squallida al mito classico che è sempre brillante, invece Joyce usa il mito come parodia. Il suo Ulisse è parodiato, ma alla fine recuperato. Io mi trovo a litigare con i personaggi mitologici, a parodiarli e a recuperarli.

Veniamo ora al tuo rapporto con la letteratura anglofona che tu conosci bene. Insegni letteratura inglese e recentemente hai pubblicato un libro di testo Global Issues in English Literature, un'antologia che ha un taglio innovativo, perché presenta testi letterari da un prospettiva interculturale. Nei tuoi racconti ci sono riferimenti espliciti alla letteratura inglese, penso ad Eveline di Joyce ne Il Tragediometro, Antonio e Cleopatra in Sisifo e, come mi hai spiegato, nel racconto Golfi, ti sei ispirata in parte al poeta Shelley. Tu sei trilingue, come influisce l'inglese, la tua seconda lingua sulla tua scrittura, che mi pare stringata e coincisa?

Per me la letteratura inglese è una zia che apre la porta e dice 'vieni, accomodati'. Dell'inglese mi piace il modo chiaro di esprimersi con poche ambiguità, ma con ombre perché la scrittura anglosassone è oscura. Sembra un ossimoro, ma io la vedo così, chiara nella sua oscurità. Poi mi piacciono i verbi e odio gli aggettivi.

I personaggi dei tuoi racconti sono spesso ribelli, outsider, diversi, che hanno difficoltà ad essere accettati o ad accettare chi è diverso da loro. In questo interesse per la figura dell'outsider c'è una eco della tua esperienza di greca che si è dovuta ambientare in un paese che, seppur per diversi aspetti simile alla Grecia, è pur sempre un altro paese?

Non è solo la migrazione, io avevo difficoltà a essere accettata anche nel mio paese. Sarebbe ipocrita dire che ero accettatissima nel mio paese.

Nel racconto Quando il bacio hai scatenato la tua vena ironica e umoristica. Hai saputo mettere gli italiani davanti a uno specchio che gli rimanda alcune loro caratteristiche non sempre piacevoli. Mi pare, tra l'altro, che metti in evidenza una delle cose che all'estero si sente spesso osservare a proposito degli italiani: il culto dell'apparenza.

È vero che quello che colpisce molto degli italiani è questo amore per l'apparenza, questa attenzione al vestito in relazione all'ora della giornata, al tempo, al luogo e all'occasione. Gli italiani non sbagliano mai il modo di vestirsi. Questo potrebbe irritare gli stranieri perché denota superficialità. Una persona spende tempo, energia e soldi per apparire. Dopo però capisci che questa è una cultura, la cultura del Rinascimento che ha ricreato e riportato il bello in Europa e quindi li comprendi. Se trovi quel filo, diciamo di Arianna, che può essere amore, condivisione di interessi, un'occasione della vita che ti porta vicino, dentro trovi la persona autentica. Quello che amo degli italiani è la loro autenticità, ma l'autenticità è vulnerabile e quindi fanno bene a coprirla.

Tu ti senti anche un po' italiana?

Sì molto, quando torno in Grecia mi sento italiana e anche gli altri mi vedono come italiana. Ho assorbito l'italianità, cercando di adattarla alla mia personalità, e si vede che non sono più solo greca. Ho mantenuto però, coltivandola, la mia grecità.

Può spiegare in che modo? E spiegare anche cosa intendi per italianità?

Ci si può domandare chi si è, leggere, ricordarsi chi si era e fare una rilettura critica del passato e della cultura. Pochi anni fa ho scoperto una trasmissione per gli emigrati greci in Germania in cui si parlava di come si sopperisce alla nostalgia della Grecia. Quando ti prende, hai bisogno di andare in Grecia e qualcuno diceva: "Io sopperisco così: parto con la macchina e arrivo in Grecia, vado in un locale notturno e comincio a cantare e spacco molti piatti". Se questa è la grecità, io non mi ci identifico. L'identità è una ricerca dell'io tra tradizione e innovazione, fra ciò che ti piace e ciò che scarteresti volentieri. Le parole "italianità", come anche "grecità", sono sostantivi creati da aggettivi, parole pericolose perché mistificabili.

I due uomini del racconto, Il Tragediometro, Sergio e Giorgio, rappresentano due modi diversi di essere greci?

Sono due modi diversi di essere che io non condivido. Per me, ripeto, essere (non solo greci) equivale a una ricerca. L'identità nazionale è un'idea astratta, l'identità individuale è concreta, tangibile, deve trarre spunti dall'identità nazionale, ma non basta.

La tua raccolta di racconti è preceduta da un'introduzione che ha la funzione di invitare il lettore a uscire dai propri confini per entrare in una narrazione diversa. Mi sono domandata chi sia questa strana figura che tu evochi, Gaitàn, mezzo cavallo e mezzo cavaliere, una figura mitologica, un centauro. Gaitàn è definito un viandante, un ambulante con le scarpe deformate, è colui che si sposta, un Ulisse terrestre da dove salta fuori, questo personaggio e il suo seguito?

Inconsapevolemente sono andata a prendere lui perché penso che mi appartenga, però devo dire che quando ero bambina c'erano questi personaggi nel periodo del carnevale che gironzolavano per i quartieri e ballavano. Sono personaggi che appartengono a una tradizione del tutto pagana. Erano come un circo ambulante e attraevano i bambini. Quando sono arrivati i colonnelli, sono scomparsi e dopo che questi se ne sono andati, questa tradizione non è mai stata ripristinata. Quanto al paragone con Ulisse, questi è un uomo raffinato e furbo, mentre in Gaitàn c'è molta animalità, gioia e l'innocenza dell'istinto.

Nel racconto Queen Lady Blue il piccolo Geco, (non c'è' un riferimento a una specie di lucertola che è bianca e che cambia la pelle?) è un travestito, un transessuale in nuce. Una figura che vive tra due realtà sessuali. Gli hai accostato la figura inquietante di Mr Delmaine. Tu lo definisci un colonialista attratto dall'esotico. Non per nulla sposa una mediterranea, poi, con il passar del tempo si crea un suo esotico artificiale, la serra con i cactus. Geco si esibisce nella serra e all'arrivo di Mr. Delmaine non scappa, ma masochisticamente si lascia picchiare. Hai voluto rappresentare il colonialista che maltratta l'indigeno che si rifiuta di abbandonare il suo territorio e vuole che la sua diversità venga accettata?

Anche e non solo. Questo racconto contiene in pari misura la sessualità e la Storia. Volevo raccontare qualcosa di entrambi e che fosse accettato integralmente. Fare la scrittrice che scrive solo racconti politici e sociali mi limita, scrivere solo di sessualità mi sembra che mi tolga qualcosa. Prima del masochismo, c'è il coraggio di resistere, dire "no" e guardare dritto negli occhi.

Il rapporto tra due personaggi nella scena finale è particolarmente interessante. Almeno a livello emotivo sono alla pari, piangono tutti e due e si guardano con odio che tu definisci reciproco e passionale. Cosa vuoi mettere in evidenza con questa scena, l'attrazione per il diverso? In questo caso c'è anche la prevaricazione nei confronti di qualcuno che, più debole e indifeso, vuole stare nel cortile che è di tutti e non solo dell'invasore che vi ha installato la serra. Perché fai intuire l'attrazione esistente tra questi due personaggi?

C'è un'attrazione misteriosa che poi si potrebbe sviluppare nel personaggio più giovane. L'attrazione masochista è il seme dell'attrazione-repulsione che forse comincia a germogliare. Dico forse, ma ciò che non c'è nel racconto non si può inventare. L'altro giorno, quando ho finito di leggere questo racconto in una presentazione pubblica, ho sentito tra gli applausi qualcosa di tiepido, un'accoglienza fredda. Mi sono resa conto che dovevo nascondere la parola odio perché non piace.

Balanzà o l'acacia del tradimento è un racconto sul tema della diversità e dell'esclusione. Vorrei sapere se c'è una leggenda dietro l'acacia del tradimento? L'acacia è la mimosa, un fiore che noi colleghiamo alla giornata delle donne. Forse vuoi fare un'allusione ironica alla mancata solidarietà femminile tra Barbara-Balanzà e le Mattesi che sono tutte straniere?

C'è un albero nel Vangelo collegato al tradimento, l'albero di Giuda che fiorisce in primavera. Balanzà-Barbara rappresenta il "tradimento" della madre con la morte. In fondo, rappresenta anche il tradimento di Barbara verso sé stessa.

Ma l'albero a cui ti riferisci è diverso.
Sì, ma fiorisce sempre in primavera e parla di un tradimento.

Perché cucire reggiseni dovrebbe sottolineare la diversità?

In un'altra occasione, in cui ho letto pubblicamente questo racconto, quando sono arrivata alla parola "reggiseno", alcune persone si sono alzate e se ne sono andate. Il reggiseno scandalizza ancora, tranne che nei messaggi pubblicitari. Solo in questo contesto il reggiseno non scandalizza. E finché scandalizzerà, le mie eroine cuciranno reggiseni. Inoltre, il reggiseno nell'era del femminismo era un simbolo di oppressione. Gira, gira, il reggiseno scandalizza sempre. Allora bisogna mettersi al lavoro e "cucirne" tanti.

Puoi approfondire il significato del giardino del padre di Balanzà?

Il padre di Balanzà è l'altra faccia di Mr. Delmaine. Il giardino è l'altra faccia della serra, la serra è un giardino chiuso. Il giardino del padre di Balanzà è come quello dell'Eden, un giardino innocente. La serra invece è ambigua, molto bella ma artificiale. La serra come luogo della rappresentazione, come l'arte, va benissimo, ma non va adorata, non va idolatrata, non deve diventare una spiaggia esclusiva, un privilegio per pochi, un trofeo.

Golfi è il tuo ultimo racconto che apparirà sul prossimo numero di El Ghibli. Recentemente hai scritto altri due racconti, La vecchia dalla testa mozza e Due porte ha la vita, in che modo questi racconti si differenziano dalla tua raccolta precedente?

Il Tragediometro è ambientato in un periodo storico, mentre questi altri racconti sono ambientati in un tempo mitico. È il mio mito personale, dove i personaggi veri si fondono nei personaggi mitici e viceversa, dove ci sono gli echi della Storia. Però i personaggi in questi racconti sono più dolci anche nella loro violenza. Sono meno intellettuali.

Torniamo al racconto Golfi, la barca ha un ruolo importante in questa storia, inizialmente è un simbolo erotico, personifica l'amante del padre del piccolo marinaio e, in seguito, diventa anche un simbolo materno. Mi domando se questa storia possa essere letta come un rito di passaggio e una iniziazione all'eros?

Sì, è un rito di passaggio e una spinta a maturare prima del tempo. Per me questo racconto ha un significato associato alla vita, alla morte e, come dici tu, all'eros. Anche nel racconto Sisifo, associo la morte con l'eros, me ne sono resa conto dopo. Non so se sia un puritanesimo che non sono riuscita a sopprimere, ma poi perché devo sopprimerlo? L'associazione eros-thanatos non l'ho inventata io purtroppo.

Allora la barca diventa anche una bara, il figlio diventa Caronte.

Sì, è un'osservazione azzeccata.

Non pensi che sia un racconto un po' enigmatico come altri tuoi racconti?

I miei racconti escono enigmatici, non voglio farli enigmatici deliberatamente. Vorrei distinguere l'enigma dalla mistificazione. L'enigma va risolto con divertimento e nel tempo. La mistificazione è manipolazione. Io penso che se abbiamo una cosa da condividere sono gli enigmi. Se il racconto non ha il sapore dell'enigma, è un racconto scritto ad hoc per dimostrare una tesi concepita a priori. Ho sempre in mente l'incontro di Edipo con la sfinge a livello consapevole. Un incontro dove la sfinge fa delle domande. Non è importante tanto la risposta, ma l'enigma in sé, che è una ricerca.

Il tuo intento è far partecipare il lettore attivamente alla lettura del testo, insomma si deve porre delle domande e non leggere in modo passivo?

Mi diverto quando scrivo in generale, se volessi solo esporre le mie tesi filosofiche, antropologiche, o altro, avrei scritto dei saggi non dei racconti. La fiction insomma deve assomigliare un po' alla via. Deve avere almeno quattro o cinque interpretazioni e tutte plausibili. Altrimenti che vita è? Che racconto è? Prendi la barca, per esempio. Per chi vive vicino al mare, avere una piccola barca costituisce la felicità quotidiana, non intendo lo yacht, bensì avere una piccola barca da pescatore. Con questa barca ci si può viaggiare e divertire, vivere insomma. La barca, quindi, rappresenta, il viaggio, la vita, la formazione, gli incontri, l'amore, ma anche il viaggio dentro noi stessi e la consapevolezza. Caronte usa la barca anche per traghettare le anime all'Ades. C'è un quadro di De Chirico, "Il ritorno di Ulisse" (1968), che raffigura Ulisse che sta remando sulla barca in mezzo al mare dentro una stanza. La barca simboleggia anche la salvezza.

E questo quadro l'ho visto riprodotto sulla copertina del tuo libro Global Issues in English Literature. Allora leggere è un po' come fare un viaggio (in barca)?

Sì, il libro è come barca e la lettura è un viaggio.

(in Kúmá/Poetica, gennaio, 04))

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