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Titolo Faranews
 

jonus
I. Francesco Jonus

rosenberg
II. Barbara Rosenberg

turessoIII. Graziano Turesso

zerbini
IV. Massimo Zerbini

niva
V. Niva Ragazzi

passigato
VI. Giovanna Passigato

pirozziVII. Gianluca Pirozzi

sannelli
VIII. Massimo Sannelli

de chirico
IX. Silvia De Chirico

carlucci
X. Lorenzo Carlucci

passerini
XI. Sara Passerini

cristianaXIII. Cristiana Morroni

Speciale vincitori concorso Prosapoetica 2009

Questo numero speciale di faranews è dedicato ai vincitori (prossimamente pubblicati in un volume a loro dedicato) del concorso
Prosapoetica terra/di/nessuno 2009. Di ogni autore si danno una breve presentazione, i commenti dei giurati e l'incipit della loro opera che potrete leggere integralmente nel volume in preparazione. Gli autori selezionati dai giurati per la pubblicazione in volume sono i seguenti:

1. Francesco Jonus con I giorni della ferita
2. Barbara Rosenberg con Pioggia
3. Graziano Turesso con Canto del bosco masticato
4. Massimo Zerbini con La dimensione di Hausdorff
5. Niva Ragazzi con L'uomo che fischia
6. Giovanna Passigato con Il café Alhambra e la città del vento
7. Gianluca Pirozzi con Di buon'ora
8. Massimo Sannelli con Diario
9. Silvia De Chirico con Ubaba
10. Lorenzo Carlucci con Prose ad Olimpia
11. Sara Passerini con Irraggiungibili
13. Cristiana Morroni con La cagna

Un grazie ai giurati (Alessandro Polcri, Chiara De Luca, Emilia Dente, Erika Crosara, Guido Passini, Laura Bonalumi, Roberto Cogo) e a tutti i partecipanti e complimenti ai vincitori!


I classificato

I giorni della ferita

di Francesco Jonus

La città, per me, è come una ferita.
Una città vista dall’alto è come una ferita aperta nel buio. È un bianco sfregio scavato nella terra, e sospira appena nel tocco incerto della notte.
Se vedi dall’alto una città, le immagini sfocate che puoi coglierne sembrano impresse in morbidi tessuti, pronte a cambiare forma, e anche a scomparire. Semplici parvenze, le strade diventano illusioni. Ci sono, esistono materialmente, ma è come se non portassero da nessuna parte. È ciò che mi accade quando mi sento così disperso in questa città.
Intendo questa percezione di un non luogo.
Recinti di lampioni proteggono la città, ma le strade sono inutili. Non rinviano ad alcuna destinazione.
Le palizzate di metallo abbracciano oggetti che hanno perso ogni funzione, che si portano addosso nomi spogliati da ogni valore.
Anche le città sono proiezione dei nostri stati d’animo. Qui mi sembra che andare in qualsiasi posto sia sempre un po' come non muoversi mai, non ripartire mai.
Ogni luogo ha la stessa tonalità di colore. E io ho cominciato a odiare questa città.

Tutto mi sembra una costrizione, un limite, mentre, appena due anni prima, questa stessa città mi appariva il luogo di ogni possibilità e desiderio.
Non è mai facile accettare come il dolore ci scolpisca le emozioni. Oppure come la felicità sia un bene che il nostro corpo consuma senza una possibile memoria del futuro.
L'uomo consuma tutta la felicità immediatamente. Un dio benevolo, forse, avrebbe costruito un uomo capace di far scorta di felicità. Invece, questa passione si disperde presto, annacquata pian piano da mille altri rivoli. Si spera di poter almeno serbare un ricordo, ma i ricordi dei momenti felici sono invisibili nei momenti cupi.

(…)

Francesco Jonus è nato a Montecchio Emilia (RE) il 4/5/1986 e attualmente risiede a Bologna. Frequenta la facoltà di Ingegneria Informatica di Bologna. Ha pubblicato alcuni racconti e poesie su diverse antologie collettive. Ha vinto il 2° premio nella sezione giovani del II Concorso di Poesia “Bottaccio” con l'opera “Mondo in nero”. Ha vinto il 2° premio nella sezione lingua italiana del concorso “Padre Gabriele Russo – III edizione” con l'opera “Inverno”. Ha vinto il 1° premio nella sezione giovani del concorso Il Lago verde – ed. 2009 con l’opera “Rosa Nera (8 Marzo)”.

Giudizi

«Una scrittura splendida, un ritmo interno, immagini nitide e cura stilistico-formale; registro mutevole della voce narrante-poetante in dialogo con se stessa, con l'altro e con l'ambiente urbano circostante; considerazioni precise e insieme sibilline; sovrapposizioni riuscite e coinvolgenti corpo-anima-città-relazioni; movimento ondulatorio di sensazioni e stati d'animo anche lontani risolti in modo inaspettato.» (Roberto Cogo)

«Prosa introspettiva, che riporta il cammino del protagonista/autore. Uno scritto discretamente costruito e grammaticalmente corretto. La lettura è piuttosto veloce grazie alle frasi corte e al susseguirsi d’immagini piuttosto pulite. Testo in alcuni tratti ermetico ma coerente con quello che considero il tema proposto dal titolo “La terra di nessuno”. Un cammino che rappresenta la vita, e la ferita è sempre lì, pronta a farsi sentire.» (Guido Passini)

«L'autore ha la capacità di armonizzare scrittura poetica e prosastica in modo da mantenere sempre labile il confine tra le due forme letterarie in un testo suggestivo per l'ambientazione, la capacità evocativa, la visione.» (Chiara De Luca)

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II classificato

Pioggia

di Barbara Rosenberg

§

Mi piace la pioggia.
Quando inizia a cadere mi sorprende, come se la vedessi per la prima volta.
Prima, poche gocce che lasciano piccole macchie, poi gocce sempre più grandi, che lavano la terra intorno.
Anche il suo suono mi piace, si svela lentamente. Prima ti sussurra vicino, poi ti parla ad alta voce, fino ad urlarti nelle orecchie.
E quell’odore, l’odore è proprio quello che preferisco. Ti sembra un retrogusto, qualcosa di dimenticato, un ricordo. Solo quando ti avvolge lo riconosci. Ma non puoi spiegare cosa sia.
Di cosa sa la pioggia? Di fango? Di cielo? Di vento?
La pioggia sa di pioggia.
Non a tutti piace la pioggia.
Forse solo a me e ai bambini.
Gli altri scappano, temono di bagnarsi. Come se venissero contagiati da un morbo, come se venissero inzuppati nel veleno.
Posso capirlo. Hanno paura. Paura di essere invasi, paura di venire sopraffatti. Paura di perdersi e diventare essi stessi pioggia.
Anche gli animali. Anche gli uccelli, tutti hanno paura.
Tranne me ed i bambini.
I bambini temono la pioggia solo quando i grandi decidono che è giusto così.
“E’ per il tuo bene, tesoro.”
“Ti viene la febbre, amore.”
Mentono. In realtà hanno paura del contagio. Che il loro figlio, la loro creatura non gli appartenga più. Che venga rapita dalla pioggia. Che appartenga a lei.
Ma se superi la paura o non fai in tempo a conoscerla, puoi davvero essere felice. Quando la tua chioma si bagna poco a poco, i tuoi rami vengono carezzati dalle gocce, le tue radici, che prima sentivano la terra asciutta, provano l’acqua e le tue foglie ne assaggiano il sapore, tu sai che non proverai mai gioia più grande.
Appartenere ad un’altra. Non potersi difendere. Essere suo.

(…)

Barbara Rosenberg è nata a Milano nel 1971. Scrittrice, ha pubblicato racconti con Rubbettino (Microracconti, opere d’inchiostro, 2002) e Newton & Compton (Racconti nella rete, 2003). Ha vinto il concorso “Pubblica con noi” con la raccolta di racconti Piccolo canzoniere di città (Fara, 2005) ed ha pubblicato Storie con un altro finale (Fara, 2007). Appassionata di teatro e musica, suona la tastiera e le percussioni esibendosi in spettacoli multimediali con il trio Emanuele Scataglini & “I Viandanti”. Laureata in Scienze politiche si occupa di comunicazione e ha fondato l’associazione culturale Equinozio di Milano, di cui è vicepresidente.

Giudizi

«È quasi un diario questo scritto che l’Autore ha voluto lasciarci. L’infanzia, il gioco, la famiglia, l’amore. La guerra. Tutto sotto la pioggia. Ricordi bagnati, inzuppati di pioggia e di voglia di tornare a casa. Siamo tutti uguali sotto la pioggia, tutti con lo sguardo alto, verso un cielo che regala gocce di speranza: “A casa Elena sente la stessa pioggia e si ricorda di me.” Intenso, ricco, il racconto di queste memorie appare dolce e crudo allo stesso tempo: come la pioggia che disseta la terra, lava il dolore; come l’acqua grossa e impetuosa, che travolge e cancella ogni cosa.» (Laura Bonalumi)

«La pioggia si fa tema conduttore di riferimento per tre diverse “variazioni” scritte con maestria e scelte con cura; tre aspetti lontani uniti da un filo di liquida suggestione; splendido il primo movimento costruito su una totale identificazione con l'albero svelata solo nel finale e il terzo movimento in cui la pioggia riesce a unire anche eserciti contrapposti.» (Roberto Cogo)

«L’opera si distingue per l'originalità del tono e la musicalità dell'andamento del discorso, che solo di tanto in tanto tende a prediligere l'una o l'altra forma espressiva.» (Chiara De Luca)

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III classificato

Canto del bosco masticato

di Graziano Turesso

Non è perchè m'è stretto il cielo
o gabbia il roveto o grave il terreno
o i rami prigionia
Non è per quello
è perché
si stanno masticando il bosco
è per quello che vado via

(Canto Del Bosco Masticato)

Un rumore appena più in là dello sguardo, appena a lato del passo appena pestato.
Si volta il volto a cercarlo, e già non c’è più, già si smorza e nasconde. E subito un altro più in là, appena più in là, e il passo levato indugia, vigile l’orecchio ma lento l’occhio. Dov’è?
Fossi belva, tu, io ti sarei preda.
Indifeso.
Inadatto.
Serpe che fuggi, lucertola che t’arrampichi, scoiattolo che ridi di me.
No, non sei belva, tu, sei bosco.
E il bosco ascolta, m’ascolta.
Non il suono che faccio, chiusa la bocca e nervoso il passo.
M'ascolta il suolo, attento, che vibra al passo mio vestito e tutto racconta. E già tutti mi sanno, qui, mi sa tutto il bosco.

(…)

Graziano Turesso vive a Como, dove è nato, da trentacinque anni. Lavora in una fabbrica tessile, come tutta le generazioni precedenti, almeno finché il mercato e l'ingordigia di chi lo governa non le avran chiuse tutte, quelle fabbriche. Han già cominciato, e pare ne siano davvero capaci. Scrive e legge per passione: scrive perché ama leggere, e provando a non essere influenzato da quello che legge.

Giudizio

«È un testo estremamente controllato e scritto con notevole precisione e con un ritmo interno molto forte che procura nel lettore la sensazione di una necessità e lo spinge in avanti. Canto del bosco Masticato si inserisce perfettamente in quello spazio poroso che è il confine tra la prosa e la poesia. La forza linguistica, tuttavia, non è la sola caratteristica di questa prosapoesia: essa, infatti, è anche una misteriosa meditazione sulla decadenza del bosco-mondo e sulla masticazione che lo spazio sacro della Natura subisce pezzo dopo pezzo. Il protagonista attraversa un bosco e in questa sua camminata vede ed è visto, sente gli sguardi delle varie entità naturali che lo circondano, avverte i suoni, percepisce le luci, incontra un vecchio che appare e dispare, e dialoga con un mondo che rappresenta un “oltre” puro che sta per essere “digerito”. Le potenti metafore dell’attraversamento e della vita “masticata” dal Male rendono questo racconto attuale e affascinante.» (Alessandro Polcri)

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IV classificato

La dimensione di Hausdorff

di Massimo Zerbini

Che cosa è questa strada che non ha più pietre?
Vedo solo muri, facce sconosciute e lampioni
I tuoi passi si perdono ignari, seguono la folla
È la pioggia che cancella ogni traccia nei miei ricordi
Dove va tutta questa gente?
Ti avrei atteso, lo avrei fatto
Ho cercato il tuo braccio e ho trovato il tuo rifiuto
Dicevi che non ero in me
Dicevi che avevo bevuto troppo.
Ho lasciato queste nubi cariche di menzogne
Sono rientrato mentre la notte era ancora sveglia
A letto ho lottato con la febbre e il sonno
I vestiti bagnati che inzuppavano il lenzuolo.

Sono tornato nel luogo dove le ombre cercano un orizzonte e una giustificazione
Ho perso i pensieri nel pozzo della solitudine.

(…)

Massimo Zerbini, scrittore e poeta, vive e lavora a Cremona. Ha pubblicato alcune poesie in raccolte di autori contemporanei curate da Libroitaliano e il romanzo Manoscritto trovato a Santiago con Prospettiva Editrice nella collana “Il Treno dei Desideri”. Attualmente sta completando l'editing di un secondo romanzo thriller.

Giudizi

«Un testo che mi ha catturato l’attenzione già dal titolo. Pensando alla dimensione di Hausdorff e restando a leggere attentamente le righe di questo testo, sono stato travolto dagli spazi che si protraggono nel tempo e nel significato. Ogni segmento di questo brano ha una sistemazione, ha un percorso tutto suo sovrapponibile all’altro, ma con la possibilità di essere anche visto in solitaria. Credo che l’autore abbia lavorato molto nella scelta delle frasi, delle immagini e dei sentimenti. La lettura è scorrevole. Apprezzato lo stile.» (Guido Passini)

«C’è un andamento narrativo eppure musicale del dettato, che forse si sposta però talvolta troppo nel territorio della poesia, marcando un confine che tende a circoscrivere leggermente la "terra di nessuno".» (Chiara De Luca)

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V classificato

L'uomo che fischia

di Niva Ragazzi

Sto seduto.

Sto sempre seduto io
in questo corridoio lungo e grigio: grandi finestre alte a quadrati di ferro e lontane porte antipanico rosse e nere
e dondolo le spalle e tengo le braccia attorno al mio corpo che sento morbidamente sotto le mie mani intrecciate sulla camicia a righe rosse e nere
io dondolo la testa e le spalle e fischietto adagio adagio
mi ricorda qualcosa questo motivetto così uguale, quattro note, un trillo, un’esplosione: ah, mi sento addosso il sole

Io vedo.
Domani saprò parlare
e dire
e spiegare.
Domani, certo.

È quello che mi dicono sempre, quelli là, quelli dietro la scrivania, quelli alti, quelli con il camice bianco: domani vedrai, ti ricorderai tutto, improvvisamente, vedrai.
È solo un blocco, dicono, dicono proprio così, un “blocco momentaneo della coscienza”.
Così parlano con me, perché capisco, dicono, tu capisci molto bene tutti i termini tecnici, dicono, capisci molto bene i termini medici…
Vedrai, vedrai, domani saprai spiegare.
Domani.
Ma adesso, io dico sempre, adesso, che cosa sono io.
Ed a quel punto, scuotono la testa, e smettono di parlarmi e poi dicono, andiamo, andiamo: ma andiamo dove, vorrei gridare.

(…)

Nata a Poggio Rusco in provincia di Mantova il 20 dicembre 1952, Niva Ragazzi vive a lungo a Milano, città in cui la famiglia si trasferì. Dopo gli studi superiori, entra nel mondo del lavoro, pur continuando a scrivere in modo amatoriale. Scrive racconti e poesie per riviste amatoriali di fantasy e fantascienza. Ha pubblicato con la casa editrice EDIGIO’ un libro per bambini dal titolo: Il conto di Sergio. Ha vinto il premio speciale ORTICADONNA – Premio Città di Forlì, V edizione, con il racconto “Francesca di Sera”; ha vinto il secondo premio alla V edizione del premio Le Donne Raccontano – EUROPADONNA, con il racconto “L’indomita”.

Giudizi

«C’è un uomo che non sa raccontare ma che ricorda una vita attraverso colori, sensazioni; attraverso il calore del sole. Senza voce, ma con un’anima piena di emozioni. “Io vedo. / Domani saprò parlare /e dire / e spiegare. / Domani, certo.”
E le rivede, quest’uomo, le sue emozioni, nitidamente, quasi a poterle toccare, sfiorare. C’è un uomo che pensa, che sogna ritmicamente seguendo il dondolio del suo corpo; solo, su una panchina in un corridoio di ospedale. Dondola la lettura, al ritmo di queste frasi, di queste parole lasciate come immagini sospese, ma ben definite e chiare; dondola, immaginando una triste melodia, cercando il suono di quel fischio che solo quest’uomo sa fare.» (Laura Bonalumi)

«Raccontare il silenzio dipanando i pensieri nella luce degli occhi: questa la sfida accolta dall’autore che incide una poesia sulle rocce dure dell’ enigmatico racconto.» (Emilia Dente)

«Viene inscenata la condizione del recluso attraverso un soliloquio-monologo incalzante e coinvolgente che lascia libero il lettore di immaginarsi una vicenda dall'esito drammatico: delitto e castigo, colpa e incendio della mente fanno da scenario al rovello interiore di un io in bilico tra coscienza e incoscienza, di un centro, pare, definitivamente perduto.» (Roberto Cogo)

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VI classificato

Il café Alhambra e la città del vento

di Giovanna Passigato

Specchi sprofondati
lune rovesciate
solo il calore di un singhiozzo.

Qualcuno potrebbe dire che questa città ha un portamento da regina ferita; altri, che è dolce e bugiarda; altri, ancora, che lievita su sette strati, come la città perduta che sorgeva su di un mare lontano, e ogni strato corrisponde ad un desiderio – a un orrore – a una trasmutazione.
Gli strati non sono separati, ognuno incunea le sue radici – o i suoi tentacoli – nell'altro; così altrettanto spessa e aggrovigliata è la coltre che ricopre la sostanza degli uomini, il loro nucleo fiammeggiante, sotto gromme di lava indurita. Non è dato spesso di vedere, per le vie, la nudità delle anime.

Alcuni luoghi sono innocenti – altri meno. Per esempio, nonostante il nome e l'esistenza che vi si conduce, è innocente il Barrio de Sangre, crocicchio di razze, di crimini, di dolori miserabili; perché là tutte le cose sono chiare nella loro definitiva angoscia: la violenza, la sopraffazione, la morte. Ma ognuno dei novantun piani dell'elegante Torre del Vento racchiude un segreto di cui i vetri scintillanti, che non fanno trasparire alcunché, sembrano avere vergogna.

Questo io so. Non è che un piccolo sapere, tuttavia; l'oscurità, intorno, è ben più sconfinata. Per esempio, io non so se il mio nome è Minna – o Maëve – come non lo sanno gli altri, i clienti al bancone.
Il Café Alhambra. A me pare, talvolta, che si tratti di un posto denso come una stella pulsar; è come il luogo dove si intrecciano tutti gli altri luoghi, approdo dei vivi e dei morti.
È ancora presto. La pianista albina sta provando un pezzo lamentoso, il suo vestito di serpi ondeggia tra gli abat-jour a perline; i velluti a rose blu dei divanetti respirano un sonno provvisorio – lenta è l'oscurità.

(…)

Giovanna Passigato, nata e cresciuta nel veronese, ora vive a Medicina, nella Bassa emiliana che ama particolarmente. Ha pubblicato Rappresentazione per le feste di Natale in una città della pianura padana (Manni Editore, 2002), Una lettera dalla nebbia (Perdisa, 2004, premio Arcangela Todaro-Faranda 2004) e L’albero che non voleva morire (R.E.R. 2005), Nel 2006, per la Bononia University Press, Il viaggio del Re Morto, romanzo che ha vinto il premio Arcangela Todaro-Faranda 2006. Nel 2007 ha pubblicato per la Bacchilega Editore Il paese infinito, finalista del premio Garda 2004, e Arcangela Todaro Faranda 2003.

Giudizio

«Le ombre e le luci, l’essenza e la forma, fluidi pensieri che tratteggiano il ritratto dell’essere sbiadito nel riflesso di prosa e poesia.» (Emilia Dente)

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VII classificato

Di buon'ora

di Gianluca Pirozzi

a Francesco Maria Battisti

Da oltre quaranta anni Gianni si alza di buon’ora. Negli ultimi anni poi, proprio quando la notte cede il passo alla prima luce del mattino, lui ha preso l’abitudine di indossare abiti comodi, ficcare i piedi nelle scarpe lasciate all’ingresso e far scattare un paio di volte il gancio del guinzaglio di Full, quel tanto che serve a svegliare il suo cane, per uscire di casa. Giù in strada, lui e Full fanno quasi sempre lo stesso percorso: marciapiede di Via Ricasoli, portici intorno a Piazza Vittorio e, a meno che non piova al punto d’accorciare la passeggiata, arrivano a Via dello Statuto e, da lì, attraversando Via Merulana, raggiungono il Colle Oppio.
Sia all’andata che al ritorno, Gianni e Full si muovono in completa e silenziosa armonia. Nella passeggiata di mezzogiorno o in quella della sera, loro due conservano la propria, distinta, identità al punto che, sebbene si muovano verso la stessa meta e da questa, ugualmente insieme, ne facciano ritorno, ciascuno pare animato da pensieri e movimenti che non sempre coincido. Di buon’ora, invece, l’uomo e il cane si aggirano per le vie del quartiere come parti di uno stesso corpo: rallentano, si fermano e riprendono a camminare, senza che l’uno contrasti, neanche marginalmente, con l’altro; Gianni modera il passo come anch’egli desideroso d’annusare qualche ruota, un angolo di marciapiede o un resto di cibo, e Full riduce la propria andatura, alcune volte scodinzolando, altre volte mettendosi seduto ad aspettare che Gianni abbia scattato, come ha preso l’abitudine di fare da qualche tempo, una fotografia ad uno dei tanti barboni che dormono sotto i portici della piazza o, quando la stagione è più calda, tra i giardini del Colle Oppio.

(…)

Gianluca Pirozzi, classe 1964, nato e vissuto fino ai diciotto anni a Napoli in una famiglia di artisti, ha vissuto fino al 2000 a Roma ove, dopo un lungo periodo professionale all'estero, è tornato a risiedere nuovamente dal 2008. È funzionario della pubblica amministrazione e si occupa di relazioni internazionali e di organizzazione. Da sempre è stato un appassionato di letteratura italiana e straniera perciò ha frequentato i laboratori di scrittura creativa (Valeria Vigano, Francesco Piccolo, ecc.) e successivamente ha iniziato a scrivere racconti. Da quattro anni è membro di giuria nell'ambito di manifestazioni letterarie dedicate alla prosa e alla poesia e ha introdotto opere letterarie e di poesie. La sua prima raccolta di racconti Storie liquide è in corso di pubblicazione.

Giudizi

«Il ritmo di questo raccontare, è forte. Devi prendere un grosso respiro e poi, leggere tutto d’un fiato un brandello di vita di Gianni. È un brandello, una parte di tempo come strappato da un’intera giornata: “… quando la notte cede il passo alla prima luce del mattino…”, ma forse, anzi quasi sicuramente, il momento in cui i pensieri si illuminano, proprio come il giorno, rischiarato dalle prime luci dell’alba. Lui, Gianni e il suo cane, lui e la solitudine di un amore prima saggiato e poi, violentemente fuggito. Non una banale descrizione del dolore, quanto la precisione di una solitudine grande, spessa e profonda, da toccare con il cuore, da sentire con l’anima.» (Laura Bonalumi)

«Racconto meritevole di nota descrive il percorso verso il suicidio finale del protagonista scandito dal suo progressivo mutismo. Come a dire che quando la parola si esaurisce anche la vita cessa. La lingua è semplice e piana.» (Alessandro Polcri)

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VIII classificato

Diario

di Massimo Sannelli

l’opera non è l’ombra di un vivo. oggi non so dire di più. se soffri per una forma, come se fosse VIVA [come se fosse donna; figlia] – non è una grazia? su una forma, oggi? ripeto: come se fosse viva. il pudore non ha detto «ti amo». perché? in questi giorni la realtà stessa (si tratta di persone) mi urla «non ti credo». io le rispondo: «taci. io continuo». ho scritto con il ritmo che può sconvolgere una mente rigorosa [è un’illusione, che ha]. lasciami stare, ho chiesto ad altri, poeti; perché io non sono un poeta

l’acqua è sempre chiara e il vento è fresco e Roma è bella.
non ho tradotto, ma confermato, TUTTI I TESTI: quindi confermare è l’intensità.
il regista esagera il poco, così mostrerà il molto. intanto il cuore accelera, accelera in realtà. il cuore ha emozioni imprecise: goditela, goditela! una scena è di sesso, l’altra di violenza. sei un attore vero, un buon allievo. così devo imparare questa gioia, perché è bella. in teatro dovrò dire: «adesso sono io che ho bisogno di te». e noi non siamo stati cattivi; e l’intensità non è mai morta

O questo. O niente.
ma non una pietà generica, una normalità senza luce.
O niente. O la mia vita. due giorni di riprese sono LA COSA NUOVA: tutto quello che c’era era tutto; e il mattino dopo, in un’altra città, in un caldo che abbaglia – hai il coraggio di dire: quello che ho visto mi manca, ed è vero, quello che ho fatto è buono, quello che è fatto sarà ripetuto, e sarai aiutato. disperando, a febbraio, a marzo, tornavi dalle prove – in una macchina – un attore guidava, e voleva essere un uomo, e parlava; applaudiva le prostitute, alzava le mani dal volante: complimenti bellissima complimenti! io gli dicevo: un’amica bella mi manca, la mancanza dell’aria fa paura, e io chiedevo l’aria

(…)

Massimo Sannelli è nato nel 1973 in quel di Albenga e vive a Genova. Saggista, poeta, attore e drammaturgo sta curando una nuova edizione della Commedia. Fra le pubblicazioni: Il prâgma. Testi per Amelia Rosselli, e-book, Dedalus, Napoli 2000. La femmina dell’impero. Scritti per un seminario sulla «vera, contemporanea poesia», EEditrice.com, Genova 2003. L’esperienza.
Poesia e didattica della poesia,
La Finestra, Lavis 2003. Philologia Pauli. Il corpo e le ceneri di Pasolini, Fara, Rimini 2006. L'ARIA. POESIE 1993-2006 (Puntoacapo, Novi Ligure 2009): versione definitiva, completamente riscritta, delle raccolte O (Cantarena, 2001; seconda edizione, Gammm), Due sequenze (Zona, 2002, con postfazione di Giuliano Mesa), Antivedere (Cantarena, 2003, con una postfazione di Marco Giovenale), La giustizia. Due poemetti (d’if, 2004), La posizione eretta (L’impronta, 2004), Madrigali (Ed. della Rafia, Albenga-Torino 2005; poi Biagio Cepollaro e-dizioni), Lo schermo (Feaci, 2006), Il mese Giugno (in Philologia Pauli, Fara, 2006).

Giudizio

«Lontanissimo dagli esiti pervicacemente sentimentali o consolatori in cui spesso scivola il genere, questo singolare “diario” si presenta invece come testimonianza nuda, come martirio di una intelligenza (o di una umanità, qui è lo stesso), vissuto nel corpo e nella mente, dentro al mondo, attraverso il segno della scrittura: è un attraversamento che domanda di essere ascoltato, di essere sempre una relazione, perché la “pura presenza”, da sola, forse non sarebbe in grado di “confermare” né la voce né la durata. Il discorso è lucido, franto perché essenziale, continuamente aperto eppure sfrondato; così l’autore: “le parti nude/ significano: questa miseria è mirabile”.» (EC) 

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IX classificato

Ubaba

di Silvia De Chirico

Cap.1 – 30 maggio
 
Ragazza-bassa alla finestra

Al piano di sotto Ubaba Dickson lava la veranda mentre sua moglie cantando cucina le verdure, la signora Giovanna grida qualcosa a sua figlia, il gatto bianco dorme tra l’erba, e tu dovresti accudire dei bambini e non: fumare sigarette fino a notte guardando Porta a porta solo perché ti distende la sigla di Via col vento.
Lo vuoi sapere, ha detto Ubaba, perché non ho mai sopportato questa città? Perché le donne sembrano manichini e perché devi stare attento alle rotonde, e queste cose non ci sono in Sudafrica.
Io invece avevo un amico, ho detto a Ubaba, abitava qui dove ora vivi tu e gli entravo in casa dalla finestra, ma se n’è andato adesso.
 
La prima volta mi tremavano le gambe: avevo bussato sul vetro e gli avevo dato un piatto enorme di tiramisù che avrebbe steso un cavallo, mi ha fatto un buffetto sulla guancia sporgendosi sul davanzale con le sue braccia spagnole e poderose e mi ha detto entraaa, la cucina era buia e lui mangiava insalata ai cetrioli e guardava il gran premio ed era bellissimo.
Odore di bucato.
 
Perché a volte se ne va tutta, l’allegria con cui guardi le cose, Ubaba? Gli infradito colorati non conoscono più l’estate e la spremuta del mattino è acida.
 
La seconda volta mi tira su a forza dal balcone come fossi un sacchetto - Ubaba ride - e mi fa un livido enorme sul ginocchio! Ma è passato poi! Ubaba non mi crede. Neanche io credo che è passato un anno da quel giorno, non ci credo perché faceva caldo e tutto sembrava possibile, mentre ora piove e non è possibile più niente. Ora al piano terra vivi tu signor Dickson, con la tua donna robusta con il turbante, e in quella casa io non ci posso entrare, solo ci passo davanti tutti i giorni e mi viene da piangere.
 
Ma funziona così credo; forse sarei dovuta entrare dalla porta.

(…)

Silvia De Chirico ha in preparazione uno spettacolo-installazione e un'opera di poesie “Le stanze del sole”.

Giudizio

«Il racconto, in cinque brevi “capitoli”, narra di una storia d’amore finita; tale storia d’amore conserva però il pregio di aver avuto inizio, insolitamente, entrando dalla finestra. Interessante allora è la freschezza di alcune descrizioni, che conferiscono una nota di originalità all’intero testo; il modo di tradurre le maglie del sentimento, restituito a tratti da immagini di notevole impatto (“ho gli occhi abbattuti di una gialla maddalena sotto la croce”; “la croce è l’orologio fermo sempre alle 19:23”;); l’uso di espressioni e modi immediati, che pescano (felicemente) dalle situazioni e dal registro più quotidiani (“la cosa m’inteneriva a morte”; “piccolo cane morboso da condominio”). Si tratta di una scrittura che dà il meglio di sé nella brevità, nel momento minimo capace di ricreare, o creare, un piccolo mondo privato. Non c’è tragedia, alla fine: permane invece un carattere, singolare e bello nel suo accento femminile, di levità.» (Erika Crosara)

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X classificato

Prose di Olimpia

di Lorenzo Carlucci

Lamento i tempi d’Olimpia, i giorni passati al mare, gli aghi di pino tra le pieghe delle vesti, a sera, lo scorrere del tempo percepito come la crescita inaudita di una pianta, non come un sequent toil ma come un immobile riordinamento di granelli di sabbia, in una omogeneità. Ed io seduto al bar posso guardare Olimpia sulla spiaggia, e lo spazio tra noi, e il tempo che le ci vorrebbe per raggiungermi, qualora volesse, qualora smettesse di giocare coi ragazzi e chiacchierare o solo di essere distratta da risacche, il tempo che le ci vorrebbe per raggiungermi, stirred by la sabbia che scotta le fette, sono già riempiti dalla loro stessa sostanza, ossia dall’aria tra me, al bar, che bevo e saluto i transessuali, e Olimpia in riva al mare, che non ci pensa neanche a tornare.

§

Questo tempo e spazio, brevi, sono come una membrana, sono già riempiti, sono già il movimento che rendono possibile, il mio toccare Olimpia, qualora
si decidesse a venire a darmi un bacio, o qualora io schiodassi il culo dalla sedia. Sono tempo e spazio, qui al mare, una distanza gi`a attraversata, misure già colme, sono già il mio braccio teso, uguale allo sguardo pigro sopra il bicchiere di aranciata, uguale allo sguardo dolce e misterioso di olimpia che forse vede solo il vento e non me, sopra la spalla.

(…)

Lorenzo Carlucci, nato a Roma nel 1976, è Ricercatore presso il Dipartimento di Informatica dell'Università La Sapienza di Roma. In poesia ha pubblicato La Comunità Assoluta (ed. Lampi di Stampa, collana festival, 2008), e Ciclo di Giuda e altre poesie (ed. Arcolaio, 2008). Nel 2009 ha ricevuto il "Premio Speciale" Ceppo di Pistoia, con Carlo Carabba e Valentino Ronchi.

Giudizio

«Il testo percorre una trama trasparente – dominata dagli elementi acqueo ed etereo – dalla quale emergono coordinate spazio-temporali e tracciati concreti, delineati da una misura mobile che ridefinisce e reinventa le distanze; i personaggi e le figure si muovono infatti dentro un metro di volta in volta antropomorfo (“braccio teso”; “braccio troppo corto”), geografico (le “highways”), o commisto ( il “sorriso”-“radar”; la “palpebra rialzata”-“mare”-“lago”). Della mescolanza sempre inedita in cui risultano accadere il reale e l’esperienza, la scrittura riesce a restituire una prospettiva coerente anche dal punto di vista dello stile, e il verso lungo sceglie infatti una misura; puntualmente, l’autore indica “un tessuto/ di segnali” che “battono come i tasti/ di una macchina da scrivere”.» (Erika Crosara)

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XI classificato

Irraggiungibili

di Sara Passerini

Ho pensato a lungo a quale fosse il senso del mio essere, al perché di certi pianti spossanti, profondi fino alle viscere, alla ragione della rabbia che chiude lo stomaco e dà una forza violenta agli arti. Ho cercato di capire perché dovessi incolparmi di ogni cosa, sentirmi spesso inadeguata, al perché questo mondo corra così in fretta.
Volevo indagare la semplicità maschile, quel regno che ai miei occhi pareva lineare, Senza complicazioni.
Il vaso dei fiori blu è caduto a terra, ed io ho pianto tra i cocci, nell’umido del pavimento come in un rifugio profumato in frantumi. Tu non ci sei. Tu non rispondi. Tu sei l’altrove. Sei un mistero che turba e intriga, come un antico rito di passaggio. Non oso pensare ad altro, le cose mi scalfiscono dall’interno, Non posso sprofondare nel giornale, abbandonarmi ad un film, incontrare qualcuno. Immersa nell’ansia, nuoto senza ossigeno nelle profonde acque del tuo vuoto.
La pazzia è femminile. Il potere è maschile. Io sono maschile e femminile insieme, come ognuno.

(…)

Sara Passerini è nata il 15 ottobre 1982 in Trentino Alto Adige, si è laureata in Arti dell’Immagine, della Musica e dello Spettacolo presso l’Università degli Studi di Ferrara e si considera un’esploratrice di gesti, di strade, di parole. Coltiva tre grandi passioni: il teatro, la scrittura e i lunghi viaggi ed è alla costante ricerca di un qualcosa che le muta tra le mani appena crede di possederlo. Rischia spesso di perdersi in questa ricerca, ma fortunatamente è circondata da persone preziose che come un bussola non le fanno perdere di vista la direzione che porta all’essenziale.

Gudizio

«Il testo è impostato in modo particolare rispetto a una classica narrativa. È basato su un dialogo tra autore e antagonista, o lettore come se fossero uno di fronte all’altro. Un messaggio che mostra un’altra facciata della terra di nessuno. A volte il testo rischia di inciampare in alcuni punti dove è più orale che scritto, ma premierei questa prova, che a mio avviso è ricca di similitudini interessanti.» (Guido Passini)

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XIII classificato

La cagna

di Cristiana Morroni

L’importante è imparare a sedersi comodi. Postura. Stazione. L’atteggiamento giusto per trovare le parole da scrivere. Nella mente. Perché progettare è complicato. Figuriamoci un pensiero. Struttura e senso. Sembra uno scherzo. Cercare la posizione.
Come una cagna che ha desiderio di sdraiarsi.
Questo avrebbe pensato se gli avessi concesso ancora parole.

Non concedi parole perché fanno male, perché quella catena al collo non sei riuscita a spezzarla mai. Cagna. Costretta a vivere vicino alla tua cuccia. Quattro assi per tetto. Una carezza ogni tanto. In attesa. Di quali occhi? Stappi una birra. Prepari due bicchieri. Anche se ora di due non ne hai più bisogno. Due. Per abitudine e per ricominciare a muovere la coda di felicità. O forse è solo fame. Ombra e silenzio. Irreale. In questa stanza che non esiste. Respira. Chi?
Qualcuno accanto alla cuccia dalla quale guardi il mondo.
Non era quella la mano che volevi ti accarezzasse la testa.
Pat, pat. Brava la mia cagnetta.

(…)

Cristiana Morroni è nata a Roma e vive ai Castelli Romani. Le canzoni del silenzio (Ragusa Editore, 1990) è il titolo della sua prima pubblicazione e come autrice è presente in varie antologie poetiche. Nel 2006 ha vinto il Premio di poesia "Logos" ed è stata finalista per "Io-scrivo". Altro: Ci fosse il vento (Giulio Perrone Editore, 2006), Smile Again (Giulio Perrone Editore, 2007). Ha curato una postfazione poetica al libro di carattere scientifico Lo spettro autistico Pizzamiglio-Zotti (Franco Angeli Editore, 2008). In settembre è prevista l'uscita del suo ultimo lavoro Omen Nomen (silloge poetica, ed. PerroneLab)

Giudizio

«Storia tragica con immagini intense ed enigmatiche, è un racconto pieno di forza visionaria. La violenza reale e immaginaria ne fanno una riuscita meditazione sulla inutilità del male inflitto a chi non può difendersi.» (Alessandro Polcri)

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