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Gianfranco Bertagni. Architetture Utopiche

Scheda:

Gianfranco Bertagni
(a cura di)
Architetture Utopiche

Intervista a Gianfranco Bertagni,
curatore di Architetture Utopiche

Come riassumeresti in 12 righe la tua biografia?
Sono nato a Palermo il 2 dicembre del 1971. La mia famiglia si è trasferita, due anni dopo, a Bologna.
Ricordo ancora alcune immagini di mio padre steso sul letto a preparare la sua tesi di laurea in lettere. Il 14 luglio del 1986 ho avuto un'esperienza su cui preferisco non soffermarmi ma che mi ha dato la prova certa dell'esigenza di una vita spirituale. Ho studiato matematica, poi mi sono dedicato alla filosofia. Attualmente godo di una borsa di studio dell'Accademia dei Lincei per il perfezionamento negli studi di storia
delle religioni.

Come nasce il desiderio di studiare la filosofia? Ci sono state occasioni biografiche particolari che ti hanno portato a diventare filosofo?
E' molto difficile rispondere. C'è sempre il pericolo di cadere in un'eccessiva semplificazione, nella banalizzazione. Posso dire questo: la filosofia, insieme alla religione, mi sembra un luogo privilegiato che dovrebbe essere frequentato da chiunque aspiri a una purezza di pensiero e di azione. Il mio approccio,
dunque, è abbastanza distante da interessi meramente storiografici o storico-filosofici.

Hai dei punti di riferimento per quanto riguarda la tua visione del mondo?
Ognuno, credo, potrebbe scrivere un libro intero dal
titolo "La mia visione del mondo"... Vi sono alcune tradizioni e alcuni autori con cui mi sento maggiormente
a mio agio. Ma non mi sento partecipe tout court di nessuna scuola, di nessun pensatore. Mi interesso soprattutto di mistica, principalmente antica e greco-ortodossa. Fuori dalla tradizione occidentale, mi appassiona sempre più la filosofia taoista. Anche il sufismo mi rapisce continuamente: leggere Rumi, Ibn
al-'Arabi o Hallaj è come entrare in una nuova dimensione. Tornando all'Occidente, tra gli autori contemporanei, i primi che mi vengono in mente sono Simone Weil, Elemire Zolla, Cristina Campo, oltre a
Mircea Eliade, su cui ho scritto la mia tesi.

Un filosofo può dire qualcosa di nuovo o rielabora, adattandolo alle nuove situazioni, il sapere degli antichi?
Tutto sta nel modo in cui si concepisce il concetto di verità. Se esiste una e una sola verità, la filosofia non può che essere l'indagine, da diverse prospettive e secondo diversi paradigmi storico-culturali, di alcune
idee - diciamo così - platoniche, invariabili. Se invece vi sono diverse verità, a seconda dei tempi, dei luoghi,
delle culture, delle convinzioni religiose, allora si potrà parlare effettivamente di novità. Personalmente la parola 'novità' non mi piace molto. Il culto del nuovo solo per il fatto che è nuovo mi sembra sinonimo di stoltezza. Eppure anche la filosofia ha le sue mode. Credo nell'esistenza di alcune verità 'sovra-culturali', 'sovra-temporali'. Ma pensare che solo gli antichi siano degni di studio e che l'epoca moderna significhi solo
crisi e decadenza, è altrettanto sciocco quanto lo è l'atteggiamento di cui dicevo poco fa. Dionigi Areopagita
o Pavel Floranskij? Che senso ha? Nessuno.

Come è nata l'idea di dare vita assieme ad altri giovani colleghi al gruppo di studi e ricerche filosofiche
arcipelago
?

Siamo un gruppo di studenti (ormai ex) della facoltà di filosofia di Bologna. L'idea era quella di creare una rivista di filosofia senza alcuna impostazione pre-definita, nella quale poter fare incontrare, in una prospettiva di dialogo e arricchimento, diverse prospettive e proposte. Si è cercato sempre, da una parte, di presentare autori o tematiche poco investigate dalla cultura accademica, e dall'altra, di mantenere un tono tale da non rivolgersi
alla solita élite di lettori specialisti.

Vedi un futuro per il libro tradizionale?
Credo che la vita del libro cartaceo, così come noi lo conosciamo, continuerà per molto tempo ancora. Le ricerche che si possono eseguire su supporti elettronici sono certamente notevoli e non si può neagare la loro utilita'. Ma pensare, ad esempio, di dover accendere un libro elettronico portatile per poter leggere un racconto
di Katherine Mansfield o un haiku giapponese... be', mi
fa venire i brividi.

A quale tipo di lettori pensi di poter più facilmente comunicare qualcosa?
Non ho intenzione di convincere nessuno. Io stesso
sono in ricerca. Ognuno fa il suo proprio percorso interiore. Ma tutti abbiamo bisogno di verità, di
bellezza, di quiete. Io le trovo in certi testi, in certi
autori, e mi permetto di presentarli, così come mi permetto di segnalare certi studi come fondamentali
per chi ha particolari esigenze, non esclusivamente culturali. Altri, però, possono trovare le stesse risposte percorrendo strade diverse. Per esempio la pittura.
Proust amava i quadri di Chardin, perché, benché i suoi oggetti siano quelli della più semplice quotidianità (caffettiere, bicchieri di vino, colini, saliere, coltelli; un uomo che legge un libro, una madre che insegna alla figlia il cucito, una donna che rincasa dopo essere stata
al mercato), tutto diventa limpidezza, calore, fascino.
Per chi riuscisse ad avere questo sguardo, la ricerca potrebbe dirsi conclusa. Platone, nella preghiera al dio Pan, in conclusione del Fedro, chiedeva di diventare
bello dentro, "e che tutte le cose che ho di fuori siano in accordo con quelle che ho dentro". Cosa volere di più? Derrida potrebbe forse aggiungervi qualcosa?

(Fara Editore, marzo 2000)

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