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Scipio Slataper - Il mio Carso

Scheda:

Scipio Slataper
Il mio Carso

L'infanzia di Scipio Slataper

Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C'era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio [letame, n.d.e.] quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro. Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D'inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi.

Mamma m'infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.
Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son venuto qui [a Firenze, n.d.e.], ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l'italiano, ho scelto gli amici fra i giovani piu' colti; ma presto devo tornare in patria perche' qui sto molto male. Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste.

Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono
un povero italiano che cerca d'imbarbarire le sue
solitarie preoccupazioni. E' meglio ch'io confessi
d'esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi. Le vostre obiezioni mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v'ascolto disinteressato e contento, e non m'accorgo che voi state gustando la vostra intelligente bravura. E allora divento rosso e zitto, nell'angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento.

Penso avidamente al sole sui colli, e alla prosperosa liberta'; ai veri amici miei che m'amano e mi riconoscono in una stretta di mano, in una risata calma e piena. Essi sono sani e buoni. Penso alle mie lontane origini sconosciute, ai miei avi aranti l'interminabile campo con lo spaccaterra tirato da quattro cavalloni pezzati, o curvi nel grembialone di cuoio davanti alle caldaie del vetro fuso, al mio avolo intraprendente che cala a Trieste all'epoca del portofranco; alla grande casa verdognola dove sono nato, dove vive, indurita dal dolore, la nostra nonna.

Era bello vederla seduta nella larga terrazza spaziante
su enormi spalti le montagne e il mare, lei secca e resistente accanto all'altra mia nonna, la veciota venesiana, rubiconda e spensierata, che aveva quasi ottant'anni e le si vedeva ancora il forte palpito azzurrino del polso sollevarsi e cadere nella pelle morbida come una foglia. Questa mi parlava dell'assedio di Venezia, del sacco di patate in mezzo la cantina, della bomba che fracasso' un pezzo di casa. E aveva un fazzolettino bianco sui pochi capelli fini, ed era allegra. Quando veniva a mangiare da noi, babbo le diceva sempre: "Beati i oci che i la vedi".

Ma allora essa non m'interessava. Io filavo in campagna a giocare con gli alberi.

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