Logo Fara Editore Fara Editore

L'universo che sta sotto le parole
home - fara - catalogo - news - scrivi - faranews
Titolo Catalogo
presentazione - argomenti - autori e titoli - librerie

AA. VV. Le voci dell'arcobaleno

Filologia di una morte

recensione di Cristina Babino
a Philologia Pauli di Massimo Sannelli

La morte di Pasolini è un lascito fragoroso, ancora a distanza di decenni, un’eredità pesante e gravida, un avvenimento che tuttora scuote intellettuali, storici, giornalisti, e divide quell’informe invenzione mediatica che s’usa definire opinione pubblica. Un Pasticciaccio brutto, un crimine maturato nei bassi fondi di borgata e nella depravazione – secondo la versione ufficiale tramandataci dai tg in bianco e nero e dalle colonne ormai ingiallite dei giornali dell’epoca. Oppure un nefasto complotto politico, una spietata congiura messa in atto per eliminare un testimone scomodo dei tempi, un poeta che non si accontenta di scrivere versi ma che, come il San Tommaso nell’olio del Caravaggio, insinua l’indice scrutatore nelle piaghe di un Paese di cui intravede già il declino, di cui subodora il “falso benessere”, le secolari tare, le moderne vergogne. Ma i morti, a volte, parlano, soprattutto se non hanno taciuto in vita. E a volte parlano attraverso la loro stessa morte.
Pasolini parla ancora, e a voce se possibile più alta, nella negazione del suo essere, nel mistero – e nel mito - di un assassinio feroce mai del tutto spiegato. Un enigma che l’approssimazione colpevole di indagini mal condotte, mal pensate, probabilmente mal dirette fin nell’intenzione, non ha aiutato a risolvere. Oppure. Che Pasolini la sua morte se la sia scelta, voluta, in qualche modo preparata. Un’esistenza eccessiva e straordinaria, una vita vissuta, forse, come un “esercizio di morte”.
La fine terrena di Pasolini come un’ultima, estrema, predica agli uccelli – uccellacci e uccellini - il tentativo finale di chiamarli a raccolta, sopra il cofano di una vecchia Alfa Romeo arenata sul lido sudicio di Ostia.
Un poeta è un profeta. Se non nel senso etimologico (colui che annuncia avvenimenti futuri – e Pasolini fu anche quello, benché sia forse più giusto dire, con Mario Luzi, che più spesso seppe unire i pezzi del presente in una visione futura, come in Petrolio) – lo è sempre nel senso letterale (colui che dice, proferisce – e chi più del Pasolini corsaro o regista).
La poesia, allora, come necessità, urgenza, bisogno impellente e fatale. E la morte, quindi, come estremo canto, racconto finale. La morte di Pasolini, infine, come ultimo capitolo, epilogo di una vicenda poetica, ancor prima che umana.
Abbracciando la tesi di Sannelli – la morte di Pasolini come estremo testo, e gesto, poetico – si legittima anche l’ipotesi di una possibile esegesi della sua fine come filologia di un ultimo documento letterario. Un testo poetico da leggere come atto performativo, come “la consegna di sé ad un progetto stilistico e rituale”, come una drammatica postilla scritta a lettere di fuoco in calce a un’opera aperta lasciata volutamente tale.
Non si tratta qui solo della “confusione tra arte e vita, tra letteratura ed esistenza”, bensì della morte come sigillo a un’esperienza biografica che nella poesia dei versi e delle immagini cinematografiche, così come nei romanzi e sui giornali, ha iscritto il lacerante testamento di un uomo, di un letterato, di un artista, di un intellettuale engagé. Di una “bestia da stile”.
La Philologia Pauli di Massimo Sannelli è poesia essa stessa; è uno struggente, nobilissimo tentativo di restituire senso e dignità al massacro di un poeta, ma è anche un tributo eminente alla sua opera e alla sua eredità, a un’esistenza che si fa monumento di se stessa proprio nell’istante in cui tragicamente si spegne. Qualcosa in meno del suicidio, qualcosa in più dell’assassinio.
Allo sviluppo della tesi principale, Massimo Sannelli aggiunge un corredo di scritti (di cui fa idealmente parte anche l’affascinante, sentita introduzione di Gian Ruggero Manzoni) che moltiplicano, come sassi gettati in uno stagno, prospettive e riflessioni, dalla forza a un tempo centrifuga e centripeta, incatenati in una serie infinita di rimandi che, paralleli e meridiani, dall’esperienza poetica di Amelia Rosselli passano, tra l’altro, per Antonio Porta, attraverso Edoardo Sanguineti e Pier Vittorio Tondelli, fino a toccare gli esiti più recenti della critica e della poesia contemporanea. Un cerchio che si chiude con la silloge Il mese di giugno dello stesso Sannelli: venti poesie che hanno il respiro sacro e commosso dell’ex-voto, l’umiltà altissima del dono.

Torna all'inizio

grafica Kaleidon © copyright fara editore