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Gianfranco Bertagni. Architetture Utopiche

Il libro

Intervista ad Armando Conti
autore di Stati di nebbia e altri racconti

Cosa puoi dire di te a chi non ti conosce per dargli una idea di chi sei, di cosa ti piace, del tuo passato di autore e non solo?
Come hai scoperto l’amore per la scrittura e quali sono stati i tuoi testi “capitali”?
Cosa pensi del mondo del libro oggi?

Posso cominciare da dove voglio?
Bene.
Allora… Dalle mie parti c’è una stradina che si perde nella campagna. “Strada della Maestà dei Violini”, si chiama. Sono anni che, ogni tanto, ci passo davanti e, mentre passo, do un’occhiata di sfuggita. Mi piace il nome e ancora di più il suo serpeggiare e perdersi nella pianura fin chissà dove. Ma non l’ho mai percorsa. Alcune curiosità sono destinate ad aspettare, prima di essere appagate.
Oppure… Un giorno, sarà stato il febbraio di un paio d’anni fa, ho alzato la mano e ho raccolto, tra i rovi che pendevano da un vecchio pergolato, un grappolo d’uva strinato dal gelo. Mentre assaggiavo con circospezione un acino amaro, ho individuato tra gli arbusti il tronco contorto della vite, tanto grosso che non riuscivo a circondarlo con entrambe le mani. Era quanto restava della piccola vigna che, in base al capitolato delle Regie Ferrovie, con il forno e poche altre cose costituiva l’arredo esterno dell’abitazione del “guardafili”, una specie di cantoniere che sul finire dell'800 aveva l’incarico di sorvegliare, armato di schioppo e sciabola, un tratto dei binari. Oggi è solo uno dei tanti “caselli” abbandonati e fatiscenti lungo la Parma-La Spezia.
Sono solo due esempi e, sinceramente, non so neppure quanto possano essere esemplificativi per chi mi ascolta.

Il mio lavoro mi porta spesso in giro per luoghi appartati e solitari (e, intendiamoci bene, possono essere tali anche se le automobili sfrecciano a pochi metri di distanza); a volte mi fa incontrare persone che dal microcosmo della loro vita e della terra che li circonda hanno elaborato personali teorie sulle cose del mondo e sulle leggi che governano l’universo.
Sarà una specie di effetto collaterale, ma da questi luoghi e da questi incontri io, senza volerlo e senza neppure accorgermene, mi porto via pezzi di ricordi non miei, frammenti di piccoli miti locali, zoologie fantastiche, storie reali, sognate o solo possibili, e tante altre cose, che continuano a girarmi disordinatamente per la testa. A volte se ne stanno buone per anni e, ad un certo punto, riaffiorano improvvisamente alla memoria.

Ora, se io fossi un brillante conversatore, forse mi accontenterei di liberare tutte queste fantasie e questi embrioni di storie tra i tavolini di un bar, ma, siccome non sono un abile intrattenitore e in queste situazioni sono piuttosto quello che ascolta, solo la scrittura mi consente di scontare un processo affabulatorio per me abbastanza lungo e faticoso.

Io sono nato l’8 giugno del 1959, ho fatto senza infamia e senza lode i miei bravi studi classici e poi quelli scientifici, e posso parlare con cognizione di causa solo di quello che conosco. Ne consegue che quello che scrivo e descrivo è saldamente legato al territorio in cui vivo e a un mondo empirico che potrebbe anche diventare sperimentale, qualora si verificassero - e talora succede anche per le situazioni più strane e fantastiche - quelle particolarissime condizioni di contorno che proiettano nel reale anche l’irreale.

Ho letto abbastanza per studio e altrettanto per piacere, ma sono sempre stato un lettore poco metodico; poi, a un certo punto, ho scoperto che il mondo che conoscevo non era solo quello del qui e dell’ora, ma che poteva non avere confini di tempo e di spazio: mi trovavo benissimo tanto nei mondi contigui e geograficamente vicinissimi di Malerba alla scoperta dell’alfabeto e di Cavazzoni vagabondo per la pianura e per biblioteche notturne, quanto nelle pampas di Soriano; nelle divagazioni per la campagna inglese di Sterne, quanto nelle foreste di Turgenev…

Io, la mia tesi di laurea l’ho battuta con una IBM elettrica a testina rotante e le copie le ho fatte con una fotocopiatrice; se mi fossi laureato qualche anno prima, avrei dovuto usare strati alternati di carta velina e di carta a carbone e pigiare forte sui tasti di un vecchio arnese meccanico. Probabilmente, se non ci fosse il computer (e prima ancora certo cinema e certa televisione), non mi sarei mai messo a scrivere nulla di più di relazioni tecniche e di altre cose “utili”.

Leggere, si può leggere sia su una pagina di carta che su un monitor. Eppure, ancora oggi, non c’è nessuna tecnologia che possa sostituire il piacere di salire in equilibrio precario in piedi su una sedia (se si è da soli senza togliersi neppure le scarpe), per prendere un libro dallo scaffale alto; poi sedersi e sfogliarlo.
Il libro dà peso, volume e consistenza alle parole, le coglie e le fissa definitivamente in una forma e in una sequenza.
Le parole sono ancora troppo fragili per lasciarle vivere solo negli effimeri flussi elettronici di un circuito.

(Fara Editore, febbraio 2005)

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