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Il libro

Intervista di Simone Spallanzani su Stradanove

 

Intervista a Daniele Bottura
autore di Transatlantici di carta

Cosa significa pubblicare in forma di libro per un giovane autore visto che i giovani quasi non leggono più?
Stando coi giovani e lavorandoci, a volte, mi accorgo di quanto sia difficile il percorso personale che porta il singolo a prendersi una responsabilità nei confronti del mondo intorno, anche perché, troppo spesso, il mondo intorno non piace; proprio per questo motivo o per questa mancanza, mi piace pensare che la scrittura - non solo la mia - possa andare incontro a un bisogno comune e diffuso che mette insieme la voglia di parlare di sé e il prendersi la responsabilità di vivere le cose sulla propria pelle. Pertanto consiglio a tutti quelli che ne hanno "bisogno" la pubblicazione di un proprio testo, sicuramente non per elogiare l'affanno verso il successo - che non credo esista in una dimensione di "liberazione" interiore - ma, piuttosto, per vivere un'esperienza con forti ripercussioni personali e di relazione con gli altri.
Pubblicare un libro, per me, significa prendersi una responsabilità collettiva oltre che personale. Non tanto per le cose che uno scrive tra le righe o non scrive con le parole, piuttosto per la scelta di viverle, di portarsele con sé quotidianamente. Ecco, per me, aver scritto un libro può essere paragonato ad andare in giro, tutti i giorni, con una borsa piena di ricordi, delusioni, sogni, fotografie e persone; entrare al cinema o al supermercato e notare che la gente guarda me e la mia borsa e dire a tutti che lì dentro ci sono le mie cose e che io le porto sempre con me. Ma senza imbarazzo.


Chi vorresti leggesse Transatlantici di carta?
Vorrei che i miei "transatlantici di carta" approdassero a delle rive. Non mi importa sapere a priori che rive sono. Ho imparato che ciò che scorre vicino all'acqua non può far male. Penso al mio libro come ad acqua che scorre, sarà anche per via del titolo, ma non solo per quello. Mi viene in mente che gli uomini che sostano in prossimità dei corsi d'acqua, quasi sempre, vivono di quello che giunge loro in modo naturale, senza affanno ma con impegno. Vorrei che chi si avvicina a Transatlantici di carta lo facesse con lo stesso motivo, senza fretta, senza obblighi, senza intenzioni pre-viste. Così, perché tutto ciò che scorre vicino all'acqua non può far male.

Che traccia vorresti lasciare in chi legge il tuo libro?
Le tracce che mi interessano maggiormente sono rappresentate dal "passaggio" stesso. Già il fatto che una persona si ritrovi il mio libro in mano, per quel che mi riguarda, è una traccia. Perché corrisponde a una scelta. E io credo che ogni scelta sia un po' una traccia di un passaggio fatto. Poi c'è tutta la storia degli effetti che le tracce producono, ma non si possono sapere tutti e, tantomeno - per fortuna - calcolare. Quindi preferisco pensare al passaggio, al movimento. È una traccia precisa.
Le storie che ho scritto stanno all'aria aperta e qualcuno le può leggere. È vero anche il fatto che qualcun altro può anche non vederle.
Un proverbio tuareg dice "si giudicherà di te in base al colore delle tue tracce".

Come si svolge il tuo lavoro di scrittore (è metodico, casuale, prendi appunti, scrivi solo al computer…)

Non considero la scrittura un lavoro. E forse questa è una fortuna. Credo, infatti, che la parola "lavoro" abbia a che vedere, troppo spesso, con qualcosa di pesante, di soffocante, di "tecnico". Non mi ritengo nemmeno un artigiano della scrittura, perché la parola artigiano, pur piacendomi tanto, fa pensare a qualcuno che, in ogni momento della vita, sperimenta, si esercita, propone, si applica in modo rigoroso.
Ecco il rigore e la disciplina sono cose che non mi si adattano molto, per carattere. Sono più un improvvisatore pensante, cerco di non essere troppo pesante con me stesso quando cerco di imparare qualcosa.
Mi ritengo un autodidatta in tante cose, anche nella scrittura. E secondo me nel termine autodidatta sono compresi limiti e risorse.

Perché ti sei lasciato coinvolgere dal fascino della scrittura?
La mia scrittura l'ho scoperta alle scuole medie, quando prendevo dei bei voti nei temi. Da allora la vedo come qualcosa che mi appartiene. Certamente ho fatto l'errore di non conservare in fotocopia i temi fatti durante il periodo della scuola dell'obbligo e quella superiore. È un pensiero che ho spesso. Come se mi mancassero dei pezzi. Ricordo i temi delle scuole medie e superiori come qualcosa di veramente mio, molto più della chimica, della filosofia o dell'educazione fisica. Io, quando la mattina sapevo che c'era il tema in classe, io ero contento.

Quali letture hanno lasciato in te un segno profondo?
Sicuramente i testi di Fernando Pessoa, perché alla fine credo di essere un esistenzialista romantico, anche se non mi piacciono le definizioni, ma a volte aiutano a capire meglio. Adoro il modo in cui Carver, con i suoi racconti, fotografa le situazioni "di tutti i giorni" e le colora, le rende caratteristiche. Mi piacciono le storie di Nick Hornby e i dialoghi di Cechov.
Gli scrittori italiani che rileggo ogni tanto sono Pavese, Buzzati, Fenoglio, Celati e Cavazzoni.
Ho una forte ammirazione per Giulio Mozzi, Paolo Nori, Emidio Clementi, Davide Bregola, Enrico Remmert, che sono persone che ho avuto modo di conoscere e che mi hanno dato degli stimoli.

Cosa auguri ai tuoi potenziali lettori?
Nel mio libro c'è un racconto breve intitolato "Sulla scrittura". In quel racconto si parla di ragazzi che si trovano in un piccolo appartamento di città per leggere delle poesie. Si ritrovano una volta alla settimana, di sera, spesso dopo cena. Ognuno di quelli che partecipano a questi incontri porta delle poesie. Credono che in quelle poesie ci siano parole migliori delle loro, di quelle che potrebbero trovare per parlare di sé stessi.

"Una sera qualcuno lesse una poesia senza citare l’autore. Chiesi chi l’avesse scritta. Ricevetti come risposta: 'Io'. Guardai il mio amico. Il nostro amico ci guardò con la bocca piena del sapore delle sue parole. Ci guardammo tutti e tre. Iniziammo a ridere.
Quando ci siamo accorti che anche noi, con i nostri mosaici di parole scritte, riuscivamo a raccontarci, a parlare di noi, a far prendere forma ai nostri pensieri che finivano su un foglio che prima era bianco, allora, quando ci siamo accorti che scrivere non vuol dire vendere migliaia di libri, ma essere capaci di leggere la vita attraverso un personalissimo modo di vedere e di dare un ordine alle cose, un ordine in continuo movimento, quando ci siamo accorti di questo, abbiamo pensato di dirlo a tutti quelli che non erano mai entrati in quell’appartamentino in città in cui si leggeva, si beveva, si ascoltava musica e si fumavano sigarette mai sprecate. Tutti gli altri.
Abbiamo pensato, allora, di dire a tutti che le parole non sono fuori ma dentro."

Questo è l'augurio.

(Fara Editore, dicembre 2003)

 

Gianfranco Bertagni. Architetture Utopiche

qui sopra Daniele (primo a dx) assieme a Corrado Giamboni (al centro) e Bolivar alla presentazione tenutasi al Papacqua di Mantova il 23 luglio 2004

qui sotto Daniele (prima a sx) nella stessa occasione

Gianfranco Bertagni. Architetture Utopiche

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